Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 21 febbraio 2017, n. 8351

Pagano i danni derivanti dal reato il sindaco e il responsabile del procedimento del Comune che attestano falsamente che l’area comune territoriale è satura per ampliare un Pip decaduto in un settore caratterizzato da attività vincolata

Suprema Corte di Cassazione,

sezione V penale

sentenza 21 febbraio 2017, n. 8351

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PALLA Stefano – Presidente

Dott. DE BERARDINIS Silvana – Consigliere

Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere

Dott. GUARDIANO Alfred – rel. Consigliere

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS), e da (OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza pronunciata dalla corte di appello di Napoli 20.11.2013;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;

udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore generale dott. Pietro Gaeta, che ha concluso per l’inammissibilita’ dei ricorsi;

udito per le costituite parti civili il difensore di fiducia, avv. (OMISSIS), del Foro di Benevento, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, depositando conclusioni scritte e nota spese;

uditi per i ricorrenti i rispettivi difensori di fiducia, avv. (OMISSIS) ed avv. (OMISSIS), entrambi del Foro di Benevento, che hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

FATTO E DIRITTO

1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza con cui il tribunale di Benevento, in data 27.5.2009, aveva condannato (OMISSIS) e (OMISSIS), nelle loro rispettive qualita’ di sindaco e di responsabile del procedimento del comune di (OMISSIS), alle pene ritenute di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato, in relazione ai delitti di cui agli articoli 110, 323 e 479 c.p., con riferimento alla nota n. 2169 del 12.5.2002, con la quale, contrariamente al vero, si certificava che l’area comunale territoriale P.I.P. fosse satura, dichiarava non doversi procedere in ordine ai suddetti reati perche’ estinti per prescrizione, confermando le statuizioni civili disposte con la sentenza di primo grado.

2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione entrambi gli imputati, a mezzo dei loro rispettivi difensori di fiducia, attraverso autonomi atti di impugnazione.

2.1. Lo (OMISSIS), in particolare, nel ricorso a firma dell’avv. (OMISSIS), del Foro di Benevento, lamenta: 1) violazione di legge e manifesta illogicita’ della motivazione, in quanto la corte territoriale ha affermato, sia pure ai soli effetti civili, la responsabilita’ dell’imputato per il delitto di cui all’articolo 323, c.p., senza fornire risposta ai rilievi formulati con l’atto di appello ed, in particolare, senza dimostrare l’esistenza degli elementi costitutivi del reato in questione, in realta’ insussistenti, poiche’, con riferimento all’elemento oggettivo, il giudice di secondo grado non ha indicato la norma di legge o di regolamento che sarebbe stata violata dallo (OMISSIS), mentre, in relazione all’elemento soggettivo (che si configura come dolo intenzionale), esso va escluso in quanto, nel caso in esame, l’operato dell’agente era diretto a perseguire, in via primaria, un interesse pubblico di preminente rilievo riconosciuto dalla legge, riguardando, la nota sottoscritta dallo (OMISSIS), una mera richiesta del comune di (OMISSIS) alle Regione Campania per l’ammissione al contributo previsto dal bilancio regionale per l’anno 2001, per l’esecuzione dei lavori di completamento delle opere di urbanizzazione ed infrastrutture a servizio del piano per gli insediamenti produttivi del comune (cd. P.I.P.), privo di qualsivoglia riferimento individualizzante ai danneggiati (Camerlengo); sicche’, ad avviso del ricorrente, affermare, come fatto dalla corte territoriale, che il fondamento della responsabilita’ dell’imputato va ricercato nella sua qualita’ di responsabile unico del procedimento, di funzionario autore di una lunga istruttoria, dotato delle competenze tecniche sufficienti a valutare l’illegittimita’ dell’azione amministrativa svolta e di controfirmatario dell’atto in questione, significa dare spazio ad un’inammissibile forma di responsabilita’ oggettiva, da posizione, sorretta, peraltro, da una motivazione manifestamente illogica, ove si tenga conto della premessa da cui parte la stessa corte territoriale, che individua l’ideatore e l’ispiratore della nota in questione esclusivamente nel (OMISSIS), legale rappresentante del comune di (OMISSIS) all’epoca dei fatti, alla cui piattaforma politica di riferimento lo (OMISSIS) era estraneo, senza tacere, da un lato, che la nota di cui si discute in ogni caso non puo’ essere considerata un provvedimento amministrativo geneticamente falso, trattandosi di un atto meramente esecutivo di precedenti atti deliberativi, alla cui adozione lo (OMISSIS) risulta estraneo, dall’altro, che l’ampliamento dell’area destinata ad insediamenti produttivi era necessario, trattandosi di un’area in via di saturazione; sulla base di tali osservazioni, pertanto, ad avviso del ricorrente, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto pronunziare sentenza assolutoria nel merito, essendo evidente che il fatto non sussiste ovvero che non costituisce reato.

