Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 febbraio 2018, n. 4571. Il fermo amministrativo di beni mobili registrati ha natura non già di atto di espropriazione forzata, ma di procedura a questa alternativa

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La ora descritta motivazione non risulta minimamente scalfita dalla censura di parte ricorrente, la quale si limita a riprodurre le argomentazioni gia’ illustrate con l’atto di appello, nuovamente insistendo nella deduzione dell’annullamento del verbale del C.d.S. posto a base della procedura di riscossione, senza nemmeno adombrare, per contrastare l’iter logico giuridico della sentenza gravata, una diversita’ di thema decidendum tra i giudizi promossi avverso la cartella e avverso il fermo.

Disatteso il motivo, e’ tuttavia doveroso, nell’assolvimento della funzione nomofilattica devoluta a questa Corte, procedere di ufficio, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c., alla correzione (non incidente sull’esito della decisione) della qualificazione fornita dalla sentenza impugnata all’azione rivolta avverso il fermo in termini di opposizione esecutiva.

Si intende qui ribadire e dare continuita’ all’orientamento espresso, in sede di risoluzione di contrasto, dalle Sezioni Unite con la ordinanza 22/07/2015, n. 15354, secondo cui il fermo amministrativo di beni mobili registrati ha natura non gia’ di atto di espropriazione forzata, ma di procedura a questa alternativa, trattandosi di misura puramente afflittiva volta ad indurre il debitore all’adempimento, sicche’ la sua impugnativa, sostanziandosi in un’azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione in tema di riparto della competenza per materia e per valore (nello stesso senso, di seguito alla citata pronuncia, Cass. 27/11/2015, n. 24234; Cass. 18/11/2016, n. 23564; Cass. 17/01/2017, n. 959).

2. Con il secondo motivo, ancora per violazione e falsa applicazione dell’articolo 615 c.p.c. e articoli 203-204 C.d.S., il ricorrente contesta la dichiarata carenza di legittimazione passiva del Comune di Taormina, asserendo la corretta evocazione in lite dello stesso, quale ente impositore, titolare della pretesa creditoria oggetto di contestazione.

Il motivo e’ inammissibile per difetto di interesse, in quanto la affermazione della legittimazione passiva dell’ente comunale erroneamente negata nell’assunto del ricorrente non avrebbe in alcun modo inciso in senso modificativo sull’esito del giudizio, egualmente da definirsi, sulla base delle argomentazioni sopra richiamate, con il rigetto della domanda attorea e la conseguente condanna alle spese processuali anche in favore del Comune di Taormina.

3. Non vi e’ luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimita’, considerata la mancata esplicazione di attivita’ difensiva delle parti intimate.

Avuto riguardo all’epoca di proposizione del ricorso per cassazione (posteriore al 30 gennaio 2013), la Corte da’ atto dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17): il rigetto del ricorso costituisce il presupposto per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

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