SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V
SENTENZA 1 marzo 2016, n. 8328
Ritenuto in fatto
1.Con sentenza in data 18.12.2013 il G.U.P. del Tribunale di Palermo -revocato il decreto penale di condanna emesso nei confronti di M.M. in data 3.8.2012 – lo condannava alla pena di euro 1.500,00 di multa, con la diminuente del rito abbreviato, per il delitto di cui all’art. 595 cod. pen., commi 1 e 3 cod. pen., per avere, offeso la reputazione di R.F.,commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana, comunicando con più persone, mediante la pubblicazione sul suo profilo Facebook, di alcune frasi, associandole – in taluni casi – all’immagine del predetto: tra cui – ‘…per pararsi il culo, il parassita è capace anche di questo’, con associata immagine del R.;- ‘… eroe del risanamento, o parassita del sistema clientelare? Quando i cialtroni diventano parassiti, vengono sputtanati dai giornali… ‘, con associata immagine del R.;- ‘… devo andare a pescare, mi serve un verme, quale mi consigliate ?’, con associata immagine dei R.;- ‘… io la farei mangiare a quel parassita di F. R., che vale quanto una fava masticata…- a’… F. R. è solo un mercenario ultra-pagato, che non gli frega un cazzo dei vulnerabili, tanto lui, ai mese, lo stipendio lo prende ….’.
2.Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore, affidato ad un unico motivo, con il quale lamenta, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b), c) ed e) c.p.p., per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 595 c.p. e 192, 64 e 63 c.p.p., per difetto di motivazione e manifesta illogicità della stessa; in particolare, il giudice di prime cure si è limitato ad esporre sinteticamente, nella sentenza impugnata, i motivi su cui ha basato la decisione relativa alla sussistenza del reato e la riferibilità di esso al ricorrente, senza però seguire un iter logicomotivazionale corretto e adottando un giudizio di verifica della prova, in violazione della norma processuale di cui all’art. 192 c.p.p. e della logica di garanzia pretesa dagli artt. 63 e 64 c.p.p.; non emergono nella vicenda in esame elementi probatori univoci e concordanti dai quali poter trarre la certezza dell’attribuzione dei fatti di reato all’imputato, né emerge la certezza che tali fatti si siano realmente verificati; secondo quanto denunciato dalla parte offesa la diffamazione sarebbe stata perpetuata dall’imputato sulla bacheca virtuale dei social network ‘facebook’ ed a riprova di quanto asserito, la parte offesa ha stampato in proprio una presunta conversazione, che non ha valore probatorio, stante l’assoluta riproducibilità o la producíbilità ex novo della stessa da un qualunque PC che abbia un programma di videoscrittura e, comunque, non hanno accertato la riferibilità di essa all’imputato; il Giudice, inoltre, non avendo la certezza sul reale accadimento di quei fatti di reato, non ha avuto possibilità di vagliare l’identità del reo laddove, nel caso di specie, è possibile individuare inconsistenti elementi indiziari, che, a norma del 2° comma dell’art. 192 c.p.p., non possono in alcun modo dar vita ad una sentenza di condanna; il G.u.p. non ha, poi, considerato il disaccordo esistente tra la p.o. e l’imputato, il quale tempo addietro si è visto costretto a querelare la parte offesa, vittima, a sua volta, di una precedente diffamazione (il R. risulta indagato per diffamazione a mezzo stampa in un procedimento pendente dinanzi il Tribunale di Catania); il G.u.p. ha utilizzato, poi, ai fini della riconducibilità dei fatti all’imputato una memoria presentata in un procedimento dinanzi al TAR avente come oggetto le medesime circostanze, ma tale elemento costituisce prova assolutamente non acquisibile e non valutabile ai fini della decisione, perchè risulterebbe lesivo di ogni principio di garanzia previsto dal codice di rito a vantaggio dell’imputato il quale, invece, con riferimento ad ogni dichiarazione che potrebbe fare a suo svantaggio, deve essere reso edotto della possibilità di utilizzo di quella dichiarazione contro se stesso in sede di procedimento penale, nonché della facoltà di non dire nulla che possa compromettere la sua posizione; le dichiarazioni rese da persona che sin dall’inizio avrebbe dovuto essere ascoltata con le garanzie di cui all’art. 63 c.p.p. sono viziate da inutilizzabilità e da tale vizio è affetta la memoria acquisita, unico elemento probatorio a carico dell’imputato.
Considerato in diritto
II ricorso non merita accoglimento, essendo in più punti generico e, comunque, infondato.
