cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 14 gennaio 2016, n. 1325

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Napoli, Sezione riesame, con ordinanza in data 30.7.2015, in parziale accoglimento dell’appello ex art. 310 c.p.p. proposto da Z.R. – capo dipartimento di medicina generale e responsabile dell’Unità Operativa Complessa Emergenza e Pronto Soccorso dell’ospedale (omissis) , struttura convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale – dichiarata cessata l’efficacia della misura interdittiva del divieto di svolgimento della professione medica e delle attività ad essa inerenti per la durata di un anno, disposta nei confronti del predetto indagato disposta con ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Napoli del 28.5/13.6.2015, limitatamente al reato di concussione di cui al capo a) dell’imputazione provvisoria – rigettava nel resto l’appello, confermando l’ordinanza applicativa della medesima misura interdittiva in relazione al capo b) dell’imputazione provvisoria.
1.1. Con tale imputazione erano stati contestati all’indagato i reati di cui agli artt. 81, co. 2, 479 e 476/2 c.p. perché, anche in tempi diversi, nella sua qualità di pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, formava falsamente un referto medico, datato (omissis) con il logo (omissis) , atto pubblico fidefacente, nei confronti di A.V. , con apposta una firma illeggibile sulla dicitura “(omissis) ” non riconducibile a nessuno dei patologi dell’ospedale evangelico (omissis) ed attestava, sempre falsamente, nello stesso referto medico “l’assenza di cellule tumorali”, nonché “un quadro citologico che mostra alcuni elementi come da fibrolipomatosi”, senza aver effettuato alcun esame presso il laboratorio di anatomia patologica di (omissis) prima della data del (omissis).
1.2. Nell’ordinanza impugnata veniva dato atto della ricorrenza di gravi indizi a carico dell’indagato, sia per il reato di falsità materiale, avendo lo stesso Z. riconosciuto in sede di interrogatorio di garanzia di aver consegnato alla A. una certificazione assolutamente falsa, sia per il reato di falsità ideologica, relativa alla data indicata nel referto del (omissis), con riconoscimento delle esigenze cautelari in relazione alla lett. c) dell’art. 274 c.p.p., per la grave e spregiudicata condotta posta in essere dal medesimo Z. .
2. Avverso tale ordinanza l’indagato, a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso ex art. 311 c.p.p. affidato a tre motivi, con i quali lamenta:
– con il primo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett. b), per l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e segnatamente degli artt. 273, 274 e 275 c.p.p., in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, non sussistendo in alcun modo il pericolo che l’indagato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, sia alla luce delle specifiche circostanze del fatto, che alla luce della personalità dell’indagato, che gode della stima di terzi, per la sua capacità professionale, ed è immune da precedenti penali;
– con il secondo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett. e) c.p.p., per manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in merito alla ritenuta ricorrenza delle esigenze cautelari, dovendo la condotta dell’indagato essere ridimensionata, quanto alla gravità dei fatti, avendo il Tribunale ricostruito la vicenda in modo contrario alla versione resa dallo Z. nel corso dell’interrogatorio di garanzia, accreditando una ricostruzione dell’accaduto non provata; in realtà l’indagato ha ammesso pienamente la falsità materiale, mentre, quanto al contenuto del certificato falsificato, il Tribunale, pur avendo riconosciuto che l’indagato avrebbe “abusato” della pre-ospedalizzazione, non ha considerato che essa era finalizzata ad ottenere l’esame dei vetrini contenenti il campione prelevato alla A. con il metodo dell’ago aspirato; a prescindere, dunque, dalla regolarità formale di apertura della procedura di pre-ospedalizzazione, ciò che conta, ai fini della valutazione del comportamento tenuto dall’indagato, che ha ammesso senza riserve la propria responsabilità in ordine al reato di falso, è che lo stesso, comunque, portava ad analizzare i vetrini per ottenere il risultato ufficiale dal laboratorio di anatomia patologica; ciò rende assolutamente veritiera la versione resa dall’indagato, quando riferisce di aver rilasciato alla A. il certificato falso, dopo aver visionato la “bozza del referto” stilato, quindi, successivamente al 6 ottobre 2014 e certamente prima del 9 ottobre, data in cui la A. , incontrò per la prima volta la Dott.ssa G. ; se l’indagato avesse consegnato il certificato falso il (omissis) non avrebbe avuto alcun motivo per consegnare al laboratorio i vetrini per le analisi il giorno (omissis); emerge, dunque,il vizio di motivazione, laddove il Tribunale ha legato la spregiudicatezza della condotta dell’indagato al quadro clinico della A. , mentre non è stato considerato il comportamento tenuto dall’indagato, che ha apertamente riconosciuto la propria responsabilità in ordine al reato di falso e le dichiarazioni rese dallo stesso;
– con il terzo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma lett. e) c.p.p., in relazione agli artt. artt. 479 c.p. e 308 c.p.p., stante la carenza della motivazione in ordine alla durata della misura interdittiva fissata in 12 mesi, che non trova alcuna giustificazione in relazione alle specifiche circostanze di fatto; inoltre l’art.308/2 c.p.p., modificato dalla novella n. 47/15, viola il principio secondo cui una “misura cautelare” non può mai consistere nell’anticipata applicazione di una sanzione punitiva e ciò accade, evidentemente, quando la misura cautelare viene applicata per una durata determinata anticipatamente.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato per quanto di ragione, limitatamente al terzo motivo di ricorso, mentre va respinto nel resto.
