Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 7 marzo 2018, n. 5368. La domanda dell’appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l’esercizio della facolta’ di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell’articolo 1373 c.c. e la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall’articolo 1671 c.c.

La domanda dell’appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l’esercizio della facolta’ di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell’articolo 1373 c.c. e la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall’articolo 1671 c.c., sono sostanzialmente diverse in quanto la prima presuppone l’esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facolta’ di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonche’ l’avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello “ius poenitendi”, di una somma (“multa poenitentialis”) integrante un debito di valuta e non di valore; la seconda, invece, presuppone l’esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facolta’ di recesso che al committente e’ attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario.

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Sentenza 7 marzo 2018, n. 5368
Data udienza 10 gennaio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 21208/2013 proposto da:
(OMISSIS) SNC, (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS) SPA, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS) in virtu’ di procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 358/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 27/02/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SALVATO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega dell’Avvocato (OMISSIS) per la controricorrente.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO
1. Con atto di citazione notificato il 14 gennaio 1997 (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali legali rappresentanti della (OMISSIS) S.n.c. di (OMISSIS) e (OMISSIS), convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze la (OMISSIS), poi divenuta (OMISSIS) S.p.A., deducendo che avevano sottoscritto con la convenuta un contratto di appalto di servizi in data 18 maggio 1994 con il quale era stata affidata all’attrice l’attivita’ di ritiro, trasporto e consegna documenti per conto della controparte e nella zona del forlivese, in favore di terzi di volta in volta richiedenti.
Assumevano che nel contratto era prevista la clausola di rinnovazione annuale in assenza di comunicazione della disdetta da parte della committente da effettuare almeno sessanta giorni prima della scadenza naturale.
Pertanto, poiche’ la controparte aveva disdettato il contratto in data 15/11/1996, omettendo di dare seguito alla sua esecuzione sino alla prevista scadenza, la convenuta andava condannata ad indennizzare la societa’ attrice per il recesso unilaterale dal contratto di appalto, con la condanna altresi’ all’importo dovuto per le prestazioni gia’ eseguite sino alla data del recesso, al rimborso delle spese sostenute per l’acquisto dei mezzi e degli strumenti indispensabili per adempiere agli obblighi contrattuali, nonche’ al pagamento del mancato guadagno non realizzato tra la data del recesso sino alla normale scadenza del contratto di appalto.
Si’ costituiva la convenuta che si opponeva all’accoglimento della domanda, assumendo la piena legittimita’ del proprio recesso.
All’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito con la sentenza n. 498 del 9 febbraio 2007, condannava la convenuta al pagamento in favore della societa’ attrice della somma di Euro 65.000,00, oltre interessi legali.
A seguito di appello proposto da (OMISSIS), la Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza n. 358 del 27 febbraio 2013, in parziale riforma della decisione appellata, ha condannato l’appellante al pagamento della somma di Euro 35.171,10 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla domanda al saldo, condannando il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) alla restituzione di quanto percepito in eccedenza in virtu’ della provvisoria esecuzione della sentenza del Tribunale.
In primo luogo, dopo avere disatteso alcune eccezioni preliminari di carattere processuale, rilevava che risultava corretta la riconducibilita’ della fattispecie nella previsione di cui all’articolo 1671 c.c. e che a tal fine occorreva rilevare che una prima missiva inviata dalla committente in data 27/11/1995 non poteva reputarsi espressiva del diritto di recesso, sia per il tenore letterale della missiva, sia per il fatto che il rapporto aveva avuto la sua regolare prosecuzione sino alla data in cui era pervenuta una seconda dichiarazione questa volta effettivamente contenente un recesso (15/11/1996).
Tale posteriore missiva era, infatti, effettivamente espressiva della volonta’ di recedere unilateralmente da parte della committente ma esponeva, in quanto manifestata non in conformita’ della previsione temporale prevista nel contratto, alle conseguenze indennitarie di cui all’articolo 1671 c.c..
Peraltro la norma de qua, proprio perche’ non contrastata da alcuna diversa previsione in materia di somministrazione, ben poteva trovare applicazione anche al contratto in esame correttamente riconducibile ad un’ipotesi di appalto di servizi, e cio’ giusta la previsione di rinvio alle norme in tema di appalto dettata dall’articolo 1677 c.c..
