Cassazione 13

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V

SENTENZA 23 febbraio 2016, n.7125

Ritenuto in fatto

Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Salerno ha confermato la condanna, pronunziata anche agli effetti civili ed a seguito di giudizio abbreviato, di M.G. e D.G.M. per i reati, come rispettivamente contestati, di violenza privata, lesioni volontarie, ingiurie e occupazione abusiva di immobili commessi ai danni di I.C. e A.C. al fine di costringerli a vendere l’appartamento di loro proprietà sito nello stabile di comune residenza. Deve ancora essere precisato che, con riguardo al reato di cui all’art. 582 c.p., la conferma ha avuto ad oggetto esclusivamente la condanna della D.G. , atteso che il M. era stato già assolto in primo grado, e soltanto per le lesioni subite dallo I. , non avendo la A. presentato querela.

Avverso la sentenza ricorrono entrambi gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori con atti autonomi, ma sovrapponibili nel contenuto, con i quali vengono dedotti errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione. In tal senso i ricorrenti lamentano innanzi tutto la natura meramente apparente dell’apparato giustificativo della decisione impugnata, la quale si limiterebbe ad un generico rinvio per relationem alla motivazione della sentenza di primo grado senza confutare specificamente le censure proposte con i gravami di merito. Non di meno la Corte territoriale avrebbe omesso di verificare l’attendibilità delle persone offese alla luce del contesto dei rapporti deteriorati esistenti tra le due coppie, non tenendo conto delle ragioni di tale deterioramento e della loro imputabilità ai comportamenti posti in essere proprio dalle persone offese. Quanto poi all’imputazione di violenza privata, non sarebbe stato dimostrato che effettivamente i coniugi I. vendettero l’appartamento agli imputati e comunque la sentenza avrebbe ignorato come dagli atti emerga che nell’ambito dell’iniziale cordialità dei rapporti intercorrenti tra i protagonisti della vicenda, comunque lo I. aveva fatto una promessa in tal senso al M. , talché alcuna campagna intimidatoria sarebbe stata necessaria per conseguire un risultato di fatto già acquisito in maniera del tutto lecita. Con riguardo al delitto di cui all’art. 633 c.p. erroneamente i giudici dell’appello avrebbero ritenuto integrata la fattispecie attraverso l’abusiva temporanea occupazione del posto auto di pertinenza delle persone offese, condotta invero non corrispondente a quella tipizzata dalla norma incriminatrice menzionata, mentre alcuna indagine sarebbe stata svolta in merito all’effettiva configurabilità dell’elemento soggettivo del reato. Manifestamente illogica sarebbe poi la motivazione della sentenza nella parte in cui attribuisce acriticamente credito assoluto alle dichiarazioni delle persone offese in merito alla dinamica che avrebbe provocato le lesioni subite – nonostante la sua inverosimiglianza – esclusivamente sulla base del fatto che queste sarebbero state riscontrate dalle certificazioni mediche che le attestano. Infine quanto alle contestate ingiurie i ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 599 c.p. e comunque il mancato assorbimento del reato in quello di violenza privata.

Considerato in diritto

Preliminarmente è necessario rilevare che tra i reati contestati agli imputati per cui è intervenuta condanna vi è anche quello di cui all’art. 594 c.p., disposizione abrogata dall’arti d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 (entrato in vigore lo scorso 6 febbraio essendo stato pubblicato sulla Gazz. Uff. n. 17 del 22 gennaio 2016) con conseguente abolitio del reato di ingiuria come fatto tipico di rilevanza penale. Se dunque la sentenza impugnata deve essere certamente annullata agli effetti penali in parte qua perché il fatto non è più previsto come reato, si pone il problema delle statuizioni civili pronunziate nei gradi di merito conseguentemente all’accertamento del fatto contestato ed alla sua attribuibilità agli imputati.

La questione dell’impatto sulle statuizioni civili dell’abrogazione della norma incriminatrice è stata ripetutamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con specifico riguardo all’ipotesi della revoca della sentenza di condanna divenuta definitiva.

