Corte_de_cassazione_di_Roma

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 13 ottobre 2014, n. 42825

Ritenuto in fatto

1. II Tribunale di Messina, con sentenza del 31/5/2012, in parziale riforma di quella emessa dal locale Giudice di pace, appellata dalla sola parte civile, ha condannato S.G. al risarcimento dei danni patiti da B.F., parte offesa del reato di ingiuria (l’aveva apostrofato, in presenza di più persone, come “maniaco”).
2. Ha presentato ricorso per Cassazione nell’interesse dell’imputata l’avv. Salvatore Papa, che si duole dell’errata applicazione della normativa in materia di ingiuria e della illogicità della motivazione.
Deduce che l’espressione utilizzata non aveva carattere ingiurioso perché giustificata dai rapporti fortemente conflittuali tra colpevole e offeso e dalla personalità di quest’ultimo, condannato per violenza sessuale nei confronti della figlia. Lamenta che non si sia fatta applicazione dell’art. 596, comma 4, cod. pen., pur essendo B. stato condannato con sentenza irrevocabile, ovvero dell’art. 599, comma 2, cod. pen., la cui applicazione sarebbe giustificata dallo stato d’ira in cui la donna si trovava. Infine, denunzia vizio di motivazione in ordine all’esclusione della causa di non punibilità stabilita dall’art. 599, comma 1, cod. pen., pur avendo il Tribunale dato atto che vi era stata una reazione offensiva posta in essere dalla persona offesa.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato e ai limiti dell’ammissibilità.
Costituisce una personale opinione del ricorrente che l’attribuzione della qualifica di “maniaco” non sia offensiva e sia giustificata dalla condanna che B.F. aveva riportato per violenza sessuale. E’ notorio che l’onore e la reputazione sono beni personali, che non possono essere lesi, in maniera gratuita, per nessuna ragione, in quanto anche i condannati, finanche per reati gravi, hanno diritto, quali membri del consorzio umano, al rispetto della dignità personale, che cede solo nel confronto con altri valori parimenti rilevanti (il diritto di informazione, di cronaca, di difesa, ecc.). Nel caso di specie non ricorre nessuna situazione che possa “giustificare” l’ingiuria, grave, rivolta al B., in quanto nessuno aveva, nel contesto descritto in sentenza (dinanzi alla scuola, mentre B. si intratteneva con altri genitori), interesse (legittimo) a conoscere le vicende processuali di quest’ultimo. L’esistenza di rapporti conflittuali tra imputata e persona offesa, poi, non solo non scrimina la condotta, ma rende vieppiù palese che l’epiteto era espressione di malanimo e di prava voluntas iniuriandi, che rende inoperante l’esimente del diritto di critica e di qualsivoglia altro diritto collegato alla manifestazione del pensiero. Per gli stessi motivi è fuor di luogo il richiamo alla “verità del fatto” – che dovrebbe fornire alla ricorrente la prova liberatoria per l’ingiuria – in quanto i modi usati rendono, per sé stessi, applicabile il disposto dell’art. 594, comma 1, cod. pen. Ugualmente inoperante è l’esimente della provocazione, giacché, per giurisprudenza costante, il concetto di immediatezza, espresso dall’art. 599, secondo comma cod. pen., con la locuzione avverbiale “subito dopo”, pur nella elasticità con cui deve essere interpretato in relazione a ciascuna fattispecie, non può comunque trascurare il nesso eziologico tra fatto ingiusto e stato d’ira (ex multis, Cass., n. 30502 del 16/5/2013). Conseguentemente, il decorso di un considerevole lasso di tempo – nella specie, l’offesa è sopraggiunta a distanza di anni dal fatto, quando B. è già stato condannato e la Spiro ha avuto tutto il tempo di metabolizzare “l’offesa” ricevuta – assume rilevanza al fine di escludere tale rapporto causale, e di riferire la reazione ad un sentimento differente, quale l’odio o il rancore a lungo covato.
Non corrisponde a verità, infine, che il Tribunale abbia omesso di spiegare perché non ha ritenuto operante la causa di non punibilità prevista dall’art. 599/1 cod. pen. (reciprocità delle offese). La lettura della sentenza rende palese che i giudici hanno attribuito rilievo decisivo alla perentorietà e gratuità delle offese provenienti dall’imputata, nel mentre B. si intratteneva a discutere con altri genitori, ed al fatto che la replica di quest’ultimo era intervenuta perché “scosso dalla situazione” e perché era diretta “a far allontanare l’ex coniuge che aveva evidentemente turbato il clima di serena discussione”. Tale motivazione deve ritenersi congrua e logica e idonea sorreggere la conclusione cui è pervenuto il giudice di merito, sicché il deficit motivazionale lamentato appare insussistente.
In definitiva il ricorso dell’imputata, siccome infondato sotto tutti i profili addotti, deve essere rigettato, con le conseguenze di legge indicate nel dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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