Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 ottobre 2017, n. 46365. In ordine al reato di cui all’art. 727 c.p.

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Al riguardo va chiarito che la regola generale per la quale, in caso di discrasia tra il dispositivo della sentenza e la sua motivazione e’ il primo a prevalere, trattandosi della parte del documento che esplicita le ragioni della decisione del giudice, non costituisce un principio inderogabile, alla luce delle plurime e differenti cause alla base del contrasto. Muovendo dalla funzione propria della motivazione volta ad esplicitare le ragioni per cui il giudice e’ pervenuto alla decisione e’ stato affermato da questa stessa Corte che nell’ipotesi in cui la discrasia tra dispositivo e motivazione della sentenza dipenda da un errore nella materiale indicazione della pena nel dispositivo e dall’esame della motivazione emerga in modo chiaro ed evidente la volonta’ del giudice, potendosi ricostruire il procedimento seguito per determinare la sanzione, la motivazione prevale sul dispositivo, con la conseguente possibilita’ di rettifica dell’errore in sede di legittimita’, secondo la procedura prevista dall’articolo 619 cod. proc. pen., non essendo necessarie, in tal caso, valutazioni di merito. Deve ovviamente trattarsi di mere sviste materiali nella redazione del dispositivo, ovverosia di errori percepibili ictu oculi e derivanti da una palese divergenza tra l’intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, non potendo invece tale procedimento trovare applicazione nel caso in cui la difformita’ presenti profili di merito non valutabili in sede di legittimita’ (cfr. Sez. 4 n. 43419 del 29/09/2015, Rv. 264909; Sez. 4, n. 26172 del 19/05/2016 – dep. 23/06/2016, Ferlito e altro, Rv. 26715301).
Il motivo in esame e’ pertanto manifestamente infondato, non discendendo dalla evidente discrasia rilevabile tra le parti della sentenza impugnata (dispositivo e motivazione) la conseguenza prospettata dal ricorrente. Vertendosi infatti in errore di denominazione della specie della pena, trova applicazione l’articolo 619 c.p.p., comma 2, che consente direttamente alla Corte di Cassazione di provvedere alla rettifica senza pronunciare annullamento: la natura contravvenzionale del reato impone la rettifica del dispositivo disponendosi che la pena pecuniaria indicata come “multa” in dispositivo venga ivi sostituita con il termine “ammenda”, come correttamente indicato nella motivazione.
2. Il secondo motivo e’ infondato.
La fattispecie contravvenzionale di cui all’articolo 727 c.p., con riferimento all’ipotesi prevista dal comma 2 che punisce la condotta di chi “detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”, e’ stata variamente interpretata da questa Corte essendosi ritenuto che la fattispecie incriminatrice sia integrata “dalla detenzione degli animali con modalita’ tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie piu’ note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali” (Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014 – dep. 17/02/2015, Garnero, Rv. 262529; Sez. 3, n. 37859 del 04/06/2014 – dep. 16/09/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184), ovvero nel senso che le condizioni in cui vengono custoditi gli animali, incompatibili con la loro natura, non risultino “dettate da particolari esigenze e risultino tali da provocare negli stessi uno stato di grave sofferenza, indipendentemente dal fatto che in conseguenza di tali condizioni di custodia l’animale possa subire vere e proprie lesioni dell’integrita’ fisica” (Sez. 3, n. 2774 del 21/12/2005, dep. 24/01/2006, Noferi, in motivazione), o ancora allorquando venga posta in essere una condotta tale da “incidere sensibilmente sull’integrita’ psico-fisica dell’animale” (Sez. 3, n. 21932 del 11/02/2016 – dep. 25/05/2016, Bastianini, Rv. 26734501) o “sulla sua sensibilita’ producendogli un dolore” (Sez. 3, n. 44287 del 07/11/2007 – dep. 28/11/2007, Belloni Pasquinelli, Rv. 238280).
Muovendo dalla littera legis, occorre rilevare che la detenzione penalmente rilevante ricorre in presenza della duplice condizione di incompatibilita’ dello stato di detenzione degli animali con la loro natura e dell’idoneita’ della medesima a provocare ad essi gravi sofferenze, di talche’ entrambe si configurano come elementi costitutivi del reato. Pertanto il parametro normativo della natura degli animali in base al quale la condotta di detenzione si pone come contraria e percio’ assume valenza illecita, mentre richiede, cosi’ come precisato dalla citata giurisprudenza, per le specie piu’ note, che ci si riferisca al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per quelle meno comuni, alle acquisizioni delle scienze naturali (cfr. in motivazione la sentenza n.37859/2014, cit.), per gli animali invece tenuti dall’uomo in condizioni di cattivita’, e dunque di per se’, se non incompatibili, comunque non conformi con la loro natura, come avviene per quelli tenuti in gabbie, stalle o recinti al fine di evitarne la fuga, l’elemento della grave sofferenza assume valore dirimente al fine della configurabilita’ del reato. Si ritiene, pur nella ontologica differenza con il delitto di cui all’articolo 544-ter c.p. di natura necessariamente dolosa in quanto volto a punire la condotta volontaria di chi provoca maltrattamenti agli animali, che il riferimento alle caratteristiche etologiche degli animali in detenzione configuri anche in questo caso il parametro su cui misurare la sofferenza integratrice la fattispecie delittuosa di cui all’articolo 727 c.p., da valutarsi caso per caso in relazione alle caratteristiche comportamentali e ai rapporti del singolo esemplare con l’ambiente in cui naturalmente vive la sua specie. Il che non comporta alcuna sovrapposizione della norma in esame con l’articolo 544-ter c.p. posto che questa Corte ha reiteratamente precisato che il reato di illecita detenzione si perfeziona indipendentemente dal fatto che l’animale possa subire veri e propri danni alla sua integrita’ fisica, ben potendo l’illegittima detenzione derivare anche da una condotta meramente colposa, improntata cioe’ a disattenzione, superficialita’ ovvero incuria (Sez. 3, n. 2774 del 21.12.2005, Noferi, Rv. 233304 in motivaz.; Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007 – dep. 07/01/2008, Mollaian, Rv. 238602; Sez. 3, n. 21744 del 26/04/2005 – dep. 09/06/2005, P.M. in proc. Duranti ed altri, Rv. 23165201 Sez. 6, n. 17677 del 22/03/2016 – dep. 28/04/2016, Borghesi, Rv. 267313). Conseguentemente le gravi sofferenze di cui all’articolo 727 c.p., comma 2 sono quelle che superano la soglia di tollerabilita’ rapportata alle caratteristiche etologiche e all’habitat naturale dell’animale, senza che cio’ implichi la necessaria sussistenza di una sottostante normativa anche soltanto regolamentare volta a disciplinare, per la cura del benessere dell’animale, la detenzione, posto che il precetto penale contenuto nell’articolo 727 c.p., comma 2, non e’ di certo integrato, come gia’ chiarito da questa Corte, da tali fonti normative. (cfr. la sentenza n. 37859 del 4.6.2014, citata).

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