2.2. Il (OMISSIS), nel ricorso a firma dell’avv. (OMISSIS), del Foro di Roma, lamenta: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del delitto di falso ideologico, di cui difetta l’immutatio veri, posto che nella nota di cui si discute, finalizzata ad ottenere un finanziamento dalla Regione Campania, i pubblici ufficiali sottoscrittori dell’atto non hanno mai affermato che il P.I.P. fosse saturo, ma, cosa ben diversa e rispondente al vero, che esso fosse in via di saturazione in ragione delle innumerevoli richieste di assegnazione di lotti per insediamenti industriali in numero di gran lunga superiore alle aree disponibili nel P.I.P., senza tacere che i reati in astratto ipotizzabili erano quelli di cui agli articoli 316 ter e 640 bis c.p., che assorbono integralmente il delitto di cui all’articolo 479 c.p.; 2) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al reato di abuso d’ufficio, in quanto, premesso che tale reato avrebbe dovuto essere contestato solo nella forma del tentativo, risultando documentalmente provato che l’ampliamento del P.I.P. e’ stato solo adottato e mai approvato in via definitiva, essendosi semplicemente istruito un procedimento amministrativo mai conclusosi perche’ sospeso in via cautelare dal T.A.R. Campania, e che, pertanto, nessuna dichiarazione di pubblica utilita’ ha riguardato i beni della famiglia (OMISSIS), rientranti nel suddetto ampliamento, mai sottratti alla disponibilita’ dei proprietari, ne difettato gli elementi costitutivi ed, in particolare:

a) la violazione di legge, in quanto, scaduta nel 1993 l’efficacia del precedente P.I.P. a differenza di quanto affermato dalla corte territoriale, e’ stato adottato dal consiglio comunale nel 1999 un nuovo strumento attuativo secondo l’iter previsto dalla legge, conformemente alla previsione di cui alla L. n. 865 del 191, articolo 27;

