Cassazione toga nera

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 24 marzo 2014, n. 13833

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 8 ottobre 2012 la Corte d’Appello di Lecce, in ciò parzialmente riformando la decisione assunta dal locale Tribunale, ha riconosciuto C.D. responsabile del delitto di cui all’art. 485 cod. pen., così riqualificato il fatto originariamente contestato come falsità materiale in certificato amministrativo, per avere contraffatto un bollettino di versamento della somma di Euro 724,88 in favore dell’Acquedotto Pugliese s.p.a., apponendovi un falso timbro di quietanza per far risultare il pagamento, in realtà mai avvenuto, di canoni del consumo di acqua del condominio G. , del quale la C. era stata amministratrice; il giudice di appello ha quindi tenuto ferma la condanna dell’imputata alla pena già inflittale, pur riconoscendole le attenuanti generiche, e al risarcimento dei danni in favore della parte civile Banca Popolare Pugliese s.p.a..
1.1. Il falso documento era stato fatto pervenire all’amministratrice succeduta all’imputata per il tramite del marito di costei, P.M. , che ne aveva fatto consegna al geom. Gi.Ma. . La falsità era emersa allorquando la Banca Popolare Pugliese, richiesta di confermare il pagamento risultante dalla ricevuta, aveva constatato la contraffazione del proprio timbro di quietanza e l’apposizione di una sigla non proveniente da alcun proprio operatore.
2. Ha proposto personalmente ricorso per cassazione l’imputata, affidandolo a tre motivi.
2.1. Col primo motivo la ricorrente, rilevato che il reato ascrittole a seguito della riqualificazione del fatto è perseguibile a querela, eccepisce la mancanza della condizione di procedibilità e, comunque, la tardività della denuncia, se ritenuta equivalente a querela.
2.2. Col secondo motivo deduce violazione dell’art. 597 cod. proc. pen. per essersi tenuta ferma l’entità della pena, malgrado la disposta applicazione delle attenuanti generiche.
2.3. Col terzo motivo deduce illogicità della motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità. Sostiene di non aver tratto dalla vicenda alcun profitto, non avendo mai raccolto dai condomini le somme necessarie al pagamento della bolletta; osserva che la data impressa con il falso timbro era successiva alle proprie dimissioni e ricadeva nella gestione del nuovo amministratore, onde non vi era per lei alcun interesse alla falsificazione; contesta di essersi accordata per compensare la somma in questione coi canoni arretrati da lei dovuti per l’appartamento locatole, mentre indica nel Geom. Gi. , nell’Arch. G. (unico proprietario dell’edificio) o nella nuova amministratrice gli unici soggetti realmente interessati al compimento dell’illecito. Ad illustrazione dell’assunto fa seguire la rievocazione della tempistica dei fatti.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.
2. Ciò non è a dirsi del primo motivo, essendo priva di fondamento l’eccezione di improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela. Ed invero, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la querela si trova agli atti del procedimento e risulta essere stata proposta il 7 novembre 2008, cioè nel pieno rispetto del termine di tre mesi imposto dall’art. 124 cod. pen.; la decorrenza di detto termine, infatti, si colloca cronologicamente alla data del 5 settembre 2008, corrispondente alla ricezione della lettera che ha indotto nella Banca Popolare Pugliese la conoscenza dell’avvenuta falsificazione. Né vale sostenere che l’atto abbia avuto, in realtà, il valore di una mera denuncia, atteso che nel suo tenore fa spicco la richiesta di “punizione dei colpevoli”.
3. Maggior fondamento non può riconoscersi al terzo motivo, che viene qui in considerazione per la sua logica priorità rispetto al secondo. Con esso la ricorrente, articolando molteplici censure, s’indirizza a contrastare la linea argomentativa posta dal giudice di merito a base dell’affermazione di colpevolezza.
