Cassazione 15

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 2 marzo 2016, n. 8616

Ritenuto in fatto

Con il provvedimento in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha applicato, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., nei confronti di M.M. la pena di anni uno e mesi otto di reclusione, con pena sospesa, per le condotte illecite commesse, in qualità di Direttore Amministrativo di ILSPA (Infrastrutture Lombarde S.p.A.), nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica della P.A., amministrate per conto della Regione Lombardia e, segnatamente, per i reati di associazione per delinquere (sub capo 1), turbata libertà nella scelta del contraente (sub capo 2), truffa aggravata (sub capi 3 e 6) e falso (sub capi 4 e 5). Si tratta, in particolare, di condotte concernenti l’affidamento a diversi legali di servizi professionistici specialistici in ambito stragiudiziale mediante affidamento diretto, in violazione della procedura prevista per legge, e con una maggiorazione dei compensi relativi alle prestazioni effettivamente eseguite.

 Il Giudice ha evidenziato come non sussistano i presupposti per una pronuncia ai sensi dell’art. 129 del codice di rito, sulla scorta degli atti dell’incartamento processuale, ed, in particolare, delle risultanze delle intercettazioni telefoniche e della documentazione amministrativa acquisita nel corso delle indagini, che comprovano come l’imputato, nella qualità ricoperta, avesse preso parte al sodalizio criminoso facente capo ad R.A.G. , Direttore Generale della medesima società ILSPA, attivandosi per l’emanazione di atti amministrativi finalizzati alla commissione dei reati fine di cui ai capi da 2) a 6) della rubrica. Il Gip ha dunque rilevato come, dalla pronuncia discendano ulteriori conseguenze ai sensi dell’art. 640-quater cod. pen., in relazione all’art. 322-ter cod. pen., ed ha pertanto disposto la confisca per equivalente dell’ingiusto profitto conseguito (dall’avvocato Mo.Ni. ), pari a 256.758,18 euro. Con riferimento ai reati di cui ai capi 5) e 6), il Giudice ha posto in evidenza come l’ingiustizia del profitto, costituisca una conseguenza diretta della condotta di maggiorazione del corrispettivo pattuito indipendentemente da un incremento della prestazione resa dal Mo. . Per le condotte di cui ai capi 2), 3) e 4), si tratta di reati-contratto nell’ambito dei quali è proprio la stipulazione dei negozi ad essere qualificabile come reato. Il decidente ha dunque disposto la confisca per l’intero ammontare del profitto dei reati nei quali ha concorso il M. , seppure questi non abbia conseguito personalmente nessun profitto, in considerazione sia del principio solidaristico che uniforma la disciplina del concorso di persone nel reato, sia della natura sanzionatoria della confisca per equivalente, potendosi – in ogni caso – disporre la confisca pure in assenza di un precedente provvedimento di sequestro.

Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’Avv. Paolo Veneziani, difensore di fiducia di M.M. , e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi.

2.1. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 640-quater e 322-ter cod. pen., per avere il Gip disposto la confisca in assenza dei presupposti di legge ed in particolare, per aver ordinato la confisca della somma di 199.785,18 euro in relazione al profitto conseguito da Mo.Ni. :

– quanto al reato di cui al capo 2) ex art. 353-bis cod. pen., per il quale non è prevista la confisca per equivalente e risulta essere stato commesso in concorso con soggetti diversi dal Mo. ;

– quanto reato di cui al capo 3) ex art. 640, comma 2, cod. pen., sebbene commesso in concorso con soggetti diversi dal Mo. ;

– quanto al reato di cui al capo 4) di cui agli artt. 479 e 476 cod. pen., per il quale non è prevista la confisca e risulta essere stato commesso in concorso con soggetti diversi dal Mo. .

Rileva inoltre il ricorrente che, diversamente da quanto argomentato dal Giudice, nella specie non si tratta di cd. reato-contratto, ma di cd. reato in contratto, nell’ambito del quale il professionista avvocato Mo. ha svolto un’attività in favore di ILSPA che ha comportato un’oggettiva utilità per l’ente in favore del quale essa è stata resa. D’altra parte, fa difetto qualunque accertamento in merito alla sussistenza e, soprattutto, alla precisa entità del profitto che si assume lucrato dal concorrente Mo. , là dove la rinegoziazione delle condizioni contrattuali costituisce di per sé un dato neutro da un punto di vista logico e giuridico e non è necessariamente indicativa della ingiustizia di quanto previsto come maggiorazione, potendo ciò trovare giustificazione in una erronea determinazione dell’originario compenso ovvero in un importo rivelatosi inadeguato in corso d’opera o comunque giustificato dall’attività ulteriori.

2.2. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 640-quater, 322-ter e 110 cod. pen., per avere il Giudice disposto la confisca nei confronti di M. pur dando atto del fatto che questi non ha tratto nessun profitto dall’agire illecito, percepito – in effetti – dal solo compartecipe Mo. , il quale è rimasto indenne da qualunque provvedimento patrimoniale, in evidente contrasto con la natura sanzionatoria della confisca per equivalente.