2.1 In proposito è consolidato l’insegnamento di questa Corte per cui la eventuale revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis ai sensi dell’art. 2, comma secondo, c.p. conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del fatto, non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata (Sez. 5, n. 4266/06 del 20 dicembre 2005, Colacito, Rv. 233598; Sez. 5, n. 28701 del 24 maggio 2005, P.G. in proc. Romiti ed altri, Rv. 231866; Sez. 6, n. 2521 del 21 gennaio 1992, Dalla Bona, Rv. 190006).

2.2 A fondamento dell’illustrato principio (condiviso anche da Corte Cost. ord. n. 273 del 2002 sulla base dell’ulteriore argomentazione per cui la formula assolutoria adottata a seguito della sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice ‘non è fra quelle alle quali l’art. 652 c.p.p. attribuisce efficacia nel giudizio civile’) viene osservato che l’abrogazione della norma penale in presenza di una condanna irrevocabile comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione, ma limitatamente ai capi penali e non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha comunque luogo secondo le norme del codice di procedura civile: sicché se vi è stata costituzione di parte civile, con conseguente condanna al risarcimento dei danni a carico dell’imputato o del responsabile civile, questa statuizione resta ferma. Infatti, se l’art. 2 c.p. disciplina espressamente la sola cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna, ne deriva, attraverso un’argomentazione a contrario, che le obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato non cessano, in quanto per il diritto del danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dall’art. 11 preleggi, non quelli contenuti nel citato art. 2 c.p..

2.3 Sulla scorta degli illustrati principi si è altresì affermato che, quando un fatto costituisce illecito civile nel momento in cui è stato commesso, su di esso non influiscono le successive vicende riguardanti la punibilità del reato ovvero la rilevanza penale di quel fatto e cioè una sorta di ‘indifferenza’ dei capi civili della sentenza rispetto alla sorte della regiudicanda penale (in questo senso Sez. 6, n. 31957 del 25 gennaio 2013, Cordaro e altri, Rv. 255598 con riguardo, però, alla questione della conservazione delle statuizioni civili relative alla condanna per il reato di concussione a seguito della riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 319-quater c.p. in conseguenza dell’entrata in vigore della l. n. 190/2012 ed in un caso in cui la rilevata prescrizione del reato di induzione indebita comunque non esentava la Corte dall’esaminare il ricorso in relazione alle suddette statuizioni in forza del disposto dell’art. 578 c.p.p.).

I ricordati principi non sembrano poter valere anche nel caso in cui l’abolitio criminis sia intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, ostandovi il combinato disposto di cui agli artt. 185 c.p. e 74 e 538 c.p.p..

3.1 Ed infatti, anche nel giudizio di impugnazione, venendo meno la possibilità di una pronunzia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in quelli di merito.

3.2 Né tali conclusioni sembrerebbero messe in discussione dal fatto che, in caso di estinzione del reato per amnistia o prescrizione (ipotesi in cui parimenti non si forma il giudicato penale di responsabilità), al giudice dell’appello e a quello di legittimità sia attribuito il potere di decidere l’impugnazione ai soli fini civili e che al primo sia riconosciuto altresì quello di accogliere il gravame della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento pronunziata in primo grado condannando ai soli effetti civili l’imputato per la prima volta nel giudizio d’appello. Infatti quelle che costituiscono delle sostanziali deroghe alla regola generale evocata in precedenza trovano il loro titolo di legittimazione, come noto, nelle espresse previsioni di cui, rispettivamente, agli artt. 578 e 576 c.p.p.. Il difetto di una analoga previsione anche per il caso dell’abrogatio cum abolitio sembra dunque confermare a contrario la suddetta regola.

