Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 13 dicembre 2017, n. 55511. Qualora il giudice, nel disporre la sospensione del procedimento penale con messa alla prova, si limiti a recepire il programma di trattamento, l’onere motivazionale su di lui incombente può intendersi soddisfatto anche attraverso un semplice richiamo alla congruità del programma

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3.1. – L’articolo 464 bis c.p.p., comma 4, prevede che, alla richiesta formulata dall’imputato di sospensione del procedimento come messa alla prova, e’ allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma, il quale prevede: le modalita’ di coinvolgimento dell’imputato, nonche’ del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove cio’ risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonche’ le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilita’ ovvero all’attivita’ di volontariato di rilievo sociale.
Il successivo articolo 464 quater c.p.p., comma 3, stabilisce che la sospensione del procedimento con messa alla prova e’ disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’articolo 133 il codice penale, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterra’ dal commettere ulteriori reati.
Il quadro e’ completato dall’articolo 168 bis c.p., comma 3, il quale prevede che: “La concessione della messa alla prova e’ inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilita’.
Il lavoro di pubblica utilita’ consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalita’ ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettivita’, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione e’ svolta con modalita’ che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non puo’ superare le otto ore”.
Dal complesso di tali disposizioni emerge che la previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilita’ costituisce il nucleo sanzionatorio del sistema della sospensione con messa alla prova: si tratta, cioe’, di una sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo dotata di una necessaria componente afflittiva. E la connotazione sanzionatoria del lavoro di pubblica utilita’ induce a rilevare, come una lacuna significativa, la mancata previsione dei criteri cui il giudice deve attenersi nel vaglio di congruita’ della sua durata complessiva e della sua intensita’. Dalle norme sopra richiamate si evincono: una durata minima di dieci giorni e una massima che, in mancanza di diverse indicazioni, non puo’ che coincidere con i termini massimi di sospensione del procedimento (uno o due anni, a seconda della natura della pena edittale); un’intensita’ massima di otto ore giornaliere, senza indicazione del minimo. Non essendo previsto che la prestazione del lavoro gratuito debba necessariamente coprire l’intero periodo della sospensione – perche’ non avrebbe senso, altrimenti, la previsione di un limite minimo di dieci giorni – occorre individuare indici di commisurazione sufficientemente certi. Non possono evidentemente trovare applicazione i criteri dettati nei casi in cui il lavoro gratuito e’ previsto come pena sostitutiva di quella detentiva: sia perche’ la messa alla prova e la prestazione lavorativa che vi e’ inclusa si applicano anche a reati sanzionati con pena esclusivamente pecuniaria; sia perche’ qui manca, per definizione, una condanna che possa fungere da limite e parametro di ragguaglio (v., in tema del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5: Sez. 1, n. 30089 del 26 giugno 2009, Rv. 244812; Sez. 3, n. 40995 del 23 maggio 2013, Rv. 256958; in tema di violazioni del codice della strada: Sez. 1, n. 12019 del 1 febbraio 2013, Rv. 255341).
Il criterio piu’ sicuro e dotato di piu’ solidi appigli testuali e’, dunque, quello dell’applicazione in via analogica degli indici dettati dall’articolo 133 c.p. per la commisurazione della pena, con una prospettiva che tenga conto a un tempo: della valutazione virtuale della gravita’ concreta del reato e del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonche’ delle sue necessita’ di risocializzazione. E, del resto, la necessita’ di riferirsi, in generale, ai parametri di valutazione di cui all’articolo 133 c.p. e’ richiamata anche dalla Corte costituzionale (ord. n. 54 del 2017) quale condizione per la compatibilita’ del sistema della messa alla prova e, nel suo ambito, del lavoro di pubblica utilita’ con gli articoli 3, 24 e 27 Cost..

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