2.3. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 240, 640-quater e 322-ter cod. pen., per avere il Gip disposto la confisca per equivalente senza verificare se, nella specie, fosse o meno possibile apprendere in via diretta il profitto di reato da chi lo aveva conseguito, segnatamente il concorrente Mo. .

2.4. Violazione di legge in relazione agli artt. 2, comma 4, cod. pen., 25, comma 2, Cost., 7 CEDU in riferimento all’art. 117 Cost., per avere il Giudice disposto la confisca sebbene, in relazione all’ipotesi di cui all’art. 640-quater cod. pen., la confisca per equivalente debba ritenersi possibile, per le condotte antecedenti alla legge n. 190 del 2012, con esclusivo riferimento al ‘prezzo’ del reato e non anche al ‘profitto’, giusta la previsione introdotta nell’art. 322-ter soltanto con la predetta legge.

Ritenuto in diritto

Il ricorso è fondato nei termini che seguono ed il provvedimento in verifica deve essere annullato con rinvio con riguardo alla disposta confisca.

Giova preliminarmente sgombrare il campo dall’ultimo profilo di doglianza (punto 2.4 del ritenuto in fatto), col quale il ricorrente ha dedotto la violazione di legge per avere il Giudice disposto la confisca del ‘profitto’ del reato sebbene all’epoca di commissione del reato – antecedente alla legge n. 190 del 2012 -, il combinato disposto degli artt. 640-quater e 322-ter cod. pen. consentisse la confisca per equivalente con esclusivo riferimento al ‘prezzo’ del reato.

A tale proposito, mette conto ribadire l’ormai consolidato insegnamento di questo Corte di legittimità, alla stregua del quale, in tema di confisca per equivalente, le modifiche introdotte con la legge n. 190 del 2012 non hanno carattere innovativo rispetto al coordinato disposto dall’art. 640-quater cod. pen. con l’art. 322-ter cod. pen., in quanto, anche prima della novella, la misura ablatoria disposta per uno dei reati previsti dall’art. 640-quater cod. pen. poteva avere ad oggetto beni per un valore equivalente non solo al prezzo, ma anche al profitto del reato (Sez. 2, n. 31229 del 26/06/2014 – dep. 16/07/2014, Borda, Rv. 260368; Sez. 2, n. 30050 del 11/06/2014 – dep. 09/07/2014, Lanzilli, Rv. 260138).

Meritano una trattazione unitaria il primo ed il secondo motivo con i quali il ricorrente ha eccepito la violazione di legge ed il vizio di motivazione per avere il Giudice disposto la confisca, per un verso, per l’intero ammontare dei contratti oggetto dei delitti, facendo coincidere con esso l’entità dell’ingiusto profitto (punto 2.1 del ritenuto in fatto); per altro verso, nonostante M. non abbia tratto nessun personale vantaggio economico dall’agire illecito, conseguito integralmente dal correo Mo. (punto 2.2 del ritenuto in fatto).

Ritiene il Collegio di dover ribadire i principi già espressi in altre pronunce di questa Corte in casi in tutto speculari a quello di specie ed, in particolare, nella sentenza Sez. 6, n. 9988 del 27/01/2015 – dep. 09/03/2015, Moioli, Rv. 262794 (e precedentemente Sez. 6, n. 53430 del 05/11/2014 – dep. 22/12/2014, G-Risk S.r.l., Rv. 261841), le cui motivazioni di seguito si riproducono.

In via preliminare, deve essere rilevato come la definizione del quantum del provvedimento di confisca – anche nei casi di sequestro preventivo a fini di confisca – costituisca operazione estremamente problematica sia per la multifunzionalità dell’istituto ablativo – che nato quale misura di sicurezza patrimoniale, orientata in una chiara ottica special preventiva, ha visto nel tempo accentuarsi la valenza sanzionatoria, soprattutto nelle nuove forme di confisca per equivalente -, sia per l’incertezza ed elasticità dei confini dell’ablazione, in quanto ‘fisiologicamente’ variabili, modulandosi in modo di volta in volta diverso in relazione allo specifico fatto integrante il reato presupposto.

5.1. Giova notare come, nel nostro ordinamento, non vi sia una definizione normativa di profitto: il codice penale e le leggi speciali si limitano infatti ad elencare il profitto assieme agli altri ‘beni’ suscettibili di apprensione – al pari non definiti dal legislatore – quali il prezzo ed il prodotto del reato. Nel sistema penale, sostanziale e processuale, mancano, d’altra parte, indicazioni positive che consentano di orientare l’interprete verso la commisurazione del profitto in termini di ricavo ‘lordo’ dell’illecito agire, piuttosto che di ricavo ‘netto’, cioè di effettivo ‘guadagno’ tratto dall’agente per effetto della sua condotta criminosa defalcando eventuali voci di costo, non vi sono indicatori che inducano a privilegiare – mutuando le espressioni del lessico tedesco – per il Bruttoprinzip (principio del lordo) piuttosto che per il Nettoprinzip (principio del netto). Anche gli atti internazionali cui lo Stato italiano ha inteso dare attuazione con la L.D. n. 300/2000, da cui è scaturito il decreto n. 231/2001 (segnatamente le Convenzioni del 26/7/1995 sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee e sulla lotta alla corruzione nonché la Convenzione OCSE del 17/12/1997), fanno riferimento ai ‘proventi’ dei reati – così tradotto il termine anglosassone proceeds -, dunque ad un concetto diverso, e più ampio, di quello di profitto (sul punto anche Cass. Sez. U del 27/03/2008, n. 26654, cit.).

5.2. La questione circa la determinazione del profitto suscettibile di confisca (e quindi di sequestro a fini di confisca) è stata oggetto di un intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale con riguardo alle ipotesi di confisca – tradizionali e di nuovo conio – adottabili nei confronti dell’autore persona fisica. In particolare, la giurisprudenza di legittimità si è più volte occupata di delimitare l’area del profitto confiscabile allo scopo di evitare l’assoggettamento a provvedimento ablatorio dei vantaggi patrimoniali non immediati e addirittura remoti che possano scaturire dalla condotta illecita, mentre ha poco esplorato il tema delle componenti strutturali del profitto, andando poco oltre all’ambito definitorio; ci si è limitati alla specificazione dell’essenza del concetto di profitto da un punto di vista teorico e si è trascurata l’enucleazione delle singoli voci che possono o non possono essere ad esso imputate.

In particolare, questa Corte regolatrice ha avuto modo di chiarire, anche a Sezioni Unite, che, ‘in tema di confisca, il prodotto del reato rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato’ (Cass. Sez. U del 03/07/1996, n. 9149 Rv. 205707). Si è sottolineato come debba sempre sussistere un rapporto pertinenziale, una relazione diretta, attuale e strumentale, tra il bene sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito, ‘vantaggio di natura economica’ ovvero ‘beneficio aggiunto di tipo patrimoniale’ di ‘diretta derivazione causale’ dall’attività del reo, dunque rutilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa’, e si è precisato che non è possibile addivenire a ‘un’estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa comunque scaturire da un reato’ (si veda nella motivazione della sentenza Cass. Sez. U del 24/05/2004, n. 29951, Focarelli, Rv. 228166; richiamata da Cass. Sez. U del 25/10/2005, n. 41936, Muci, Rv. 232164). È dunque escluso che possano farsi rientrare nell’alveo del profitto confiscabile quelle conseguenze positive, pur economicamente valutabili, derivanti dal reato che non costituiscano risultato immediato e diretto della condotta illecita.

5.3. Va, inoltre, posto l’accento sul fatto che la nozione di profitto assoggettabile ad ablazione è stata tradizionalmente elaborata con riguardo ai tipici reati contro il patrimonio sostanzianti una spoliazione della persona offesa (quali il furto o la rapina): rispetto a tali fattispecie incriminatrici, il profitto del reato è stato individuato nell’intero valore delle cose ottenute attraverso la condotta criminosa senza poter scomputare le spese sostenute per procurarsi i mezzi strumentali e quindi per l’esecuzione materiale del delitto. Ancora, in caso di reati la cui condotta sostanzi un contratto a prestazioni corrispettive avente oggetto illecito, il profitto confiscabile è stato solitamente determinato nell’intero valore della controprestazione del rapporto sinallagmatico: si pensi, ad esempio, al profitto conseguente all’attività di cessione di sostanze stupefacenti, fattispecie rispetto alla quale il profitto del reato viene fatto coincidere con l’intero valore del contratto stipulato fra le parti, in particolare con la somma pagata per la compravendita avente ad oggetto il materiale drogante (Cass. Sez. 6 del 18/11/2010, n. 44096, Mbaye Rv. 249073). In tutte le ipotesi sopra delineate, i costi sostenuti dall’agente nella fase preparatoria e/o esecutiva dell’illecito – oltre ad essere essi stessi spesso legati a negozi intrinsecamente illeciti, in quanto contrari a norme imperative (si pensi al rifornimento dello stupefacente poi oggetto di cessione) – riguardano comunque attività strumentali o strettamente collaterali alla commissione dell’illecito ed, in quanto tali, sono esse stesse connotate da illegalità. I costi eventualmente sostenuti dall’agente per l’esecuzione del contratto a prestazioni corrispettive integralmente contaminato da illiceità risultano pertanto non defalcabili dal profitto confiscabile, trattandosi di spese, oltre che difficilmente documentabili e non determinabili in modo preciso, comunque sostenute a fronte di attività strettamente funzionali all’agire illegale ed esse stesse illecite, dunque immeritevoli di qualunque tutela da parte dell’ordinamento.

5.4. La questione della determinazione del profitto confiscabile risulta ancor più problematica allorché si abbia a che fare con forme di criminalità cd. economica, connesse ad un’attività lecita d’impresa nella quale si insinuino condotte integranti reato. Si pensi ai reati di truffa o di corruzione finalizzati alla aggiudicazione di un appalto ovvero ad ottenere la liquidazione da parte del pubblico ufficiale di un corrispettivo più elevato di quello dovuto nell’ambito di un rapporto sinallagmatico stipulato fra impresa privata ed ente pubblico.

Inserendosi l’illecito nell’ambito di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive di per sé non illegale, risulta più problematico stabilire se il profitto del reato – cioè il beneficio aggiunto di tipo patrimoniale di diretta derivazione causale dall’attività del reo – sia rappresentato dall’intero valore della commessa acquisita o del contratto stipulato, ovvero se esso debba essere circoscritto al guadagno netto tratto dall’imprenditore nel dare esecuzione alla prestazione concordata.

Il profitto confiscabile è certamente entità che appartiene alla sfera del diritto penale o comunque sanzionatorio e non può ricostruirsi sulla base di criteri aziendalistici. Nondimeno, in ossequio al principio di legalità, allorché si tratti di illecito commesso nell’ambito di una lecita attività d’impresa, il profitto deve essere rigorosamente circoscritto al vantaggio direttamente riconducibile all’attività illegale: la regola secondo cui l’illecito ‘non può pagare’, non può consentire di attingere vantaggi patrimoniali conseguenti da attività del tutto lecite, pena danni irreparabili sia per l’impresa, ‘condannata’ al fallimento, sia per i terzi incolpevoli, quali i lavoratori ed i creditori.

5.5. Della determinazione del profitto confiscabile si sono specificamente occupate le Sezioni Unite nella già citata pronuncia n. 26654 del 2008, nella quale, pur trattando specificamente il tema della confisca sanzione ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001 (in tema di responsabilità degli enti), questa Suprema Corte ha cercato di fissare dei principi generali in punto di commisurazione del profitto suscettibile di confisca sanzione, universalmente validi ed esportabili nei diversi casi astrattamente riscontrabili nella prassi. Ripercorrendo i punti salienti della decisione, in primo luogo, la Corte ha chiarito che, nel delineare il profitto confiscabile non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico, in quanto, nell’assolvere una funzione di deterrenza, la confisca risponde ad esigenze di giustizia e nel contempo di prevenzione generale e speciale, non potendosi ammettere che il crimine possa rappresentare un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto sul bene e che il reo possa rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Dopo avere richiamato le nozioni di profitto fissate in precedenti pronunce a composizione allargata già sopra ricordate (secondo cui il profitto del reato va inteso come ‘vantaggio di natura economica’, come ‘beneficio aggiunto di natura patrimoniale’, come ‘utile conseguito dall’autore del reato in seguito alla commissione del reato’; Cass. Sez. U del 24/05/2004, n. 29951, cit. e Sez. U del 25/10/2005, n. 41936, cit.) ed affermato che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta ‘l’effettivo criterio selettivo di ciò che può esser confiscato a tale titolo’, la Corte ha tracciato un netto discrimen fra profitto conseguente da un ‘reato contratto’ e profitto derivante da un ‘reato in contratto’. Nel primo caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione – si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca; nel secondo caso – in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale – è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente. Esemplificando il ragionamento svolto nella pronuncia, risulta riconducibile all’ipotesi del cd. ‘reato contratto’ il caso in cui il reato presupposto si sostanzi in un’attività integralmente illecita, come l’associazione finalizzata ad attività di narcotraffico, fonte di responsabilità per l’ente ex art. 24-ter d.lgs. n. 231/2001; risulta invece inquadrabile nell’ipotesi del cd. ‘reato in contratto’ il caso in cui l’illecito si inserisca nella fase della negoziazione e stipula di un contratto sinallagmatico, cui l’ente abbia poi dato regolare e lecita esecuzione, come nei casi di truffa in danno dello Stato o di corruzione, fonte di responsabilità per l’ente rispettivamente ex artt. 24 e 25 stesso decreto.

Le Sezioni Unite hanno quindi chiarito come, ferma l’assoggettabilità a confisca dell’intero vantaggio patrimoniale conseguito dai ‘reati contratto’, nelle ipotesi di ‘reato in contratto’ è necessario distinguere il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) dal corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito (profitto non confiscabile): in particolare, il profitto deve essere ‘concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente’, evidenziando come lo stesso art. 19 impedisca l’assoggettamento a confisca della parte del profitto che può essere restituita al danneggiato.

I principi espressi dalle Sezioni Unite sono stati successivamente ribaditi da questa Corte (Cass. Sez. 6 del 17/06/2010, n. 35748, P.M. e Impregilo S.p.A. Rv. 247914).

5.6. Dalle superiori considerazioni discende che l’area del profitto assoggettabile a confisca e dunque a sequestro preventivo finalizzato alla confisca ha un’ampiezza diversa a seconda della fattispecie costituente reato presupposto.

Come si è già sopra accennato, nel caso in cui l’attività illegale non comporti lo svolgimento di nessuna controprestazione lecita, il profitto confiscabile non potrà che identificarsi con l’intero valore del negozio, in quanto integralmente frutto di un’attività illegale, facendo difetto qualunque costo scorporabile, perché intrinsecamente illecito o comunque concernente attività strumentali e/o correlative rispetto al reato presupposto.

Diversamente, nel caso di truffa o di corruzione finalizzata ad ottenere l’aggiudicazione di una commessa ovvero a conseguire, nell’ambito di un rapporto negoziale a prestazioni corrispettive, un corrispettivo più elevato di quello dovuto (ad esempio in sede di remunerazione delle varianti in corso d’opera o di pagamento delle cd. riserve), trattandosi di contratti validi inter partes e solo annullabili, il profitto dovrà essere commisurato alla differenza fra l’intero valore del contratto e l’utilità effettivamente conseguita dalla controparte.

Come già affermato da questa Corte, in caso di appalto acquisito a seguito di corruzione, non può definirsi illecito e dunque confiscabile, il profitto conseguente da un’effettiva e corretta esecuzione delle prestazioni svolte in favore della controparte, pur in virtù di un contratto instaurato illegalmente: il profitto confiscabile non va identificato con l’intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A., dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall’illecito penale dal corrispettivo conseguito per l’effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell’illiceità della causa remota (Cass. Sez. 6 del 26/03/2009, n. 17897, P.M. in proc. Ferretti, Rv. 243319).

Soltanto rispetto alla differenza fra l’intero valore del contratto ed il valore della prestazione effettivamente svolta a vantaggio della controparte è, difatti, possibile affermare che l’ente abbia tratto un’utilità economicamente valutabile quale frutto immediato e diretto dell’illecito, laddove la seconda voce – cioè il corrispettivo percepito dall’ente in stretta correlazione alla prestazione eseguita rappresenta un vantaggio economico conseguenza di un’attività lecita e non trova in effetti la sua causa nel reato. Se il profitto si sostanzia nel ‘beneficio aggiunto di natura patrimoniale’ tratto dalla condotta illecita, esso non può che essere pari all’intero prezzo pattuito della commessa, cioè al valore totale fatturato del contratto, al netto del valore della prestazione effettivamente garantita alla controparte, di tal che, in caso di esecuzione solo parziale o in parte non conforme a quanto convenuto o comunque non utile, si dovrà detrarre soltanto il corrispettivo pro quota o comunque stimato equo per la prestazione eseguita.

Nel caso in cui l’illecito sia stato commesso nell’ambito di un’attività d’impresa lecita, il provvedimento ablatorio deve dunque essere circoscritto al vantaggio economico tratto dall’attività illecita al netto della utilitas comunque conseguita dalla controparte dall’adempimento della prestazione oggetto del contratto, trattandosi – riguardo a quest’ultima – di vantaggio economico non direttamente né immediatamente riconducibile al reato, ma soltanto all’esecuzione del rapporto obbligatorio, che, pertanto, non può andare a comporre il profitto confiscabile.

Riprendendo un ulteriore passaggio della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 26654/2008 che si attaglia perfettamente al caso di specie, ‘trattasi, quindi, di un reato in contratto e, in questa ipotesi, il soggetto danneggiato, in base alla disciplina generale del codice civile, può mantenere in vita il contratto, ove questo, per scelta di carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo favorevole e ne tragga comunque un utile, che va ad incidere inevitabilmente sull’entità del profitto illecito tratto dall’autore del reato e quindi dall’ente di riferimento’; ‘Più concretamente, in un appalto pubblico di opere e di servizi, pur acquisito a seguito di aggiudicazione inquinata da illiceità (nella specie truffa), l’appaltatore che, nel dare esecuzione agli obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa lecitamente assunta interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure’.

5.7. Tirando le fila di quanto sopra, nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un’ipotesi di cd. reato in contratto, il profitto assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato alla confisca dovrà, dunque, essere determinato tenendo in considerazione un duplice criterio: da un lato, potranno essere assoggettati ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscano diretta derivazione causale dell’illecito (cd. concezione causale del profitto), di tal che la confisca potrà interessare esclusivamente l’effettivo incremento del patrimonio conseguito dall’agire illegale; dall’altro lato, non potranno essere aggrediti i ‘vantaggi’ eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico, cioè pari alla utilitas di cui si sia giovata la controparte.

Quale naturale corollario del primo criterio, non potranno essere confiscati né assoggettati a sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente i crediti, ancorché liquidi ed esigibili, che non siano stati ancora riscossi (Cass. Sez. 5 del 14/12/2011, n. 3238, Società Valore S.p.A., Rv. 251721; Sez. 6, n. 13061 del 19/03/2013, Soc. Coop. CMSA, Rv. 254841); né, in caso di appalto affidato a seguito di truffa aggravata e corruzione, le ‘utilità prospettiche’ e non ancora acquisite, determinate sulla base delle previsioni degli utili (Cass. Sez. 2, n. 8339 del 12/11/2013, De Cristofaro Rv. 258787). Il profitto confiscabile è infatti solo quello costituito da un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale dell’ente beneficiario, ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica ed avvinto all’azione criminosa da una stretta relazione causale (Cass. Sez. 5, n. 10265 del 28/11/2013, Banca Italease S.p.a., Rv. 258577).

Quanto al secondo criterio, dal prezzo indicato nel contratto (dunque al ‘lordo’) dovranno essere defalcate le somme riscosse dall’ente pari alla ‘effettiva utilità conseguita dal danneggiato’, id est al valore della prestazione di cui la controparte si sia effettivamente avvantaggiata in esecuzione di un contratto sinallagmatico.

5.8. Fissate tali coordinate ermeneutiche, resta da affrontare il tema, per vero anch’esso assai problematico, della determinazione del valore della utilitas conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, unica voce scomputabile dal complessivo valore del negozio e, quindi, sottratta all’ablazione.

In particolare, v’è da chiedersi se tale utilità possa essere determinata avendo riguardo al prezzo della prestazione indicato nel contratto ovvero al valore di mercato di essa o ancora ai costi effettivamente sostenuti dall’impresa per dare esecuzione alla prestazione, ricostruibili sulla base della contabilità obbligatoria e dei bilanci oggetto di revisione contabile, ovvero dei costi medi delle imprese del medesimo settore per dare esecuzione a quella tipologia di prestazione.

Il punto fermo da cui occorre prendere le mosse è che, nella commisurazione del valore della ‘utilità conseguita dal danneggiato’, non si può in alcun modo tenere conto del margine di guadagno per l’ente, dell’utile d’impresa che – almeno fisiologicamente – compone il corrispettivo pagato per la prestazione: tenuto conto della ratio dell’istituto, ispirata al principio secondo il quale crimen non lucrat, non è invero ammissibile che la persona giuridica chiamata a rispondere della responsabilità amministrativa possa trarre un qualunque vantaggio economico, un lucro, dall’agire illecito.

Ne discende che l’utilitas non può essere commisurata al prezzo indicato nel contratto, in ipotesi viziato dall’attività illecita, né al valore di mercato della prestazione ivi prevista, in quanto di necessità inglobanti anche un margine di guadagno per l’ente, un utile d’impresa, un quid pluris rispetto al valore ‘nudo’ della prestazione, che non può essere riconosciuto per le ragioni sopra esplicitate. Ed invero, solo impedendo che dal profitto confiscabile venga defalcato il margine di guadagno tratto dall’ente dalla commessa oggetto dell’illecito, è possibile evitare il ‘risultato paradossale’ in evidente contrasto con la volutas legis – stigmatizzato da taluna dottrina -, secondo cui, in caso di esatto adempimento del contratto pur inquinato dall’illecito, potrebbe in concreto non configurarsi nessun profitto confiscabile, pur avendo l’ente tratto dall’attività illecita un vantaggio da un punto di vista economico, rappresentato appunto dall’utile di impresa.

Sulla scorta di tali premesse, ritiene allora il Collegio che il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte debba essere commisurato ai soli ‘costi vivi’, concreti ed effettivi, che l’impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all’obbligazione contrattuale, non potendo – come già esplicitato computarsi nel valore della utilitas conseguita dalla controparte anche il margine di guadagno per l’ente esecutore.

Al fine di determinare i ‘costi vivi’ sostenuti dall’ente per dare adempimento alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata, l’Autorità Giudiziaria potrà avvalersi dell’esito degli accertamenti compiuti dalla Polizia Giudiziaria ovvero, se non esaurienti, delle indicazioni di un tecnico, nominato quale consulente o perito, che tengano conto, da un lato, delle risultanze della contabilità e dei bilanci dell’ente, dall’altro lato, del costo di mercato di quella tipologia di prestazione, avuto riguardo ai valori medi del settore, e di qualunque altro dato che possa consentire di correggere eventuali sopravvalutazioni dei costi esposti nei documenti contabili e, dunque, di limare cifre che risultassero essere state artatamente maggiorate, secondo una linea di continuità con le condotte illecite oggetto del procedimento. Sulla base di tali dati, il giudice potrà così determinare, in modo esatto e giuridicamente corretto, sulla base di dati concreti e non presuntivi, l’ammontare della voce di costo scorporabile dal ricavo lordo percepito dall’ente e, quindi, il quantum di profitto confiscabile.

Mette conto porre in risalto come, in sede di commisurazione della utilitas conseguita dalla controparte, non si potrà tenere conto del compenso percepito in relazione a prestazioni, o a parti di esse, che risultassero del tutto inutili nell’economia del contratto e dunque indicate ad arte solo per ‘gonfiare’ il prezzo del negozio. Ancora, nel caso in cui l’esecuzione della prestazione sia parziale o in parte non conforme a quanto convenuto, dal valore complessivo del contratto potrà essere detratto soltanto il costo pro quota stimato equo per la prestazione in effetti eseguita e di cui la controparte si sia utilmente giovata.

Così come ricostruito, il perimetro del profitto confiscabile viene dunque a comprendere esclusivamente il beneficio patrimoniale ‘netto’ derivante dall’attività illecita e lascia fuori i vantaggi economici ‘netti’ derivanti dall’esecuzione di un’attività di per sé lecita. Risulta di tutta evidenza come il profitto confiscabile non coincida con il ‘profitto netto’ inteso in senso aziendalistico, laddove isola (e dunque assoggetta ad ablazione), nell’ambito dell’intero prezzo indicato nel contratto e versato dalla controparte, le somme percepite dall’agente che non siano giustificate dai costi concreti ed effettivamente sostenuti per dare esecuzione alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata: si tratta, dunque, di concetto estraneo all’utile d’impresa, costituendo – in linea con le indicazioni date dalle Sezioni Unite – l’’utile netto’ tratto dall’agente quale diretta ed immediata conseguenza dell’operazione criminale.

Tornando al caso di specie, sulla scorta dei sopra delineati principi in punto di commisurazione del quantum di profitto assoggettabile a confisca per equivalente, non è revocabile in dubbio che, nei casi in oggetto, vengano in rilievo fattispecie di cd. ‘reato in contratto’.

A tenore di contestazione, le incolpazioni ascritte al M. riguardano contratti per la prestazione di ‘servizio professionale specialistico in ambito stragiudiziale’ oggetto di affidamento diretto da parte dell’ente mediante colluzione col privato, senza dare corso alla procedura di scelta del contraente prevista per legge, con una maggiorazione degli importi costituenti corrispettivo, mediante ampliamento dell’oggetto delle prestazioni e con imputazione di costi e spese sostenute dal professionista estranei all’attività espletata su incarico dell’ente. Per quanto dato atto nelle stesse imputazioni, si tratta di attività che per quanto affidata in violazione di legge e remunerata con corrispettivi ‘gonfiati’ – risulta essere in effetti stata espletata e rispetto alla quale la controparte pubblica ha pertanto tratto un’utilitas.

Contrariamente a quanto argomentato dal Giudice dell’udienza preliminare, nel caso in oggetto, ci si trova dunque in presenza, non di ‘reati contratto’ – cioè di contratti radicalmente contaminati da illiceità -, bensì di tipici ‘reati in contratto’, viziati nella fase preparatoria e/o di stipula, dunque annullabili, ma suscettibili di regolare e lecita esecuzione. Se ne inferisce che, in ossequio ai principi sopra illustrati e innanzi ribaditi, dall’area del profitto confiscabile, il decidente avrebbe dovuto escludere i compensi versati dall’ente a fronte del vantaggio (l’utilitas) tratto dall’adempimento delle prestazioni oggetto dei negozi, in quanto consistite in attività in effetti in tutto lecite e come tali legittimamente remunerabili.

Il Giudice milanese ha dunque errato allorché, in relazione alle contestazioni de quibus, ha ritenuto assoggettabile a confisca l’intero valore dei contratti, dovendo da esso – in applicazione dei sopra delineati criteri di determinazione del profitto del reato in caso di ‘reato in contratto’ – defalcarsi il valore incamerato dai professionisti a fronte delle prestazioni lecite svolte in favore di ILSPA – cioè l’utilitas tratta dalla controparte -, pur in esecuzione di negozi affetti da vizi relativi alla fase della formazione della volontà contrattuale e pertanto annullabili.

È fondato anche il terzo motivo con il quale il ricorrente si duole del fatto che si stata disposta la confisca per equivalente senza verificare l’impossibilità di aggredire in via diretta l’ingiusto profitto (punto 2.3. del ritenuto in fatto).

7.1. In via preliminare, mette conto rilevare che, in virtù del richiamo dell’art. 640-quater cod. pen. al disposto dell’art. e 322-ter cod. pen., ‘1. Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti (…), è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persone estranee al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto’.

In ossequio all’inequivoco dato testuale della norma, la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte è orientata nel senso di ritenere che la confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato possa essere legittimamente disposta solo se, per una qualsivoglia ragione, i proventi dell’attività illecita, di cui pure sia certa l’esistenza, non siano rinvenuti nella sfera giuridico – patrimoniale dell’agente (Cass. Sez. 5, n. 46500 del 19/09/2011, Lampugnani Rv. 251205). L’ablazione per equivalente, o di valore, è invero prevista per il solo caso in cui non sia possibile agire direttamente sui beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, a cagione del mancato loro reperimento, e consente di apprendere utilità patrimoniali di valore corrispondente, di cui il reo abbia la disponibilità: in tale caso, l’ablazione per equivalente può riguardare un qualunque bene di cui l’imputato abbia la disponibilità, anche in modo legittimo e, comunque, indipendentemente dalla commissione dell’illecito penale a lui contestato, a condizione – si ribadisce – che nella sfera giuridico – patrimoniale del soggetto attivo non sia rinvenuto, per una qualsivoglia ragione, il prezzo o profitto del reato per cui si proceda, ma di cui sia ovviamente certa l’esistenza (Cass. Sez. 1, n. 28999 dell’1.4.2010, Rv. 248474, Sez. 5, n. 15445 del 16/1/2004, Rv. 228750, nonché Sez. U., n. 41936 del 25/10/2005, Rv. 232164).

7.2. In applicazione di tale regula iuris, allorché, nel patrimonio dell’autore del reato ovvero di taluno dei concorrenti, siano individuabili denaro o beni fungibili costituenti profitto del reato, prima di poter disporre la confisca per equivalente in sentenza (ma anche in fase cautelare ai fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca) è necessario previamente disporre, o quantomeno tentare, l’ablazione diretta dei valori costituenti provento di reato, di tal che la confisca di valore è possibile soltanto nel caso in cui il tentativo di aggressione diretta del profitto si sia rivelato infruttuoso per (‘indisponibilità materiale di beni da apprendere.

7.3. Sempre in linea generale, va evidenziato che, come sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte, qualora il profitto sia costituito da una somma di denaro – bene fungibile per eccellenza -, essa non è assoggettabile a confisca per equivalente, in quanto il denaro è sempre oggetto di confisca diretta, e la sua trasformazione in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo, che può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito (Sez. U n. 10561 del 30/1/2014, Gubert, in motivazione;; Sez. 2, n. 14600 del 12/03/2014, Ber Banca Spa, Rv. 260145; Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015 – 21/07/2015, Lucci Rv. 264437).

D’altra parte, costituiscono ‘profitto’ del reato anche gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa e i beni in cui questo è trasformato, in quanto tali attività di impiego di trasformazione non possono impedire che venga sottoposto ad ablazione ciò che rappresenta l’obiettivo del reato posto in essere (Cass. Sez. 6, n. 11918 del 14/11/2013, Rossi Rv. 262613). Ed invero, nel sistema penale non costituiscono ostacolo alla confisca (e, quindi, nella fase delle indagini, al sequestro) le trasformazioni o modifiche che il prodotto del reato abbia subito, cosicché ove le cose da sequestrare siano per loro natura fungibili originariamente o a seguito di trasformazione – l’eventuale commistione tra cose lecite e cose illecite, appartenenti allo stesso genere, costituisce una forma di trasformazione dell’originario prodotto del reato in cose comunque separabili con operazioni di peso, misurazione o numerazione. Il tutto in conformità della regola civilistica che prevede, per le obbligazioni che hanno ad oggetto denaro o altre cose fungibili, l’obbligo di restituire ‘altrettante cose della stessa specie e qualità’, regola generale applicabile anche in sede penale, in considerazione della natura patrimoniale della misura di sicurezza (Cass. Sez. 6, n. 1041 del 14/04/1993, Ciarletta, Rv. 195683).

7.4. Dei sopra delineati principi non ha fatto buon governo il Giudice milanese là dove ha ordinato la confisca per equivalente dei beni del M. prima di disporre in via prioritaria, o quantomeno tentare, la confisca del profitto in forma specifica, da identificare nella porzione (determinata secondo le indicazioni di cui al punto 5.8) dei corrispettivi percepiti dai diretti beneficiari dei contratti professionali stipulati con ILSPA, costituendo – si ribadisce – la confisca per equivalente provvedimento solo sussidiario rispetto alla confisca in forma specifica del profitto.

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata nella parte relativa alla confisca con rinvio al Tribunale di Milano per nuovo esame sul punto.

Nel giudizio di rinvio, il Giudice delle indagini preliminari dovrà determinare l’ingiusto profitto tenendo conto dei criteri sopra delineati al punto 5.8 del considerato in diritto ed, in particolare, nel definire l’area del profitto confiscabile – id est della utilità conseguita non assoggettabile ad ablazione – dovrà determinare il valore della prestazione avendo riguardo ai cd. costi vivi. Il Giudice dovrà inoltre fare particolare attenzione ad evitare di sottrarre dal quantum confiscabile (con ciò riconoscendo un correlativo corrispettivo legittimo ai professionisti) le somme percepite in relazione a prestazioni del tutto superflue nell’economia del contratto o, peggio, non eseguite o eseguite con modalità non conformi a quanto convenuto nei contratti.

Il Gip dovrà, poi, verificare la possibilità di procedere all’aggressione diretta del profitto del reato e, solo allorquando abbia riscontrato la (eventuale) impossibilità di attingerlo, potrà disporre la confisca per equivalente.

8.1. A tale ultimo proposito – in risposta alla doglianza sviluppata nel motivo di cui al punto 2.2. del ritenuto in fatto -, va rammentato che, come questa Suprema Corte, anche nel suo più ampio consesso, ha avuto modo di chiarire, nel caso in cui si tratti di fattispecie plurisoggettiva, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coimputati – salvo l’eventuale riparto tra i concorrenti medesimi -, che costituisce fatto interno a questi ultimi, privo di alcun rilievo penale, considerato il principio solidaristico che uniforma la disciplina del concorso di persone e che, di conseguenza, implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa in capo a ciascun concorrente, nonché la natura della confisca per equivalente, a cui va riconosciuto carattere eminentemente sanzionatorio (v. da ultimo, Sez. 5, n. 25560 del 20/05/2015 – 17/06/2015, Gilardi, Rv. 265292; Sez. 3, n. 27072 del 12/05/2015 – dep. 26/06/2015, Bertelli e altro, Rv. 264343; Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008 – dep. 02/07/2008, Fisia Italimpianti Spa e altri, Rv. 239926). Ciò, con l’unico limite che l’espropriazione non può mai eccedere nel quantum né l’ammontare del profitto complessivo, né – in caso di imputato cui non sono attribuibili tutti i reati accertati – il profitto corrispondente ai reati specificamente attribuiti al soggetto attinto dal provvedimento ablatorio (Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008 – dep. 02/07/2008, Fisia Italimpianti Spa e altri, Rv. 239926).

Sulla scorta del principio di diritto sopra delineato, la confisca di valore potrà pertanto essere disposta anche in via esclusiva nei confronti di M. , sebbene – con riguardo al quantum – in relazione all’entità dell’ingiusto profitto derivante dai soli reati ascritti al ricorrente e per i quali il codice penale preveda la confisca.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente alla disposta confisca per equivalente e rinvia, per una nuova deliberazione sul punto, al Tribunale di Milano.

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