Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 16 febbraio 2018, n. 7639. Gli atti persecutori realizzati in danno del lavoratore dipendente e finalizzati alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para -familiare

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[…]

4. Nella fattispecie, in sede di annullamento, la Suprema Corte aveva ordinato alla Corte territoriale di verificare innanzitutto l’esistenza di una situazione di para – familiarita’ e di uno stato di soggezione e subalternita’ della (OMISSIS) rispetto al (OMISSIS), avendo riguardo “…non al numero dei dipendenti dell’azienda, alla durata del rapporto di lavoro, alla reiterazione delle condotte discriminatorie nei confronti di una pluralita’ di soggetti ed alla reazione della vittima, bensi’, da un lato, alle dinamiche relazionali in seno all’azienda e, nello specifico, a quelle intercorrenti fra la lavoratrice ed i datori di lavoro imputati; dall’altro lato, all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternita’ della vittima, confrontandosi con le condotte, oggetto di specifica contestazione, attuate dai (OMISSIS) in danno della (OMISSIS), quali… l’assegnazione a mansioni diverse e meno qualificanti da quelle svolte prima della maternita’ o addirittura a nessuna mansione…, nel ghettizzarla ed a lasciarla fuori da occasioni conviviali comuni ai lavoratori…, nell’adottare nei confronti della medesima provvedimenti disciplinari sino al licenziamento per giusta causa, poi riconosciuta dal giudice del lavoro come inesistente, e, quindi, nel rifiutare di dare attuazione al disposto reintegro nel posto di lavoro nonche’, data forzata attuazione a tale provvedimento, nell’attuare comportamenti ostili, persecutori, denigratori e lesivi della dignita’ personale della dipendente…”, verificando “… se le condotte attuate… in danno della persona offesa siano connotate dai caratteri dell’abitualita’, della sistematicita’ e dell’intenzionalita’ persecutoria…”.

5. Fermo quanto precede, il giudice del rinvio ha ritenuto la sussistenza dei presupposti per ravvisare un’ipotesi di c.d. “mobbing” lavorativo sussumibile nella fattispecie di cui all’articolo 572 c.p., assumendo che:

– la (OMISSIS) aveva quale unico ed indiscusso “padrone” (OMISSIS), che concentrava su di se’ tutte le prerogative dirigenziali, riservandosi relazioni con clienti e fornitori, prendendo in assoluta autonomia tutte le decisioni concernenti i lavoratori, non potendo le sue determinazioni essere messe in discussione da nessuno;

– la relazione tra il datore di lavoro ed i dipendenti era stretta e continuativa, sostanziandosi in una presenza quotidiana in azienda e nell’imposizione diretta degli ordini: lo stesso datore di lavoro aveva spesso sottolineato la dimensione “artigianale” dell’impresa, definendo la (OMISSIS) come “casa propria” e l’azienda come una “famiglia”, rivendicando il proprio diritto a decidere tutto, ivi compreso di “tenere la (OMISSIS) a fare niente” (v. esame Dutto ud. 23/12/2011);

– la coimputata (OMISSIS) aveva confermato il ruolo egemone del padre, ed in particolare lo stretto rapporto tra quest’ultimo ed i dipendenti, cosa che lo portava a farsi carico anche di problematiche di natura personale di questi ultimi (v. trasc. ud. 29/06/2012);

– gli stessi dipendenti della (OMISSIS) non avevano avuto remore a descrivere la situazione aziendale come del tutto analoga a quella di una famiglia patriarcale di stampo tradizionale, in cui il padre (nella specie, il titolare) assumeva in piena autonomia tutte le decisioni che riguardavano i familiari (in questo caso, i dipendenti), le imponeva senza intermediari e senza confrontarsi con alcuno e si faceva carico di tutte le questioni che riguardavano i sottoposti, dai quali, pero’, non tollerava essere messo in discussione (v. dich. Bisceglia Antonietta, ud. 14/03/2011; dich. Tonni Patrizia, ud. 06/11/2012), essendo le idee dei lavoratori del tutto irrilevanti e comunque di scarsissimo peso.

Sempre il giudice del rinvio, aveva tratto la prova della ricorrenza di una situazione para – familiare dal fatto che (OMISSIS) era a conoscenza di alcuni aspetti della vita privata della (OMISSIS) e quest’ultima, nonostante i suoi frustrati tentativi di far valere i propri diritti, non solo non era stata riassegnata alle originarie mansioni ma addirittura era stata demansionata.

6. Fondato e’ il primo motivo comune di ricorso.

A parere del Collegio, la sentenza impugnata e’ nuovamente incorsa nel vizio motivazionale.

6.1. Invero, la circostanza del comprovato diretto coinvolgimento del datore di lavoro nell’azienda di piccole dimensioni (quale e’ la (OMISSIS)) attraverso le condotte sopra descritte (assunzione di tutte le prerogative aziendali, adozione in autonomia assoluta di tutte le decisioni concernenti i lavoratori, presenza quotidiana in azienda, imposizione diretta degli ordini ai dipendenti), non configura, per cio’ solo, una comunita’ para – familiare, idonea ad attrarre alla sfera dell’illiceita’ penale le eventuali condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro.