b) l’eccesso di potere, posto che dagli atti dell’amministrazione comunale acquisiti al processo emerge chiaramente l’esigenza del comune di (OMISSIS) di adeguare il vecchio P.I.P. alle mutate necessita’ tecnico – logistiche dei nuovi insediamenti industriali, condivisa da tutte le forze politiche presenti in consiglio comunale, che, all’unanimita’, hanno approvato la deliberazione n. 57 del 1999, di ampliamento del P.I.P., che appare, dunque, frutto di una scelta politica discrezionale non sindacabile sotto il profilo della rilevanza penale; c) l’insussistenza dell’ingiusto vantaggio per l’imputato ovvero di un ingiusto danno per il (OMISSIS) ed i suoi familiari, in quanto, ribadito che alcuna dichiarazione di pubblica utilita’ ha mai riguardato i progetti da realizzarsi nel P.I.P. ampliato e i beni della famiglia (OMISSIS), i cui terreni non hanno subito cambiamenti della destinazione urbanistica originaria (agricola) prevista per essi dal P.R.G., va rilevato, da un lato, che i terreni della famiglia (OMISSIS), che, secondo l’impostazione accusatoria, per effetto dell’ampliamento del P.I.P., sarebbero stati “liberati” dal vincolo espropriativo industriale, rendendoli agricoli, non solo erano da considerarsi gia’ “liberi”, per effetto della perdita di efficacia del vecchio P.I.P. del 1983, che li racchiudeva, decaduto, per decorso del relativo termine decennale, nel 1993, ma anche perche’, essendo il P.I.P. un mero strumento esecutivo del P.R.G., per poter essere “liberati, si sarebbe dovuto intervenire sul suddetto P.R.G., cambiando la destinazione urbanistica dei lotti da industriale ad agricola, circostanza non verificatasi perche’ le terre dei familiari del sindaco (OMISSIS) nel P.R.G. del comune di (OMISSIS) continuano a ricadere in zona D (industriale), anche nel progetto del nuovo P.R.G., mai approvato definitivamente, come l’ampliamento del PIP; dall’altro, l’evento di vantaggio ipotizzato dai giudici di merito non e’, autonomamente valutato, di per se’ ingiusto, in quanto non vietato dal diritto oggettivo disciplinante la materia, anche perche’ tutte le terre della famiglia (OMISSIS) avevano destinazione industriale, essendo include nel Piano Industriale ASI della Provincia di Benevento; d) il dolo intenzionale, posto che l’ampliamento del P.I.P. e’ stato conseguenza di una scelta discrezionale dell’amministrazione comunale, volta ad agevolare l’insediamento di aziende nell’area industriale, per cui l’evento ipotizzato di ingiusto danno altrui ovvero di ingiusto vantaggio, ove anche fosse sussistente sarebbe solo un effetto secondario della condotta, non costituente oggetto del dolo intenzionale, che, in concreto va escluso, perche’ vi e’ la prova che il (OMISSIS) ha agito per tutelare gli interessi dei (OMISSIS), adottando due delibere con cui venivano rimosse tutte le preassegnazioni effettuate sui lotti di (OMISSIS) ricadenti nell’ampliamento P.I.P. e si revocava l’assegnazione dei lotti C5-C6, di proprieta’ della famiglia (OMISSIS), alla ditta (OMISSIS), in quanto l’area era esclusa dal P.I.P. vigente ed inclusa in quello adottato; e) un atto amministrativo produttivo di effetti, non essendo tale la nota di cui si discute, che, non munita di alcun progetto cantierabile e non inserita nella delibera consiliare di approvazione delle opere pubbliche triennali, deve ritenersi inesistente sotto il profilo amministrativo, come dimostrato dal fatto che la Regione non l’ha presa minimamente in considerazione, e, quindi, inidoneo a produrre la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, senza tacere che, essendo stata costruita l’ipotesi accusatoria nel senso che con la nota in questione (considerata atto conclusivo di un iter percorso negli anni, volto a perseguire un ampliamento del P.I.P. in realta’ inutile, essendo finalizzato ad osteggiare gli avversari politici dell’amministrazione comunale) si chiedeva alla Regione Campania, sulla base di una dichiarazione ideologicamente falsa attestante che l’area destinata agli insediamenti produttivi era satura, l’erogazione di un contributo pubblico per l’esecuzione dei lavori di completamento delle opere di urbanizzazione ed infrastrutture a servizio del P.I.P., in realta’ non dovuto, la condotta del (OMISSIS) andava ricondotta alla previsione normativa dei piu’ gravi reati di cui agli articoli 316 ter o 640 bis c.p., mai contestati; 3) violazione di legge in ordine alla mancata dichiarazione di estinzione del reato di cui all’articolo 323 c.p., per prescrizione verificatasi prima della pronuncia della sentenza di primo grado, con conseguente illegittimita’ della pronuncia in tema di effetti civili, in quanto l’ingiusto vantaggio ovvero l’ingiusto danno, si sarebbe verificato, come ipotizzato nelle sentenze di merito, all’atto della deliberazione di consiglio comunale n. 57 del 1999, momento in cui, con l’adozione dell’ampliamento del P.I.P. le terre del sindaco (OMISSIS) sarebbero state liberate e quelle della famiglia (OMISSIS) vincolate, perche’ incluse nella nuova area industriale, laddove la nota di cui si discute non e’ finalizzata al conseguimento dell’evento ingiusto del reato di abuso di ufficio; 4) violazione di legge con riferimento alle statuizioni civili, in quanto l’adozione dell’ampliamento del P.I.P. nessun danno ha arrecato alla famiglia (OMISSIS), i cui terreni non hanno formato oggetto di alcuna dichiarazione di pubblica utilita’ e non sono mai stati sottratti alla disponibilita’ dei loro proprietari, senza tacere che, rispetto alla condotta in contestazione, limitata alla menzionata nota del 12.5.2002, l’unico soggetto legittimato a costituirsi parte civile, se i finanziamenti fossero stati erogati, sarebbe stata la regione Campania.

Con motivi nuovi a firma dell’avv. Alfonso Furgiuele, il (OMISSIS) insiste nelle censure gia’ articolate, contestando la sussistenza delle ipotesi di reato addebitate al (OMISSIS) e, comunque, la fragilita’ del quadro probatorio sussistente a suo carico, che avrebbe dovuto imporre in appello la prevalenza del proscioglimento nel merito sulla causa estintiva del reato per prescrizione.

3. I ricorsi vanno dichiarati entrambi inammissibili per le seguenti ragioni.

4. Da un lato, infatti, con essi i ricorrenti espongono censure che si risolvono in gran parte nella mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicita’ tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, in quanto tali, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. 5, 22.1.2013, n. 23005, rv. 255502; Cass., sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, rv. 235507; Cass., sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, rv. 235510; Cass., sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, rv. 235508).