Quanto poi alla compatibilità con i principi della carta fondamentale (e segnatamente quelli di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.) delle rassegnate conclusioni va ricordato innanzi tutto che la Corte Costituzionale ha ripetutamente sottolineato “come l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile […], e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi” (sentenza n. 353 del 1994; in senso analogo, sentenze n. 217 del 2009 e n. 443 del 1990; ordinanze n. 424 del 1998 e n. 185 del 1994). Soluzione legislativa, questa, nella quale non potrebbe scorgersi alcun profilo di irrazionalità, stante la preminenza delle predette esigenze rispetto a quelle collegate alla risoluzione delle liti civili (ordinanza n. 115 del 1992) e considerato che si discute di “condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto dell’azione penale è l’accertamento della responsabilità dell’imputato” (sentenza n. 532 del 1995). Di conseguenza, una volta che il danneggiato, “previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli”, scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, “non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono”, nei termini dianzi evidenziati (sentenza n. 94 del 1996, ordinanza n. 424 del 1998).

4.1 In secondo luogo è reiterato, nella giurisprudenza costituzionale, il rilievo per cui “l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile”, essendo “prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo” (sentenza n. 168 del 2006; in senso analogo, sentenza n. 23 del 2015). In questa cornice, l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile, di modo che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, giacché la configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore (sentenze n. 168 del 2006, n. 433 del 1997 e n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999). 4.2 Sulla scorta di tali consolidate affermazioni di principio, il giudice delle leggi ha avuto di recente modo di ribadire (Corte Cost. n. 12 del 2016) la legittimità della scelta di non mantenere la competenza del giudice penale a pronunciare sulle pretese civilistiche anche quando l’affermazione della responsabilità non abbia luogo, giacché tale esito è ben noto al danneggiato nel momento in cui sceglie se esercitare l’azione di danno nella sede sua propria, o inserirla nel processo penale; scelta che il vigente sistema processuale gli consente senza limitazioni di sorta e, in particolare, senza la remora legata alla sospensione obbligatoria del processo civile in pendenza del processo penale sul medesimo fatto, già stabilita dal codice di procedura penale abrogato. Secondo la Corte, pertanto, “l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei limitati casi previsti dall’art. 578 c.p.p.) costituisce, dunque, uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte”.

Se dunque appare proponibile anche nel caso di specie una soluzione per cui, nonostante la condanna nei gradi di merito degli imputati, l’intervenuta abrogazione dell’art. 594 c.p. ponga nel nulla anche le statuizioni civili – senza che pertanto al giudice di legittimità sia consentito esaminare il ricorso ai limitati fini di una loro eventuale conferma – non può esimersi dall’evidenziare come gli stessi contenuti del d. Igs. n. 7/2016, così come quelli del ‘parallelo’ d.lgs. n. 8/2016 (entrambi emanati in attuazione della delega contenuta nell’art. 2 L. n. 67/2014), rivelino anche la possibilità di altre ipotesi, profilandosi così la concreta possibilità di contrasti interpretativi in grado di generare sperequazioni applicative.

5.1 Va innanzi tutto evidenziato come il citato d.lgs. n. 7/2016 non si sia limitato all’abolizione di alcuni titoli di reato, ma – in esecuzione di quanto imposto dalla legge delega – abbia contestualmente provveduto a creare l’inedita figura sanzionatoria delle ‘sanzioni pecuniarie civili’ cui ha contestualmente assoggettato una serie di fatti specificamente tipizzati e che corrispondono a quelli già previsti dalle norme incriminatrici abrogate. L’irrogazione delle suddette sanzioni consegue, ai sensi dell’art. 8 del decreto, all’accoglimento della domanda risarcitoria proposta da colui che è stato danneggiato dalle condotte tipizzate dal precedente art. 4 e dunque è inevitabilmente subordinata all’iniziativa di quest’ultima, ma, soprattutto, è evidente che il fatto illecito punito con la sanzione è il medesimo che genera l’obbligazione risarcitoria (peraltro non più ai sensi dell’art. 2043 c.c. bensì delle speciali disposizioni di nuovo conio), salva la precisazione – contenuta nell’art. 3 – che la reazione ‘punitiva’ è ammessa esclusivamente nell’ipotesi in cui l’autore abbia commesso le condotte tipizzate con dolo. I proventi delle menzionate sanzioni non sono però destinate al danneggiato, ma è invece previsto dall’art. 10 del decreto che vengano devoluto alla Cassa della Ammende.

5.2 Dalla sommaria esposizione dei contenuti della novella emerge la problematica classificazione della ‘nuova’ figura sanzionatoria configurata, ma altresì della effettiva natura di quello che la stessa rubrica legis qualifica come intervento abrogativo. La configurazione di fattispecie sanzionatorie specificamente tipizzate ricalcando il contenuto delle norme penali abrogate, l’autonomia delle sanzioni rispetto al risarcimento del danno e la destinazione erariale dei loro proventi sono tutti elementi, infatti, che apparentemente concorrono a definire un’ipotesi di depenalizzazione, non diversamente da quanto previsto dal d.lgs. n. 8/2016, con il quale altre figure di reato sono state contestualmente trasformate in illeciti amministrativi. In particolare proprio la destinazione dei proventi delle sanzioni ne accentua il carattere esclusivamente afflittivo e la venatura pubblicistica, risultando apparentemente irrilevante ai fini qualificatori che la loro applicazione rimanga inscindibilmente connessa all’iniziativa del danneggiato, atteso che anche le abrogate figure di reato erano comunque procedibili esclusivamente a querela della persona offesa. Il fatto infine che le suddette sanzioni siano state classificate dal legislatore come ‘civili’ non sembra invece circostanza in grado di assumere un significato decisivo ai fini qui di interesse. Infatti, come già accennato, l’operazione legislativa ha carattere inedito e la questione non è tanto quella di dell’esistenza di spazi sistematici in grado di legittimare l’etichetta normativa, quanto piuttosto quella di stabilire se l’inedita figura sanzionatoria abbia o meno carattere punitivo e abbia sostanzialmente sostituito la sanzione penale in relazione ai fatti che in precedenza integravano un reato. Interrogativo cui sembra potersi dare, per l’appunto, risposta affermativa alla luce degli indici normativi evidenziati in precedenza.

5.3 È a questo punto doveroso rilevare come entrambi i decreti contengano una disciplina transitoria (rispettivamente contenuta nell’art. 12 del n. 7/2016 e nell’art. 8 del n. 8/2016).

5.3.1 Tratto comune è costituito dall’applicabilità tanto delle sanzioni amministrative relative agli illeciti depenalizzati, quanto di quelle pecuniarie civili, anche ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore dei due decreti, salvo che in relazione ai medesimi non sia già intervenuta una pronunzia definitiva all’esito del procedimento penale, della quale in entrambi i testi normativi è prevista la revoca a cura del giudice dell’esecuzione attraverso la procedura semplificata di cui al quarto comma dell’art. 667 c.p.p..

5.3.2 L’art. 9 del d.lgs. n. 8/2016 contiene però ulteriori disposizioni transitorie al fine di disciplinare, nell’ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale, la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e la sorte delle statuizioni civili già adottate. In tal senso il terzo comma dell’articolo citato prevede espressamente che “se l’azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell’articolo 129 del codice di procedura penale, sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1. Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili”.