Passando alla determinazione dell’indennizzo, in primo luogo riconosceva l’importo di Euro 6.955,74 emergente dalle fatture emesse dalla societa’ attrice per prestazioni eseguite in data anteriore alla comunicazione del recesso, e che non risultavano saldate.
Quindi, e sempre sulla base degli accertamenti condotti dall’ausiliario di ufficio nominato in grado di appello, individuava l’ammontare delle spese sostenute dalla (OMISSIS), e da porsi in relazione allo svolgimento del servizio di appalto.
Infine, procedeva alla determinazione del mancato guadagno.
A tale scopo, tenuto conto dell’ammontare delle varie fatture emesse dall’attrice nel corso dei vari anni in cui l’appalto aveva avuto esecuzione, individuava quello che era il fatturato medio mensile, che pero’ non poteva essere considerato corrispondente al mancato guadagno, occorrendo detrarre da tale importo i costi sostenuti.
La sentenza, dando contezza delle indicazioni fornite dal CTU, rilevava come la percentuale delle spese generali potesse essere individuata avvalendosi del parametro fornito dalle previsioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 207 del 2010, articolo 32, in tema di appalti pubblici, lievemente incrementato di una percentuale del 3% (al fine di compensare alcune spese variabili insuscettibili di poter essere bloccate al momento della cessazione del contratto di appalto).
Tale percentuale andava poi incrementata di un ulteriore 10%, quale utile dell’esecutore dell’appalto, tenendo quindi conto del valore di realizzo dei beni acquistati e che erano stati considerati ai fini del calcolo delle spese sostenute dall’appaltatore.
Dalle indagini peritali era pero’ emerso che la (OMISSIS) non operava in esclusiva per conto della convenuta, sicche’ parte delle spese sostenute dalla appellata andavano imputate anche ai rapporti contrattuali intrattenuti con altri diversi committenti, dovendosi quindi pervenire a determinare il mancato guadagno nell’importo di Euro 13.215,36.
La sentenza procedeva poi alla disamina delle varie osservazioni critiche mosse all’operato dell’ausiliario, dando conto delle risposte fornite dal CTU, ritenendo tuttavia opportuno ridurre solo in parte l’indennizzo legato alle spese sostenute, dovendosi in via equitativa ipotizzare che parte dei costi potevano essere ammortizzati grazie ad una probabile attivita’ collaterale e successiva al recesso.
(OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali legali rappresentanti della (OMISSIS) S.n.c. hanno proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza sulla base di tre motivi.
(OMISSIS) S.p.A. ha resistito con controricorso.
2. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilita’ del ricorso formulata dalla controricorrente per la pretesa violazione della previsione di cui dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 3, sul presupposto che la sua formulazione, con l’integrale riproduzione di buona parte degli atti del giudizio di merito, non consentirebbe di ricostruire in maniera adeguata il contenuto delle domande proposte, delle difese della controparte e del reale andamento del processo nei gradi di merito.
Reputa il Collegio che in realta’ il ricorso, sebbene in parte appesantito da riferimenti non pertinenti alla materia attuale del contendere (si pensi alla domanda autonomamente proposta dal (OMISSIS) per la sua attivita’ di procacciatore d’affari) ovvero dalla riproduzione integrale di atti, consenta, tramite la opportuna individuazione delle varie fasi processuali succedutesi ed il richiamo alle difese delle parti, di poter reputare soddisfatto il requisito di carattere formale in ordine alla necessaria esposizione sommaria dei fatti di causa.
3. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione o falsa applicazione degli articoli 1655, 1671 e 1223 c.c..
Si osserva che il rapporto contrattuale intercorso tra le parti e’ riconducibile ad un contratto di appalto di servizi, e precisamente di servizi di trasporto, cosi’ che nella realta’ dei fatti la societa’ ricorrente ebbe ad eseguire varie ed autonome prestazioni di trasporto.