3.1. A confutazione di quanto dedotto vale osservare, anzitutto, che l’interesse della C. a falsificare la ricevuta, per far apparire saldato il debito verso l’Acquedotto Pugliese, non doveva necessariamente ricollegarsi ad uno scopo di profitto; infatti il fine di procurarsi un vantaggio, posto dall’art. 485 cod. pen. ad elemento costitutivo del reato sub specie del dolo specifico, non si identifica necessariamente nel perseguimento di un’utilità di carattere patrimoniale, ma anche semplicemente morale, come è a dirsi dell’intento di far apparire adempiuto un obbligo rimasto invece inevaso; e ciò va detto anche a prescindere dalla considerazione per cui, se non ne fosse emersa la falsità, l’ostensione della ricevuta avrebbe recato l’effetto di sottrarre l’amministratrice alla responsabilità verso i condomini per i danni causati dal mancato pagamento.
3.2. Tanto precisato, nessuna valenza può riconoscersi, nel presente giudizio di legittimità, alle argomentazioni con cui la ricorrente, addentrandosi nel merito, pretende di addebitare la responsabilità al condomino G. (in realtà unico proprietario delle unità immobiliari costituenti il cosiddetto condominio), ovvero al suo dipendente Gi.Ma. , o ancora alla nuova amministratrice R.G.M. ; si tratta, invero, di mere ipotesi basate ora su supposizioni indimostrate, ora sulla valorizzazione di elementi fattuali di neutro significato (come la data apposta al documento contraffatto), finalizzata inammissibilmente ad accreditare una ricostruzione del fatto alternativa a quella motivatamente recepita dal giudice di merito.
4. È invece fondato il secondo motivo di ricorso.
4.1. Con la sentenza di primo grado il Tribunale di Lecce, riconosciuta la configurabilità del contestato reato ex artt. 477 e 482 cod. pen., aveva condannato la C. alla pena di mesi quattro di reclusione, corrispondente al minimo edittale. La Corte d’Appello, riqualificando il fatto nell’area del reato, più gravemente punito, di cui all’art. 485 cod. pen., mai avrebbe potuto aumentare la pena, in difetto di impugnazione del pubblico ministero: sicché, avendo deciso di riconoscere all’imputata l’applicazione delle attenuanti generiche, aveva l’obbligo di far luogo alla corrispondente riduzione di pena in ottemperanza al disposto dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen..
4.2. L’aver tenuto fermo il trattamento sanzionatolo, pur in presenza delle attenuanti generiche, presuppone l’aumento della pena base da quattro mesi a sei mesi di reclusione: il che si traduce in una manifesta violazione di legge. In proposito va ricordato il principio, già ripetutamente affermato da questa Corte Suprema, secondo cui il divieto della reformatio in peius nel giudizio di appello riguarda non soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena: sicché, in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato in ordine alle circostanze o al concorso di reati, discende non solo l’obbligatoria diminuzione della pena complessiva, ma anche l’impossibilità di elevare la pena comminata per singoli elementi (così Sez. 5, n. 14991 del 12/01/2012, Strisciuglio, Rv. 252326; v. anche Sez. 2, n. 45973 del 18/10/2013, A., Rv. 257522).
5. È possibile emendare il vizio in questa sede in quanto non sono richiesti a tal fine ulteriori accertamenti o valutazioni incompatibili con la cognizione di legittimità, essendo sufficiente ricondurre la pena base all’entità sortita dal giudizio di primo grado. Pertanto, annullata in parte qua senza rinvio la sentenza impugnata, si ridetermina la pena in mesi due e giorni venti di reclusione, quale risultato della riduzione di un terzo della pena base di quattro mesi di reclusione.
6. Poiché il parziale accoglimento del ricorso investe soltanto il trattamento sanzionatorio, fermo il rigetto nel resto, non ne viene intaccata la soccombenza dell’imputata nei confronti della parte civile; a questa, pertanto, compete la rifusione delle spese di difesa sostenute nel presente giudizio di legittimità, che vengono liquidate in complessivi Euro 2.000,00, da maggiorarsi in ragione degli accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, che ridetermina in mesi due e giorni venti di reclusione; rigetta nel resto il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori secondo legge.

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