Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 ottobre 2017, n. 46365. In ordine al reato di cui all’art. 727 c.p.

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Cio’ posto, deve ritenersi che la sentenza impugnata sia immune da censure avendo fatto buon governo dei sovraesposti principi interpretativi. Correttamente ha ritenuto rispondente alla fattispecie incriminatrice dell’articolo 727 c.p. la detenzione di un uccello all’interno di una gabbia dalle dimensioni particolarmente ridotte rispetto alla sua stazza, tale da non consentirgli neppure la piena apertura delle ali, ne’ una sia pur modesta possibilita’ di movimento anche in ragione della presenza di un treppiede e di trespoli al suo interno che ne restringevano ulteriormente il campo, e senza che le condizioni igieniche della vaschetta per l’acqua gli consentissero la pulizia delle piume, del tutto irrilevante risultando l’assenza di lesioni o l’integrita’ delle sue condizioni di salute. Invero il bene giuridico protetto non e’ costituito, a differenza del delitto previsto dall’articolo 544-ter c.p., dall’integrita’ fisica dell’animale, bensi’ dalla sua stessa condizione di essere vivente percio’ meritevole di tutela in relazione a tutte quelle attivita’ dell’uomo che possano comportare, anche soltanto per indifferenza o negligenza od incuria, l’inflizione di inutili sofferenze. Con motivazione lineare e logicamente coerente il Tribunale ha ritenuto che la natura di rapace notturno, quand’anche comporti, in assenza di linee guida sui gufi reali, l’abitudine per il volatile di restare per lo piu’ appollaiato in attesa della preda, non esclude una condizione di sofferenza trattandosi pur sempre di un volatile, comunque avvezzo a sia pur brevi voli nella quotidianita’ e comunque ad una condizione di fisiologica mobilita’, di talche’ le condizioni di detenzione in cui veniva tenuto erano del tutto incompatibili con la sua natura.
3. Manifestamente infondato risulta il terzo motivo. Il Tribunale ha puntualmente preso in esame le eccezioni svolte dalla difesa in ordine alla mancanza di un titolo di proprieta’ e di custodia dell’uccello in capo all’imputato, ritenendone correttamente l’irrilevanza. Invero il reato di cui all’articolo 727 c.p. puo’ essere commesso non soltanto da chi abbia la proprieta’ dell’animale o abbia un incarico formale di custodia, ma implicando soltanto un rapporto di detenzione in senso civilistico ben puo’ essere commesso da chiunque detenga l’animale anche solo occasionalmente (Sez. 3, n. 6415 del 18/01/2006 – dep. 21/02/2006, Bollecchino, Rv. 233307).
4. La stessa sorte ha anche il quarto motivo. Sulla scorta del costante orientamento di questa Corte deve ribadirsi che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’articolo 62 bis cod. pen. e’ oggetto di un giudizio di fatto, e puo’ essere esclusa dal giudice di merito con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, e quindi anche sui soli elementi ritenuti ostativi alla concessione del beneficio la cui configurabilita’ preclude la disamina degli altri parametri dell’articolo 133 c.p. di talche’ la stessa motivazione, purche’ congrua e non contraddittoria, non puo’ essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (cfr. ex plurimis Cass., Sez. 2 n. 3609 del 18/01/2011 Rv. 249163, Cass., Sez. 6 n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv. 242419, Cass. Sez. 6 n. 7707 del 04/12/2003, Anaclerio, Rv. 229768). Avendo la sentenza impugnata sottolineato con riferimento alla personalita’ dell’imputato l’esistenza di numerosi precedenti penali, senza che risultino essere stati indicati dalla difesa pretesi fattori attenuanti, la censura svolta deve essere dichiarata inammissibile. Lo stesso dicasi in relazione al diniego della sospensione condizionale della pena, anch’esso oggetto di sindacato discrezionale del giudice di merito e del pari motivato in ragione dei precedenti penali dell’imputato, senza che alcuna specifica doglianza sia stata sollevata al riguardo.
5. Manifestamente infondato e’ anche il quinto motivo. Condizione indefettibile per l’ammissibilita’ del ricorso per Cassazione e’ infatti, come reiteratamente affermato da questa Corte nell’interpretazione dell’articolo 568 c.p.p., comma 4, che l’impugnazione sia sorretta da un interesse “concreto” ed “attuale”, volto cioe’ ad ottenere una decisione non solo teoricamente corretta ma anche praticamente favorevole per l’imputato. Dunque, l’interesse richiesto quale condizione di ammissibilita’ di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste soltanto se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione immediata piu’ vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente. Il fatto che l’articolo 240 c.p., comma 3 escluda la confisca sulle cose o sui beni appartenenti a persona estranea al reato non attribuisce alcun diritto all’imputato di ottenere la restituzione di beni eventualmente confiscati fuori dalle condizioni di legge: nessun interesse puo’ pertanto ravvisarsi in capo a costui, spettando esclusivamente al proprietario la facolta’ di richiederne la restituzione nelle forme consentite dall’ordinamento processuale, costituito dall’incidente di esecuzione.
Il ricorso deve essere in conclusione rigettato, seguendo a tale esito, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone la rettificazione del dispositivo della sentenza impugnata relativamente alla pena pecuniaria che indica in Euro 1.200 di ammenda in luogo di Euro 1.200 di multa.

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