5.3.3 Tale ultima disposizione non sembra trovare riscontro nei precedenti interventi di depenalizzazione e, pervero, nemmeno era stata commissionata dalla legge delega (ancorché possa ritenersi eventualmente legittimata dal conferimento al legislatore delegato da parte dell’art. 2 comma 4 l. n. 67/2014 del potere di introdurre norme di coordinamento) ed all’evidenza riecheggia i contenuti dell’art. 578 c.p.p., che, come noto, parimenti autorizza il giudice dell’impugnazione a decidere il gravame agli effetti civili qualora il reato debba essere dichiarato estinto per amnistia o prescrizione. Con riguardo ai reati depenalizzati, dunque, non vi è dubbio che il giudizio penale prosegua per decidere sulla conferma delle statuizioni civili eventualmente adottate in primo grado, con la conseguente applicazione dei principi elaborati per l’appunto in riferimento alla fattispecie disciplinata dal citato art. 578 del codice di rito. Né può dubitarsi della legittimità della norma, atteso che – come ricordato dalla già menzionata sentenza n. 12/2016 della Corte Costituzionale – “il legislatore resta certamente libero, nella sua discrezionalità, di introdurre, in vista di una più efficace tutela della persona danneggiata dal reato e del conseguimento di maggiori risparmi complessivi di risorse giudiziarie, una disciplina ampliativa dei casi nei quali il giudice penale si pronuncia sulle questioni civili, pur in assenza di una condanna dell’imputato”.

5.4 Il legislatore delegato non ha riprodotto la disposizione di cui si tratta anche nel d.lgs. n. 7/2016. Il significato di tale scelta può essere determinato alla luce del canone interpretativo dell’ubi voluit dixit, ma è praticabile anche una soluzione diversa alla luce di dati normativi nel loro complesso non del tutto lineari e coerenti.

5.4.1 Innanzi tutto, qualora dovesse convenirsi che anche il citato decreto configuri in realtà un intervento di depenalizzazione, potrebbe apparire irragionevole la selettività della scelta legislativa, a fronte di situazioni omologhe, tanto più nella misura in cui sono i procedimenti ad oggetto i reati ‘abrogati’ (tutti procedibili a querela di parte, salvo quello previsto dall’art. 486 c.p.) quelli in cui è più elevata la probabilità che sia stata esercitata l’azione civile.

5.4.2 Potrebbe allora ritenersi che la mancata riproduzione di una disposizione analoga a quella contenuta nel terzo comma dell’art. 9 del d.lgs. n. 8 costituisca una lacuna involontaria o che il legislatore abbia addirittura ritenuto superfluo provvedervi. In tale ultimo senso, infatti, vanno evidenziati alcuni indici normativi contenuti nell’art. 8 del decreto che disciplina il procedimento applicativo delle sanzioni pecuniarie civili. In particolare il primo comma dell’articolo citato prevede che le stesse vengano applicate dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, la cui formulazione è sufficientemente ambigua per poter essere interpretata anche nel senso per cui quest’ultimo, nel regime transitorio, sia quello penale davanti al quale la suddetta azione è stata effettivamente esercitata (ed al quale dunque spetterebbe anche l’applicazione delle suddette sanzioni, comunque dovuto, come illustrato, anche per i fatti precedenti all’entrata in vigore della novella sui quali non si sia già formato il giudicato penale).

5.4.3 Sotto altro profilo potrebbe invece ritenersi comunque applicabile, anche oltre il limite dell’intervenuta definitività della sentenza di condanna, il principio di insensibilità delle statuizioni civili alle vicende della regiudicanda penale qualora il fatto già costituente reato continui ad integrare un illecito per cui è prevista l’irrogazione di una sanzione punitiva, con conseguente applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p. e della disposizione di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 8/2016 in quanto ritenuti espressione del suddetto principio generale, prospettandosi in tal senso un limite al principio di accessorietà dell’azione civile nel giudizio di impugnazione.

Stante la pregiudizialità della questione prospettata e ritenuto che la stessa possa dare luogo a contrasti interpretativi, appare dunque opportuno rimettere i ricorsi alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p. perché le stesse si esprimano sul seguente quesito: “Se, a seguito dell’abrogazione dell’art. 594 c.p. ad opera dell’art. 1 d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7, debbano essere revocate le statuizioni civili eventualmente adottate con la sentenza di condanna non definitiva per il reato di ingiuria pronunziata prima dell’entrata in vigore del suddetto decreto”.

P.Q.M.

Rimette i ricorsi alle Sezioni Unite.

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