Ed invero non puo’ non rilevarsi come il controllo del giudice di legittimita’, anche dopo la novella dell’articolo 606 c.p.p., ad opera della L. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralita’ di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralita’ di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimita’ la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, rv. 234148).

Sicche’ il sindacato della Cassazione resta quello di sola legittimita’, esulando dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente, come nel caso in esame, una diversa e piu’ adeguata valutazione delle risultanze processuali (cfr. Cass., sez. 2, 23.5.2007, n. 23419, rv. 236893). Da ultimo, infine, va rammentato che non e’ censurabile in sede di legittimita’ la sentenza che, come quella in esame, indichi con adeguatezza e logicita’ le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice, consentendo cosi’ l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.

Pertanto, anche il silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame non rileva qualora questa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata perche’ non e’ necessario che il giudice confuti esplicitamente la specifica tesi difensiva disattesa, ma e’ sufficiente che evidenzi nella sentenza una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 2, 12/02/2009, n. 8619).

Dall’altro, trattasi di motivi che, riproponendo acriticamente le stesse ragioni gia’ discusse e ritenute infondate dai giudici del gravame, devono considerarsi non specifici, ma, piuttosto, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso.

La mancanza di specificita’ del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericita’, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificita’, conducente, a norma dell’articolo 591 c.p.p., comma 1, lettera c), all’inammissibilita’ (cfr. Cass., sez. 4, 18.9.1997 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., sez. 5, 27.1.2005 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Cass., sez. 5, 12.12.1996, n. 3608, p.m. in proc. Tizzani e altri, rv. 207389).

5. Manifestamente infondate sono, poi, le censure difensive volte a contestare la configurabilita’ dei delitti di cui si discute.

Al riguardo appare sufficiente rammentare, innanzitutto, come il delitto di abuso d’ufficio e’ integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell’evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessita’ di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimita’ del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata illegittimita’ della condotta.

Pertanto, ai fini i fini del perfezionamento del reato di abuso d’ufficio non assume alcun rilievo, stante la sua natura di reato di evento, l’adozione di atti amministrativi illegittimi da parte del pubblico ufficiale agente, ma unicamente il concreto verificarsi, reale o anche soltanto potenziale, di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi atti a se’ stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 6, 24.5.2011, n. 36020, rv. 250776; Cass., sez. 6, 17.2.2015, n. 10133, rv. 262800).

Del tutto pacifico, infine, e’ l’ulteriore assunto, secondo cui la fattispecie di abuso d’ufficio puo’ essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (cfr. Cass., sez. 3, 12.10.2011, n. 43669, rv. 251332).

Con riferimento, poi, ai rapporti tra abuso di ufficio e falso ideologico in atto pubblico, deve escludersi la possibilita’ di un assorbimento del primo nel secondo, posto che, come affermato dall’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimita’, sussiste il concorso materiale e non l’assorbimento tra il reato di falso ideologico in atto pubblico e quello di abuso d’ufficio, in quanto offendono beni giuridici distinti; il primo, infatti, mira a garantire la genuinita’ degli atti pubblici, il secondo tutela l’imparzialita’ e il buon andamento della pubblica amministrazione. Pertanto, mentre tra gli stessi ben puo’ sussistere nesso teleologico, in quanto il falso puo’ essere consumato per commettere il delitto di cui all’articolo 323 c.p., la condotta dell’abuso d’ufficio certamente non si esaurisce in quella del delitto di falso in atto pubblico ne’ coincide con essa, potendosi configurare l’assorbimento solo nel caso in cui la condotta del delitto di abuso d’ufficio si esaurisca in quella di cui all’articolo 479 c.p., circostanza non configurabile nel caso, come quello in esame, in cui il falso e’ destinato ad occultare l’abuso (cfr. Cass., sez. 2, 11.12.2013, n. 5546, rv. 258205; Cass., sez. 5, 15.11.2005, n. 1491, rv. 233044; Cass., sez. 5, 5.5.1999, n. 7581, rv. 213777).

Ne’ va taciuto il consolidato orientamento della Suprema Corte, del pari condiviso dal Collegio, secondo cui ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, costituisce atto pubblico non solo quello destinato ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e P.A., ma anche gli atti cosiddetti interni cioe’ sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, che quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale – conforme o meno allo schema tipico – ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi. (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5, 6.11.2012, n. 4322, rv. 254388).