Il recesso esercitato dalla committente va quindi ricondotto alla diversa previsione di cui all’articolo 1373 c.c., che implica il diritto dell’appaltatore al risarcimento del danno ex articolo 1223 c.c., che non puo’ essere limitato al solo pregiudizio maturato sino alla data del 18/5/1997, occorrendo invece avere riguardo anche all’annualita’ successiva.
Inoltre il recesso esercitato dalla committente deve essere qualificato come manifestazione di abuso del diritto, essendo finalizzato a far conseguire alla societa’ intimata dei vantaggi ulteriori e diversi rispetto a quelli conseguibili in base all’ordinaria disciplina contrattuale.
Il motivo e’ evidentemente privo di fondamento.
Risultano in primo luogo evidenti profili di novita’ delle questioni trattate che ne determinano in larga misura l’inammissibilita’, non essendo dato sollevare in sede di legittimita’ questioni che non risultano essere state gia’ dibattute nei precedenti gradi di merito, soprattutto laddove le medesime implichino, come nel caso di specie, evidenti accertamenti in fatto.
Ed, invero la riconducibilita’ della fattispecie alla previsione di cui all’articolo 1671 c.c., come si evince dalla lettura della sentenza gravata, era stata affermata gia’ dal Tribunale, e tale conclusione era stata condivisa anche dai giudici di appello, senza che emerga che la societa’ ricorrente abbia mai posto in discussione la correttezza della qualificazione giuridica operata. In tal senso va poi ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 4750/1991) la domanda dell’appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l’esercizio della facolta’ di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell’articolo 1373 c.c. e la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall’articolo 1671 c.c., sono sostanzialmente diverse in quanto la prima presuppone l’esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facolta’ di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonche’ l’avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello “ius poenitendi”, di una somma (“multa poenitentialis”) integrante un debito di valuta e non di valore; la seconda, invece, presuppone l’esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facolta’ di recesso che al committente e’ attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario.
Nella vicenda in esame, come si ricava dalla lettura degli atti di causa, la societa’ attrice lamentava che la committente avesse receduto dal contratto nel novembre del 1996, facendo cessare l’esecuzione del contratto, una volta che, in assenza di una disdetta intervenuta per l’anno in corso nel rispetto della scansione cronologica di cui all’articolo 10, il rapporto di appalto doveva reputarsi rinnovato per un altro anno, e cioe’ sino alla successiva scadenza del 18/5/1997.
La pretesa applicabilita’ della diversa previsione di cui all’articolo 1373 c.c., oltre che contrastare con la causa petendi sottoposta all’attenzione dei giudici di merito, venendo quindi a configurarsi la proposizione di una diversa domanda in questa sede, appare contrastata anche dalla diversa modalita’ di esercizio del recesso, operato dalla committente nel caso in esame, allorquando il contratto di appalto aveva gia’ avuto esecuzione, e senza che peraltro, in violazione del requisito di specificita’ del ricorso ex articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la ricorrente abbia richiamato il contenuto del contratto di appalto, onde poter rinvenire al suo interno una previsione che legittimasse un esercizio del recesso ai sensi della diversa norma in questa sede invocata.
Del pari connotata da inammissibilita’ per novita’ della questione proposta solo in questa sede, e’ la deduzione secondo cui il recesso esercitato dalla committente andrebbe qualificato in termini di illiceita’ o comunque di abusivita’.
Ed, invero, a fronte di una pacifica previsione contrattuale che prevedeva il rinnovo automatico del contratto, e per una sola annualita’, in assenza di una formale disdetta da inviare almeno sessanta giorni prima della scadenza annualmente prorogata, il recesso ante tempus esercitato dalla convenuta va indubbiamente ricondotto alla previsione di cui all’articolo 1671 c.c., esponendo la stessa alle conseguenze di carattere indennitario precisate dalla stessa norma.
Manca dalla lettura della sentenza gravata un riferimento alla figura dell’abuso del diritto, ne’ la ricorrente ha indicato in quali atti processuali del giudizio di merito la questione sia stata sollevata, trattandosi peraltro di tema che implica la verifica in fatto circa la intenzione della committente di conseguire vantaggi (peraltro nemmeno specificamente indicati dalla ricorrente) esorbitanti rispetto a quelli scaturenti dall’esercizio di un diritto che la legge riconosce al committente.