La sentenza impugnata, contrariamente a quanto dedotto ìn ricorso, senza incorrere in vizi, dopo aver ricostruito compiutamente la vicenda oggetto di giudizio, ha analizzato specificamente gli elementi di responsabilità a carico dell’imputato, pervenendo alla conclusione che i dati acquisiti- obiettivi, specifici e di indubbio spessore indiziario- letti e coordinati globalmente fra loro, conducono univocamente all’individuazione dell’imputato, quale autore dei messaggi dal contenuto pregiudizievole oggetto di contestazione.
I giudici di merito hanno ricostruito la vicenda nel senso che, la p.o., R.F., Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana, denunciava in data 30.12.2010 di essere stato diffamato da vari soggetti, nell’ambito di un dibattito fra utenti web, avviato sulle pagine del social network Facebook in quel mese di dicembre; inizialmente il dibattito avrebbe dovuto riguardare scelte e iniziative da lui adottate, negli ultimi anni, nella qualità di amministratore del predetto ente, ma alcuni messaggi avevano travalicato i limiti dell’ordinario diritto di critica, per sfociare in palesi offese al suo decoro personale; a riprova della sua tesi, l’imputato allegava una copia, da lui direttamente stampata, di alcune pagine rintracciate nello stesso periodo sul predetto sito web, in cui erano state inserite le espressioni lesive della sua reputazione: in molti casi, ai messaggi erano state accoppiate pure riproduzioni fotografiche della sua persona. I dati immessi in rete – almeno, a prima vista – risultavano provenire soprattutto dai profili Facebook di soggetti, da lui conosciuti come componenti in congedo del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana e fra questi, da quello dell’ imputato. Nel corso del processo veniva disposta CTU al fine di accertare, tra l’altro, la titolarità dell’account Facebook dal quale erano stati diramati in rete i messaggi a contenuto diffamatorio, attribuiti al M., nonché acquisita documentazione, tra cui documenti raccolti nell’ambito dell’inchiesta disciplinare, avviata dalla Croce Rossa Italiana nei confronti dell’imputato, ivi compresa una memoria difensiva proveniente dallo stesso imputato.
Tanto precisato, si osserva che, correttamente, la sentenza impugnata ha evidenziato come le espressioni indicate in denuncia da parte del R., dei tipo ‘parassita del sistema clientelare’, ovvero °… quando i cialtroni diventano parassiti … ‘, ovvero ancora ‘… devo andare a pescare, mi serve un verme, quale mi consigliate ?… pubblicate su Facebook, ed accompagnate da immagini fotografiche, ovvero, pur in assenza di tali immagini, inequivocamente dirette al R., stante l’indicazione del nome dello stesso, ‘… io la farei mangiare a quel parassita di F. R., che vale quanto una fava masticata… oppure ‘F. R. è solo un mercenario ultra-pagato, che non gli frega un cazzo dei vulnerabili, tanto lui, al mese, lo stipendio lo prende …. ‘ sono oggettivamente lesive della reputazione della p.o., trasmodando in una gratuita ed immotivata aggressione delle qualità personali dei R..
3.1. Inoltre, questa Corte, ha più volte evidenziato che il reato di diffamazione può essere commesso a mezzo di internet (cfr. Sez. 5, 17 novembre 2000, n. 4741; 4 aprile 2008 n. 16262; 16 luglio 2010 n. 35511 e, da ultimo, 28 ottobre 2011 n. 44126), sussistendo, in tal caso, l’ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice (cfr. altresì sui punto, Cass., Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, Rv. 254044), dovendosi presumere la ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone, essendo per sua natura destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 16262 del 04/04/2008). In particolare, anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca ‘facebook’ integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015). Pertanto, la condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.p., comma (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015).
3.2. II ricorrente contesta, innanzitutto, che le frasi in contestazione siano state effettivamente appostate su Facebook e, comunque, che tali frasi siano riconducibili alla sua persona. Tali doglianze, tuttavia, vengono svolte con visione parcellizzata degli elementi acquisiti, dando rilievo esclusivamente al fatto che il CTU, incaricato di accertare la titolarità dell’account Facebook, dal quale erano stati diramati in rete i messaggi a contenuto diffamatorio, attribuiti ai M., nonché di verificare l’integrità/autenticità delle copie di pagine Facebook, allegate alla denuncia della parte offesa e di stabilire se l’indirizzo IP dal quale era stata effettuata la connessione, fosse riconducibile ad utenza telefonica mobile, ovvero ad utenza fissa, ha evidenziato che le copie stampate di pagine internet, allegate alla querela sporta dalla parte offesa, non offrivano da sole garanzie certe, né sull’autenticità e integrità dei messaggi, né sulla loro data, né sulla loro provenienza da un eventuale sito effettivamente intestato all’odierno imputato e ciò in considerazione del fatto che qualsiasi copia cartacea che riproduca una pagina Facebook, se recuperata senza il rispetto delle procedure standard che ne garantiscono la corretta acquisizione, potrebbe anche costituire (in assenza di opportune modalità di protezione dell’account, che in questo caso non sono state riscontrate con certezza), il risultato di operazioni dì adattamento o rielaborazione di pagine effettivamente esistenti, ma dì contenuto differente. Il ricorrente, in proposito, omette di confrontarsi però con quanto evidenziato dal G.u.p., secondo cui sebbene le indagini e gli accertamenti tecnici svolti sono inidonei a comprovare singolarmente considerati l’effettiva corrispondenza tra tali messaggi e quanto rilevabile in rete sull’account, intestato a nome di M. M., tuttavia non escludono in modo definitivo e preclusivo, che quanto lamentato dalla parte offesa si sia in effetti verificato, né la possibilità che ciò sia comprovabile aliunde, atteso che risulta confermato dagli stessi accertamenti tecnici, che un account a nome di M. M., era stato in effetti operativo in rete, durante il periodo segnalato dal R., per essere disattivato soltanto in seguito. Inoltre, ha evidenziato il giudicante, che lo stesso R. ha dichiarato che – prima di procedere all’acquisizione dal web su carta, tramite stampante, senza, tuttavia, adottare quelle procedure standard che ne avrebbero garantito l’autenticità – aveva avuto modo di riscontrare sull’account Facebook in questione la diffusione dei messaggi a contenuto diffamatorio, che lo riguardavano.
3.2.1. A ciò va aggiunto che nel contesto degli elementi acquisiti, la sentenza impugnata ha dato significativo risalto, al fine della riferibilità del reato all’imputato, al fatto che quest’ultimo – informato dell’esistenza dei predetti messaggi a contenuto illecito, immessi sul sito web intestato a suo nome, nell’ambito dell’inchiesta disciplinare avviata nei suoi confronti, non ha mai denunciato o segnalato abusi da parte di eventuali ignoti, responsabili di aver usato, senza il suo consenso, le sue generalità come semplice nickname, allo scopo di celare la propria, vera identità, nonché al fatto che nella memoria a sua firma, depositata sempre nell’ambito del procedimento disciplinare, questi non ha mai negato la paternità di quelle frasi, né il fatto queste fossero state da lui immesse in rete, sull’account intestato a suo nome.
3.2.2. In tale memoria, in particolare, l’imputato ha senz’altro ammesso i fatti, precisando che si trattava delle prime infrazioni a lui ascritte (a fronte degli elogi ricevuti per l’attività svolta nell’ambito della CRI) e che le frasi e le espressioni contestate erano state in effetti immesse nella sua pagina Facebook personale, accessibile esclusivamente ad un numero ristretto di utenti, senza manifestare alcun intento di screditare l’istituzione, costituendo un mero sfogo personale contro un unico, singolo individuo, sfogo, peraltro, provocato da presunte ingiustizie che egli aveva dovuto subire, a causa della reiterata condotta di R..
3.2.3. In merito all’inutilizzabilità di tale memoria le censure del ricorrente si presentano dei tutto infondate. Correttamente, infatti, il G.u.p. ha ritenuto che la memoria in questione – acquisita al processo ai sensi dell’art. 237 c.p.p., trattandosi di documento a firma dell’imputato e, quindi, di sua provenienza- fosse pienamente utilizzabile e valutabile ai fini del giudizio, atteso che per documento proveniente dall’imputato si intende senz’altro il documento dei quale è autore l’imputato (Sez. 5, n. 33243 del 09/02/2015). Questa Corte, invero, ha più volte rilevato che le dichiarazioni contenute in un memoriale proveniente
dall’imputato acquisito agli atti dei processo sono utilizzabili (Sez. 5, n. 28036 del 04/04/2013) nei suoi confronti secondo le regole di cui all’art. 192, comma primo, cod. proc. pen, (Sez. 4, n. 9174 del 08/11/2011).
3.2.4. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, le dichiarazioni confessorie o le ammissioni contenute in un documento proveniente dall’imputato non incontrano il limite alla loro utilizzabilità stabilito dall’art. 63, comma primo, cod. proc. pen., in quanto la norma si riferisce solo alle dichiarazioni rese dinanzi all’autorità giudiziaria, o alla polizia giudiziaria, nel corso delle indagini preliminari (Sez. 4, n. 27173 del 26/05/2015), anche se queste ultime non riguardano la persona del dichiarante (Sez. 3, n. 46767 del 23/11/2011). Pertanto, dei tutto legittimamente, il Tribunale ha utilizzato la memoria a firma dell’imputato – ammissiva dei fatti – in uno agli altri elementi deponenti convergentemente per la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli.
Il ricorso va, dunque, respinto ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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