Il creditore che costringa, con minaccia, il proprio debitore a vendere l’immobile in cui abita per soddisfarsi sul ricavato della vendita del credito che vanta, commette il reato di estorsione e non di esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 27 marzo 2018, n. 14160.

Il creditore che costringa, con minaccia, il proprio debitore a vendere l’immobile in cui abita per soddisfarsi sul ricavato della vendita del credito che vanta, commette il reato di estorsione e non di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in quanto non avrebbe potuto ricorre al giudice al fine di ottenere direttamente la vendita coattiva del bene del debitore insolvente.

Sentenza 27 marzo 2018, n. 14160
Data udienza 6 marzo 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GALLO Domenico – Presidente

Dott. TADDEI Margherita – Consigliere

Dott. RAGO Geppino – rel. Consigliere

Dott. PARDO Ignazio – Consigliere

Dott. COSCIONI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato il (OMISSIS), contro l’ordinanza del 26/10/2017 del Tribunale del riesame di Caltanissetta;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. G. Rago;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. MIGNOLO Olga, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

udito il difensore, avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. (OMISSIS) – a mezzo del proprio difensore – ha proposto ricorso per cassazione contro l’ordinanza in epigrafe con la quale il Tribunale del riesame di Caltanissetta aveva confermato l’ordinanza con la quale, in data 22/09/2017, il giudice delle indagini preliminari del medesimo Tribunale, gli aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere per i delitti di cui agli articoli 416 bis e 629 cod. pen. aggravato dalla L. n. 203 del 1991, articolo 7.

La difesa del ricorrente ha dedotto:

1.1. la violazione dell’articolo 416 bis cod. pen. in quanto il Tribunale non aveva evidenziato quale fosse il “contributo” che il ricorrente aveva fornito all’associazione criminale, essendo irrilevanti le semplici frequentazioni per parentela, affetti, comune estrazione ambientale o sociale per amicizia;

1.2. la violazione dell’articolo 629 cod. pen. in quanto, nella condotta addebitatagli era ravvisabile un semplice esercizio arbitrario delle proprie ragioni essendo il ricorrente pacificamente creditore della persona offesa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 416 BIS COD. PEN..

La censura e’ manifestamente infondata.

Dall’ordinanza impugnata, risulta che l’imprenditore (OMISSIS), insieme a tale (OMISSIS), operante nel bresciano nel settore immobiliare, e’ stato incolpato di far parte dell’associazione mafiosa facente capo alla famiglia dei (OMISSIS) la cui reggenza era stata affidata a (OMISSIS), per avere offerto “ogni utile supporto per favorire l’infiltrazione nel tessuto economico legale di attivita’ mafiosa in grado di alterare le regole della concorrenza di mercato, assicurando al “reggente” gli spostamenti logistici sul territorio in condizioni di “sicurezza”, nonche’ attivandosi per il compimento delle molteplici attivita’ illecite di pertinenza dell’organizzazione mafiosa, come la riscossione di crediti con modalita’ estorsive”.

Tale affermazione e’ stata provata (cfr § 3 dell’ordinanza impugnata) attraverso:

a) i contatti tra (OMISSIS) ed il ricorrente;

b) il finanziamento del sodalizio mafioso da parte, del ricorrente;

c) l’interessamento di (OMISSIS) alla riscossione del credito vantato dal ricorrente e di cui al capo d’incolpazione per l’estorsione;

d) la consapevolezza del ricorrente di far parte del sodalizio mafioso diretto da (OMISSIS): il tribunale, infatti, spiega che socio del (OMISSIS) era tale (OMISSIS) (gia’ condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) del quale, essendo stretto collaboratore e socio di fatto, era “al corrente di tutto cio’ che riguardava la gestione dell’impresa e il rapporto con il boss”.

Ognuno dei suddetti “capitoli” e’ suffragato da precisi indizi indicati, di volta in volta, dal tribunale e consistenti, sostanzialmente, nel contenuto di intercettazioni e di servizi di osservazione.

Alla stregua dei suddetti indizi – puntualmente indicati e valutati – il tribunale ha quindi concluso che il (OMISSIS) doveva ritenersi stabilmente compenetrato nel sodalizio “non essendo emerso un unico o comunque sporadici interventi in favore del solo boss, ma una vera e propria messa a disposizione (si pensi alla sistematica spartizione degli utili e alla partecipazione a riunioni anche con mafiosi di altri mandamenti) per ricevere in cambio quell’intermediazione necessaria a sfruttare il metodo mafioso nell’esercizio dell’attivita’ imprenditoriale, che di fatto sia il (OMISSIS) che il (OMISSIS) gestivano sotto la direzione del (OMISSIS), in un’ottica di reciproco supporto funzionale all’infiltrazione di Cosa Nostra nel tessuto economico”.

Su tutto il coacervo di indizi evidenziati dal tribunale, la difesa del ricorrente, in pratica, nulla ha obiettato, essendosi solo limitata ad invocare notorie massime giurisprudenziali in ordine agli elementi ritenuti necessari per ritenere provata la partecipazione di un soggetto ad un’associazione per delinquere, ma senza spiegare per quali ragioni, nella concreta situazione fattuale evidenziata dal tribunale, quella giurisprudenza dovesse applicarsi anche al ricorrente, benche’ raggiunto da una molteplicita’ di univoci indizi che lo indicavano come partecipe, in modo stabile, dell’associazione criminale e con quel ben determinato ruolo descritto nel capo d’incolpazione.

La censura, quindi, essendo del tutto generica ed aspecifica, va ritenuta manifestamente infondata.

2. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 629 COD. PEN..

La censura e’ infondata.

In punto di fatto, la complessa vicenda per la quale il ricorrente e’ stato incolpato del delitto di estorsione aggravata in danno di tale (OMISSIS), puo’ essere sintetizzata nei seguenti termini: il ricorrente era pacificamente creditore di una somma di denaro nei confronti del suddetto (OMISSIS), somma che, pero’, costui, trovandosi in difficolta’ economiche, non aveva la possibilita’ di restituire. Fu allora che il ricorrente, insieme al (OMISSIS), costrinsero – con minacce – il (OMISSIS) a vendere l’immobile nel quale abitava (di sua proprieta’ benche’ fittiziamente intestato ad un terzo) per soddisfarsi del credito vantato sul prezzo ricavato alla vendita.

Il tribunale ha ritenuto che, nella fattispecie, fosse configurabile il delitto di estorsione perche’, nella vicenda, era intervenuto – “per fini propri, trascendendo l’interesse del soggetto realmente interessato” – il (OMISSIS), ossia un terzo privo di legittimazione.

La difesa del ricorrente, ha ribattuto che, essendo pacifico che il (OMISSIS) era creditore del (OMISSIS), la condotta contestata avrebbe dovuto essere sussunta nel paradigma di cui all’articolo 393 cod. pen. in quanto tendente solo al soddisfacimento di un credito sebbene con modalita’ violente e/o minacciose.

Alla stregua della pacifica ricostruzione in punto di fatto effettuata dal tribunale e non contestata neppure dalla difesa del ricorrente, deve ritenersi corretta – sebbene con diversa motivazione – la qualificazione giuridica data dal tribunale.

Infatti, il punto dirimente per valutare se il suddetto fatto possa o no essere qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni consiste nel verificare se il (OMISSIS) avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato della condotta violenta (vendita dell’immobile al fine di soddisfarsi sul ricavato) facendo ricorso al giudice civile.

La risposta, ovviamente ed intuitivamente, non puo’ che essere negativa: il (OMISSIS), infatti, sicuramente avrebbe potuto rivolgersi al giudice civile per farsi riconoscere il credito vantato e, quindi, ottenere un titolo esecutivo da far valere nei confronti del (OMISSIS). Ma, e’ altrettanto sicuro che non avrebbe mai potuto adire il giudice civile al fine di ottenere direttamente la vendita coattiva del bene del debitore insolvente al fine di soddisfarsi sul ricavato della vendita.

La censura va quindi disattesa alla stregua del seguente principio di diritto: “il creditore che costringa, con minaccia, il proprio debitore a vendere l’immobile in cui abita per soddisfarsi sul ricavato della vendita del credito che vanta, commette il reato di estorsione e non di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in quanto non avrebbe potuto ricorre al giudice al fine di ottenere direttamente la vendita coattiva del bene del debitore insolvente”.

3. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

RIGETTA

il ricorso e

CONDANNA

il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

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