6.2. Inoltre, l’assidua comunanza di vita – nella fattispecie, rimasta comunque indimostrata – deve tradursi, ai fini della configurabilita’ del reato di cui all’articolo 572 c.p., non in una generica presenza nel luogo di lavoro, bensi’ in una stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente caratterizzata dalla condivisione di tutti i momenti tipici del contesto familiare (ad esempio, il consumo comune dei pasti, il pernottamento nei medesimi luoghi, la costante ed assidua vicinanza fisica, il mutuo soccorso, la solidarieta’ morale, la confidenzialita’): in particolare, proprio con riferimento alla mera conoscenza di particolari della vita privata, va evidenziato come trattasi di elemento di carattere non decisivo ai fini della prova della para – familiarita’ in ambito lavorativo, ben potendo derivare detta conoscenza da ragioni strettamente legate al rapporto di lavoro in presenza di dati, lato sensu sensibili, che il lavoratore e’ tenuto a riferire al datore di lavoro (per permessi, malattia, reperibilita’, variazioni d’orario) ovvero perche’ la confidenza potrebbe essere oggetto di un narrato estemporaneo rivelato in modo del tutto scollegato da ogni altro contesto.

6.3. Parimenti, anche con riferimento alla condizione di soggezione/subalternita’ della lavoratrice, v’e’ assenza di motivazione ovvero motivazione del tutto tautologica, nella parte in cui si sono ritenuti sufficienti, nella prospettiva probatoria, i tentativi della (OMISSIS) di far valere i propri diritti.

In realta’, lo stato di subordinazione/soggezione richiederebbe la prova (che, nella fattispecie, sembra non emergere) che il lavoratore “perseguitato” si trovi in una condizione di sostanziale “giogo” rispetto al datore di lavoro, ossia in uno stato nel quale lo stesso sia costretto ad accettare il sopruso, le mortificazioni ed un sostanziale isolamento, avendo cura di evitare qualsivoglia forma di ribellione per scongiurare il pericolo di incorrere in possibili sanzioni, finendo con il subire la propria autosvalutazione come “male” minore o, comunque, come conseguenza inevitabile del proprio stato.

7. Fondato e’ anche il secondo motivo di gravame.

Evidenziano i ricorrenti come nell’originario atto di appello avessero contestato l’impostazione accusatoria ponendo in evidenza le molte criticita’ della testimonianza della parte civile.

7.1. La Corte territoriale, con la sentenza del 07/02/2014, nell’assolvere gli imputati dal reato di cui all’articolo 572 c.p., per carenza delle condizioni e dei presupposti della para – familiarita’, non entro’ nel merito degli accadimenti e delle singole condotte vessatorie e neppure opero’ il richiesto giudizio di attendibilita’ della testimonianza della parte civile.

7.2. Successivamente, in sede di rinvio, la Corte territoriale, nel ritenere sussistenti i presupposti del reato in contestazione, ha omesso di rispondere alle doglianze sollevate con l’originario atto di appello: censure che la difesa ha ritenuto dotate del requisito della decisivita’ e, oltretutto, rafforzate dal materiale acquisito nell’ambito della perizia espletata in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

Invero, integra il vizio di mancanza della motivazione, l’omessa valutazione nella sentenza impugnata delle allegazioni difensive in astratto idonee ad incidere sulla valutazione di attendibilita’ della testimonianza della persona offesa (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 10758 del 29/01/2015, Giugliano, Rv. 263129). Ne’ puo’ ritenersi precluso al giudice di legittimita’ l’esame dei motivi di appello al fine di accertare la congruita’ e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Suprema Corte la disamina della specificita’ o meno delle censure formulate con l’atto di appello quale necessario presupposto dell’ammissibilita’ del ricorso proposto davanti alla stessa Corte (Sez. 2, n. 4830 del 21/12/1994, dep. 1995, Loisi, Rv. 201268).

8. Dal complesso delle risultanze probatorie evidenziate in sede di merito, sia analiticamente che globalmente valutate, la Corte territoriale non risulta aver dimostrato la ricorrenza dei caratteri dell’abitualita’, della sistematicita’ e dell’intenzionalita’ persecutoria in danno di (OMISSIS) necessari ad integrare la presenza di comportamenti vessatori e mortificanti la dignita’ della persona ai fini della configurabilita’ della fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 572 c.p., omettendo di valutare se le condotte in esame potessero in astratto essere inquadrate nell’ambito di scelte decisionali motivate da ragioni di tipo strettamente fiduciario, pur se criticabili e lesive della sfera morale della persona offesa, che le ha percepite come denigratorie della propria professionalita’ e dignita’ di lavoratrice.

9. Ogni altra censura proposta (e segnatamente: il terzo motivo comune, relativo al dedotto vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la malattia della persona offesa ed il comportamento vessatorio del datore di lavoro; il motivo esclusivo nell’interesse di (OMISSIS), relativo alla dedotta violazione di legge nonche’ al vizio di motivazione in relazione agli articoli 133, 163 e 164 c.p. (pag. 15 del ricorso); il motivo esclusivo nell’interesse di (OMISSIS), relativo alla dedotta violazione di legge nonche’ al vizio di motivazione in relazione agli articoli 110 e 572 c.p. (pag. 13 del ricorso) appare assorbita dalla presente pronuncia.

10. Al disposto annullamento consegue il rinvio degli atti ad altra sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo giudizio. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ o gli altri dati identificativi a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ o gli altri dati identificativi 196/03 in quanto imposto dalla legge

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