1. Non meritano accoglimento i primi due motivi di ricorso, relativi alla sussistenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b) ed e) c.p.p. dell’ordinanza impugnata, in relazione alla ricorrenza dell’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione della condotta criminosa, specificamente considerato ai fini dell’applicazione della misura interdittiva ex art. 290 c.p.p., del divieto di svolgimento della professione medica e delle attività ad essa inerenti, per la durata di un anno, per i reati di falso di cui agli artt. 479 e 476/2 c.p..
1.1. Giova ribadire, innanzitutto, che l’ordinamento non conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice, cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonché del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è, perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato, al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: 1) – l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) – l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 6, sent. n. 2146 del 25.05.1995, Tontoli ed altro, Rv. 201840).
Il controllo della Corte Suprema è limitato al riscontro dell’esistenza di una motivazione logica in ordine ai punti censurati, senza possibilità di compiere alcuna valutazione degli elementi che hanno legittimato l’adozione della misura cautelare (Cass., Sez. 3, sent. n. 46727 del 12.07.2012) ed è ammissibile, pertanto, solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 6, n. 11194 del 08/03/2012, Lupo). Così delimitato l’ambito di intervento della Corte di Cassazione, va detto anche che il vizio di motivazione ricorre allorquando l’iter argomentativo che ha condotto alla decisione si dimostri incompleto, avulso dalle risultanze di causa, privo del necessario rigore e della necessaria coerenza e consequenzialità logica (Sez. 3, sent. n. 46727 del 12.07.2012).
1.2. Alla stregua degli indicati principi, si osserva che le doglianze di cui al primo motivo di ricorso circa l’insussistenza del pericolo che l’indagato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, alla luce delle specifiche circostanze del fatto e alla luce della personalità dell’indagato, si presenta del tutto generica e, comunque, non si ravvisano vizi nell’applicazione dell’art. 274 lett. c) c.p.p. nella valutazione operata dal Tribunale, secondo cui la condotta dell’appellante – che non ha esitato a formare un referto materialmente ed ideologicamente falso e ad aprire una pratica di pre-ospedalizzazione al solo fine di legittimare il proprio operato e dare una parvenza di ufficialità ad una certificazione che ufficiale non era affatto – appare grave e spregiudicata, tanto più ove si consideri la delicatezza del quadro clinico della A. , ed induce a ritenere concreto ed attuale un pericolo di reiterazione di condotte della stessa specie, rispetto al quale unica misura idonea (perché in grado di impedire la reiterazione delle condotte) e proporzionata è la misura cautelare interdittiva, in atto.
1.3 Per quanto concerne, poi, il vizio motivazionale del provvedimento impugnato, in merito alla gravità della condotta dell’indagato, che, invece, va ridimensionata, avendo l’indagato ammesso pienamente i falsi compiuti e perciò dovendo darsi credito alla sua versione dei fatti, secondo cui avrebbe “abusato” della pre-ospedalizzazione al fine di ottenere l’esame dei vetrini contenenti il campione prelevato alla A. con il metodo dell’ago aspirato rilasciando il certificato falso solo dopo aver visionato la “bozza del referto”, stilato successivamente al 6 ottobre 2014 e prima del 9 ottobre 2014. Tali deduzioni attengono all’evidenza a profili di merito ed alla ricostruzione dei fatti inammissibili in questa sede, non essendo esse peraltro in grado di dar conto del denunciato vizio motivazionale emergente dal testo del provvedimento impugnato con il quale è stato, invece, messo in risalto che la circostanza secondo cui lo Z. avrebbe visto la bozza di referto del dr. P. dal computer e di ciò avrebbe tenuto conto nello stilare il suo falso referto risulta smentita da quanto accertato nel corso
dell’indagine interna all’ospedale, secondo cui la data del “giorno sei” (6 ottobre 2014) è quella dell’apertura della data di “preospedalizzazione” n. 1871/2014 e non anche quella di redazione informatica del referto da parte del Dott. P. , atteso che dalla relazione della Dott.ssa G. e dalla documentazione in atti emerge che il referto informatizzato del Dott. P. reca la data dell’8 ottobre 2014; il riferimento, poi, dell’indagato ad un ulteriore documento e segnatamente al foglio di lavoro per esame citologico vergato a mano e privo di firma datato 06.10.2014 a nome della A. (“richiesta del 6 ottobre, alle ore dieci e venti, materiale sieroso..”) smentisce la versione della verifica preventiva della bozza informatizzata del referto, essendo stato tale documento vergato a mano dal Dott. P. ed informatizzato solo il successivo 8 ottobre 2014. In proposito, inoltre, non appare affetta da vizio motivazionale l’argomentazione dirimente, secondo cui la data del 4.10.2014 quale data di consegna del referto è stata riferita dalla A. alla Dott.ssa G. nell’immediatezza dei fatti (ed in particolare il giorno 9 ottobre 2014), allorquando il ricordo della A. era certamente più vivo, rispetto al successivo mese di dicembre, allorquando denunciò i fatti.
2. Merita accoglimento, invece, il terzo motivo di ricorso circa l’assenza di motivazione in ordine alla durata fissata in 12 mesi della misura interdittiva, ai sensi dell’art. 308/2 c.p.p. nella sua attuale formulazione.
2.1. L’art. 10 della legge n. 47/2015 ha sostituito il comma 2 ed abrogato il comma 2 bis dell’art. 308 c.p.p. nella precedente formulazione – che prevedevano rispettivamente, il comma 2, che “le misure interdittive perdono efficacia quando sono decorsi due mesi dall’inizio della loro esecuzione e nel caso in cui siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice può disporne la rinnovazione anche al di là di due mesi dall’inizio dell’esecuzione, osservati i limiti previsti dal comma 1”, ed il comma 2 bis che, “nel caso si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, e 320 del codice penale, le misure interdittive perdono efficacia decorsi sei mesi dall’inizio della loro esecuzione” a meno che esse non fossero state disposte per esigenze probatorie, sicché il giudice poteva disporne la rinnovazione anche oltre sei mesi dall’inizio dell’esecuzione – innalzando il termine di durata massima della misura interdittiva, portandolo fino a 12 mesi, per tutti i reati per i quali la misura è applicabile, ai sensi degli artt. 287 e ss. c.p.p., abrogando, dunque, il sistema della doppia disciplina, con distinzione fra tipologie di reato.
2.2. Il novellato secondo comma dell’art. 308 c.p.p., tuttavia, nel prevedere che “le misure interdittive non possono avere durata superiore a dodici mesi”, nel contempo prevede che esse “perdono efficacia quando è decorso il termine fissato dal giudice nell’ordinanza. In ogni caso, qualora siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice può disporne la rinnovazione nei limiti temporali previsti dal primo periodo” del comma 2.
2.3. La nuova disciplina – improntata alla valorizzazione degli strumenti cautelari interdittivi, recependo l’esigenza di rendere il termine di durata di tali misure più congruo, al fine di impedire che nella pratica risulti limitata l’applicazione di esse, in alternativa alle misure coercitive – introduce, pertanto, un modello “flessibile” di durata della misura interdittiva, per il soddisfacimento di tutte le esigenze cautelari, per un periodo oggetto di valutazione discrezionale del giudice, non superiore nel massimo a dodici mesi. Ed è proprio la discrezionalità che caratterizza attualmente la determinazione della durata della misura – a differenza del previgente regime contemplante l’automatica caducazione della misura interdittiva, decorso il tempo previsto dalla legge – che impone al giudice uno specifico onere motivazionale in punto di durata della cautela. Quando, infatti, il giudice fissa il termine di efficacia della misura interdittiva, tale determinazione costituisce espressione del principio generale per cui l’esercizio di un autonomo potere comporta il dovere di esplicitare le ragioni che giustificano la decisione.
2.4. Nella fattispecie in esame deve rilevarsi come il Tribunale, a fronte delle doglianze sviluppate con l’appello dall’indagato, in relazione alla durata della misura interdittiva applicata nei suoi confronti nel limite massimo di dodici mesi, si sia limitato ad evidenziare che la misura interdittiva in atto costituisce unica misura idonea (perché in grado di impedire la reiterazione delle condotte) e proporzionata. Tale motivazione all’evidenza non da conto in alcun modo del fatto che il giudice deve esporre le ragioni per le quali ritiene di fissare in un determinato periodo la durata della misura interdittiva ed in merito all’adeguatezza del termine fissato in relazione alle esigenze cautelari da salvaguardare.
3. Pertanto, l’ordinanza impugnata va annullata limitatamente alla durata della misura interdittiva, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli, mentre nel resto il ricorso va respinto.

P.Q.M.

annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alla durata della misura interdittiva con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli; rigetta nel resto il ricorso.

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