A tal fine va poi ricordato che (cfr. Cass. n. 9645/2011; Cass. n. 8565/1983) il recesso unilaterale del committente previsto dall’articolo 1671 c.c., costituisce esercizio di un diritto potestativo e, come tale, non esige che ricorra una giusta causa, potendo essere esercitato ad nutum (cfr. Cass. n. 11642/2003) in qualsiasi momento dell’esecuzione del contratto di appalto, ben potendo essere giustificato anche dalla sola sfiducia verso l’appaltatore (conf. Cass. n. 2236/1985).
In assenza di una diversa previsione contrattuale, ben potendo le parti (cfr. Cass. n. 12368/2002) prevedere, nell’esercizio della loro autonomia che il recesso del committente debba essere esercitato, con determinati requisiti di tempo e di forma, attesa la derogabilita’ convenzionale della norma in parola, correttamente i giudici di merito hanno riconosciuto la sola indennizzabilita’ delle conseguenze derivanti dall’esercizio del recesso, essendo, come detto, solamente affermata dalla ricorrente la natura abusiva del suo esercizio, senza pero’ indicare, a fronte della sua pacifica configurazione come atto di esercizio di un diritto potestativo, quale sarebbe stato l’uso distorto in concreto compiuto da parte della committente.
Va altresi’ evidenziato che, attesa la disciplina convenuta tra le parti, che appunto prevedeva la rinnovazione annuale del contratto, in assenza di una tempestiva manifestazione di recesso almeno sessanta giorni prima della sua scadenza (cfr. per la giurisprudenza meno recente Cass. n. 3545/1975, a mente della quale anche laddove un contratto di appalto, prevedendo il diritto di recesso ad nutum del committente, si limiti a prescrivere un termine di preavviso e la forma scritta per l’esercizio del recesso medesimo, senza disciplinarne gli effetti, si deve ritenere operante, ad integrazione del contratto, la norma di cui all’articolo 1671 c.c., in base alla quale l’appaltatore, in caso di recesso unilaterale del committente, ha diritto al solo indennizzo previsto dalla norma in questione), l’appaltatore poteva legittimamente fare affidamento, una volta mancato il recesso, su di una proroga annuale, dovendo mettere in conto l’eventualita’ che il rinnovo non potesse verificarsi anche per l’annualita’ successiva, ed in mancanza di elementi, derivanti dalla condotta della controparte, che potessero indurre il legittimo affidamento circa un’ulteriore prosecuzione del rapporto.
Cio’ oltre ad evidenziare l’assenza di una legittima aspettativa circa la persistenza del vincolo contrattuale per un periodo superiore a quello in relazione al quale e’ stato determinato l’indennizzo dovuto, esclude altresi’ qualsivoglia legittimita’ della pretesa della ricorrente di dover determinare il mancato guadagno anche in relazione al periodo successivo alla data del 18/5/1997, risultando del tutto apodittica l’affermazione fatta a pag. 59 del ricorso secondo cui occorreva considerare ai fini della determinazione dell’indennizzo ex articolo 1671 c.c., la data del 18 maggio 1998, tenuto conto di un “anno automatico di rinnovo come da documentata consuetudine nel settore di riferimento”.
3. Il secondo motivo di ricorso denuncia ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullita’ della sentenza per la sussistenza di una motivazione apparente.
Si sostiene che, in relazione alla funzione costituzionale che svolge la motivazione, la decisione gravata non consente di apprezzare la rilevanza delle censure mosse dalle parti ai mezzi istruttori, mancando in ogni caso una giustificazione esauriente e completa della decisione presa.
Anche tale motivo va disatteso.
Ed, infatti, va in limine ricordato che la sentenza impugnata risulta essere pubblicata in data successiva all’entrata in vigore della L. n. 134 del 2012 (questione che rileva anche ai fini della valutazione del terzo motivo di ricorso) ed e’ quindi censurabile per vizi di motivazione sulla scorta della novellata previsione di cui dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimita’ sulla motivazione. Pertanto, e’ denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in se’, purche’ il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed e’ solo in tali ristretti limiti che puo’ essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’articolo 132, comma 2, n. 4.

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