Orbene la corte territoriale, nel confermare la responsabilita’ degli imputati per entrambi i reati in contestazione, si e’ puntualmente attestata sul solco interpretativo fissato dai citati orientamenti, prevalenti nella giurisprudenza di legittimita’, dimostrando, con logico argomentare: 1) la illegittimita’ dell’unico atto amministrativo del comune di (OMISSIS) di cui si discute, costituente l’ultimo segmento di una pluralita’ di atti amministrativi attraverso i quali si e’ articolata la condotta illecita, rappresentato dalla “nota n. 2169 del 12.5.2002, con relazione programmatica ed elenco imprese allegati”, correttamente desunta dalla finalita’ perseguita dall’intera sequenza procedimentale in cui il suddetto atto risulta inserito, volta a realizzare “una variante in ampliamento di un P.I.P. decaduto e non piu’ efficace, in un settore caratterizzato da attivita’ vincolata”, senza procedere all’adozione di un autonomo piano del tutto nuovo; 2) la natura ideologicamente falsa dell’atto in questione, essendo stato adottato sul necessario presupposto di una serie di precedenti atti in cui si attestava falsamente (in cio’ ravvisandosi l’ubi consistam del delitto di cui all’articolo 479 c.p., che implica la rappresentazione di un presupposto inesistente) la saturazione delle aree gia’ destinate ad insediamenti produttivi in forza dell’originario P.I.P.”, mentre, come emerso dalle deposizioni dei consulenti tecnici escussi, le aree in questione non erano affatto sature, in quanto il suddetto “strumento urbanistico era sovradimensionato e non vi era alcuna necessita’ di realizzare sui terreni di proprieta’ della famiglia (OMISSIS) nuove infrastrutture, che potevano trovare agevole collocazione nell’ambito territoriale individuato fin dal 1983, mai adeguatamente sfruttato”; 3) l’idoneita’ dell’atto ad incidere sulla sfera giuridica dei terzi ed a conseguire il richiesto finanziamento (come gia’ accaduto in precedenza, sottolinea il giudice di appello, sulla base di analoga richiesta dell’11.2.2000, protocollata al n. 882), inserendosi, come si e’ gia’ detto, al termine di una sequenza procedimentale ben definita, potenzialmente idonea, sulla base di una falsa rappresentazione della realta’ circa la saturazione delle aree ricomprese nel menzionato strumento urbanistico, anche ad arrecare un danno (materiale e morale) alla famiglia (OMISSIS) (con indiretto contemporaneo vantaggio economico per la famiglia del (OMISSIS), che, in tal modo, sottraeva i propri lotti alla procedura espropriativa), i cui terreni si sono trovati esposti ad un esproprio non giustificato ed alle relative vicende, per effetto dell’intervenuta dichiarazione di pubblica utilita’, finalizzato alla realizzazione di opere al finanziamento delle quali era preordinata la nota piu’ volte citata, necessaria proprio per completare la sequenza procedimentale al cui perfezionamento hanno contribuito, autonomamente, ma avvinti dall’identita’ del disegno criminoso, i singoli atti amministrativi che l’hanno preceduta, ciascuno dei quali, pertanto, integra un’autonoma fattispecie di reato (il che evidenzia la manifesta infondatezza del rilievo difensivo sulla prescrizione) esclude ogni dei quali; 4) la riconducibilita’ dell’atto sia al (OMISSIS), in qualita’ di ideatore ed ispiratore di tutta la complessa operazione, che allo (OMISSIS), nella sua qualita’ di responsabile unico del procedimento, di funzionario autore della lunga istruttoria, dotato delle competenze tecniche sufficienti a valutare l’illegittimita’ dell’azione amministrativa, e di controfirmatario dell’atto in questione, dallo stesso (OMISSIS) redatto (cfr. pp. 15-20 della sentenza impugnata).

6. Alla dichiarazione di inammissibilita’ dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2000,00 a favore della cassa delle ammende, posto che l’evidente inammissibilita’ dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere i ricorrenti medesimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilita’ (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000), nonche’ alla rifusione, in favore della parte civile costituita delle spese del presente giudizio di legittimita’, che si fissano in complessivi Euro 3200,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento ciascuno delle spese del procedimento e della somma di Euro 2000,00 in favore della cassa delle ammende, nonche’ alla rifusione delle spese di parte civile, liquidate in complessivi Euro 3200,00, oltre accessori come per legge.

Motivazione semplificata.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *