Il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, istituito dall’art. 63 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, è stato concepito dal legislatore come un “quid” ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 3 maggio 2018, n. 10499.

Il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, istituito dall’art. 63 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, è stato concepito dal legislatore come un “quid” ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche. Esso è, infatti, configurato come corrispettivo di una concessione dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici ed è dovuto non in base alla limitazione o sottrazione all’uso normale o collettivo di parte del suolo, ma in relazione all’utilizzazione particolare o eccezionale che ne trae il singolo.

Sentenza 3 maggio 2018, n. 10499
REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 

SEZIONE SECONDA CIVILE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 

Dott. PETITTI Stefano – Presidente – 

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere – 

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere – 

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere – 

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere – 

ha pronunciato la seguente: 

ORDINANZA 

sul ricorso 13862-2014 proposto da: 

TRIESTE DI C.R. DITTA SAS, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 63, presso lo studio dell’avvocato MARCO CROCE, rappresentato e difeso dall’avvocato MANUEL DE MONTE; 

– ricorrente – 

contro 

COMUNE PESCARA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato LORENA PETACCIA; 

– controricorrente – 

e contro 

TRIBUTI ITALIA SPA IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA; 

– intimati – 

avverso la sentenza n. 1562/2012 del TRIBUNALE di PESCARA, depositata il 29/11/2012; 

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/02/2018 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA; 

Lette le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO GIANFRANCO, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo 

1 Il Tribunale di Pescara con sentenza 29.11.2012 respinse l’impugnazione della Ditta Trieste sas di C.R. contro un atto di recupero con cui la Concessionaria Tributi Italia spa chiedeva, per conto del Comune di Pescara, il pagamento del canone di occupazione di spazi e aree pubbliche (COSAP) per l’anno 2008 con riferimento ad un’atea di mq. 75 posta sul (OMISSIS). Per giungere a tale conclusione il Tribunale rilevò: 

– che l’eccezione di difetto di motivazione era infondata anche con riferimento al computo delle tariffe applicate; 

– che la parte attrice non aveva fornito alcuna prova di una erronea determinazione del canone; 

– che era altresì infondata l’eccezione di nullità per omessa istruttoria; 

– che era parimenti infondata l’eccezione di insussistenza dei presupposti impositivi perchè l’area occupata era compresa nel marciapiede del Lungomare e quindi rientrava nella categoria delle strade urbane di quartiere secondo la classificazione del codice della strada; 

– che era irrilevante la circostanza del contemporaneo pagamento di un canone di concessione demaniale, trattandosi di oneri diversi gravanti sul concessionario occupante; 

– he, non avendo l’attrice provato l’assenza di colpevolezza in relazione alla mancata conoscenza o conoscibilità della normativa vigente, erano dovute le sanzioni. 

2 Con ordinanza comunicata il 28.3.2014 la Corte d’Appello di L’Aquila ha dichiarato il gravame inammissibile ex art. 348-bis c.p.c. Ditta Trieste ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. sulla base di sei motivi. 

Il Comune di Pescara resiste con controricorso mentre il Concessionario (ora Tributi Italia in A.S.) non ha svolto difese in questa sede. 

Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione 

1 Col primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3 e della L. n. 212 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento all’obbligo di motivazione dell’atto impugnato. Dolendosi del rigetto dell’eccezione di difetto di motivazione dell’atto impugnato, la ricorrente rimprovera al Tribunale di non essersi pronunciato sulle censure sollevate e di avere disatteso le norme, i principi e i canoni che regolano l’azione amministrativa tra i quali l’obbligo di motivazione. Osserva che nell’atto di recupero non sono chiarite le ragioni giuridiche poste a base dello stesso nè i presupposti di fatto, essendo state utilizzate generiche formule di stile. Inoltre, l’atto non è stato preceduto da un atto impositivo. 

Il motivo è inammissibile non solo perchè non precisa quali sarebbero le censure non esaminate, ma anche per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6. 

Sotto quest’ultimo profilo, essendo la critica incentrata essenzialmente sul difetto di motivazione dell’atto di recupero, occorreva innanzitutto, al fine di consentire al giudice di legittimità di verificare la fondatezza della doglianza, trascrivere in ricorso la motivazione dell’atto di recupero o, comunque, fornire i dati essenziali per il reperimento dell’atto nel fascicolo di parte (tra le varie, sez. 1, Sentenza n. 16900 del 19/08/2015 Rv. 636324; Sez. 3, Sentenza n. 8569 del 09/04/2013 Rv. 625839), o almeno allegarlo nell’apposito fascicoletto previsto nel Protocollo d’intesa del 17.12.2015 tra la Corte di Cassazione e il CNF: a nessuno di tali oneri la ricorrente ha assolto e pertanto la decisione impugnata si sottrae alla censura. 

2 Con un secondo motivo la ditta Trieste denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, artt. 1 e ss. e della L. n. 212 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento all’obbligo di svolgere attività istruttoria. Sostiene che l’atto di recupero non è stato preceduto da nessun atto impositivo nè da alcuna attività istruttoria che, se compiuta, avrebbe dimostrato la non appartenenza al Comune dell’area su cui insiste la tenda dello stabilimento. 

Tale motivo è infondato. 

Il Comune ha osservato che l’atto di recupero è esso stesso un avviso di accertamento contenente i dati essenziali dell’occupazione accertata (ubicazione dell’area e superficie occupata) e a tale obiezione la ricorrente non ha ritenuto di replicare (non risulta infatti depositata alcuna memoria). L’ubicazione dell’area occupata all’interno del territorio del Comune di Pescara costituisce apprezzamento in fatto demandato al giudice di merito (il quale ha accertato che si trattava di un’area di mq 75 sul marciapiede del (OMISSIS), rientrante a sua volta, nella categoria delle strade urbane di quartiere secondo la classificazione operata dal codice della strada: v. pagg. 2 e 3 sentenza impugnata). 

3 Col terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 63 e D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 38 del regolamento comunale Cosap e degli artt. 35 e ss. cod. nav. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla inapplicabilità del canone di occupazione per difetto dei presupposti di legge, sostenendosi che l’area appartiene al Demanio dello Stato (marittimo). La ricorrente richiama alcune pronunce di merito (Sentenza n. 949/2010 del Tribunale di Pescara e Sentenza 2064/08 del Giudice di Pace di Pescara) che avrebbero risolto la stessa questione riconoscendo la natura demaniale dell’area e quindi l’illegittimità di un nuovo canone oltre a quello dovuto per la concessione demaniale. 

4 Col quarto motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 63 e D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 38 del regolamento comunale e dell’art. 3 C.d.S. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla mancanza dei presupposti di legge per l’applicabilità del canone di occupazione sull’area in questione. Secondo la tesi della ricorrente, l’area profonda dodici metri ove è collocata la tenda non può essere classificata come marciapiede secondo la classificazione del codice della strada, ma fa parte dell’area in legittima concessione. 

5 Con un quinto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 63 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla duplicazione dei tributi, a dire della ricorrente, illegittima perchè relativa ad una medesima occupazione. La ditta ricorrente richiama il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 63, comma 3 e una Circolare ministeriale del 2000 sulla detraibilità dell’importo di altri canoni riscossi dal Comune e dalla Provincia, evidenziando l’iniquità della doppia imposizione, contraria ad ogni principio di proporzionalità, razionalità e ragionevolezza, trasparenza ed efficienza. 

Queste tre censure, per il comune riferimento al tema della natura giuridica dell’area occupata, della sua assoggettabilità al canone di occupazione e della compatibilità di tale canone con altri canoni concessori, ben si prestano ad esame unitario. Esse sono prive di fondamento. 

Innanzitutto, è inammissibile per difetto di specificità (art. 366 c.p.c., n. 6) il terzo motivo nella parte in cui richiama atti processuali e documenti (sentenze di merito che avrebbero deciso la stessa questione e l’atto di concessione demaniale) senza allegarli o comunque fornire gli estremi per il reperimento nell’incarto processuale (valgono al riguardo le considerazioni svolte sopra nella trattazione del primo motivo a cui senz’altro si rinvia per evidenti ragioni di sintesi espositiva). 

Ciò premesso, va rilevato che a norma del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 63 “I comuni e le province possono, con regolamento adottato a norma dell’art. 52, escludere l’applicazione, nel proprio territorio, della tassa per occupazione di spazi ed aree pubbliche, di cui al capo 2^ del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507. I comuni e le province possono, con regolamento adottato a norma dell’art. 52, prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, comprese le aree destinate a mercati anche attrezzati, sia assoggettata, in sostituzione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, al pagamento di un canone da parte del titolare della concessione, determinato nel medesimo atto di concessione in base a tariffa. Il pagamento del canone può essere anche previsto per l’occupazione di aree private soggette a servitù di pubblico passaggio costituita nei modi di legge. Agli effetti del presente comma si comprendono nelle aree comunali i tratti di strada situati all’interno di centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti, individuabili a norma del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 2, comma 7”. 

Come già affermato da questa Corte, il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, istituito dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 63 come modificato dalla L. n. 448 del 1998, art. 31 è stato concepito dal legislatore come un “quid” ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche. Esso è, infatti, configurato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici ed è dovuto non in base alla limitazione o sottrazione all’uso normale o collettivo di parte del suolo, ma in relazione all’utilizzazione particolare (o eccezionale) che ne trae il singolo (v. Sez. 5, Sentenza n. 18037 del 06/08/2009 Rv. 609326; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18108 del 2016 in motivazione). 

Nel caso in esame, il giudice di merito ha accertato, attraverso un apprezzamento in fatto, che la collocazione della tenda insiste sul marciapiede del (OMISSIS) cioè su di una strada pubblica e quindi la dedotta violazione di legge non sussiste. 

Fuori luogo è poi il richiamo alla circolare ministeriale perchè, come si evince dal testo riportato nello stesso ricorso, la detrazione in essa prevista si riferisce ai rapporti con altri canoni “riscossi dal Comune o dalla Provincia” mentre nel caso di specie, per espressa ammissione della ricorrente, l’altra concessione sarebbe di natura demaniale statale marittima (v. pagg. 14 e 28 ricorso). 

Resta da affrontare il problema della compatibilità del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche con altri canoni concessori. 

Questa Corte, seppur in tema di TOSAP, ha dato risposta favorevole al quesito, affermando che la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP) è compatibile (L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, comma 63) con il pagamento di un canone concessorio, provento di natura e fondamento del tutto diversi dal primo, ed è, quindi, dovuta dal concessionario, a meno che il Comune non abbia esercitato il potere facoltativo di ridurla o annullarla (Sez. 5, Sentenza n. 23244 del 27/10/2006 Rv. 594956). 

Questo principio, di carattere generale, ben può valere anche con riferimento al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, istituito dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 63 come modificato dalla L. n. 448 del 1998, art. 31. 

6 Col sesto ed ultimo motivo, infine, la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 63 e D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 38 e del regolamento comunale in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla mancanza dei presupposti per l’applicazione delle sanzioni e degli interessi. 

Invoca la buona fede per avere agito nella legittima convinzione di non dovere pagare al Comune nessun canone per l’occupazione di suolo, corrispondendo già il canone demaniale e richiama a sostegno di tale assunto la sentenza favorevole 2064/2008 del Giudice di Pace nonchè il comportamento del Comune di Pescara che fino al 2009 non ha mai inviato alcun avviso di messa in mora o sollecito. Osserva che una eventuale informazione preventiva circa la debenza del doppio canone le avrebbe consentito di valutare la possibilità di rimuovere la tenda. 

Anche questa censura è priva di fondamento, oltre che inammissibile nella parte in cui si limita al mero richiamo del contenuto di un atto processuale (v. sopra). 

Anche se non è espressamente richiamato in ricorso, il principio a cui si appella la ricorrente è quello di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10 cd. Statuto del Contribuente (Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente): ebbene, come più volte affermato da questa Corte, in tema di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 10, commi 1 e 2 Statuto del contribuente, costituisce situazione tutelabile quella caratterizzata: a) da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’Amministrazione finanziaria, in senso favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo; c) dall’eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono. Infatti, i casi di tutela espressamente enunciati dal cit. art. 10, comma 2 (attinenti all’area della irrogazione di sanzioni e della richiesta di interessi), riguardanti situazioni meramente esemplificative e legate a ipotesi ritenute maggiormente frequenti, non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti (v. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 537 del 14/01/2015 Rv. 634360; Sez. 5, Sentenza n. 17576 del 10/12/2002 Rv. 559126). 

Nel caso in esame il giudice di merito ha rilevato che spettava alla parte di dimostrare l’assenza di colpevolezza in relazione alla mancata conoscenza o conoscibilità della normativa vigente e la conclusione appare giuridicamente corretta, sottraendosi così alla censura che, invece, tende a sollecitare una rivalutazione della buona fede attraverso un’indagine di fatto che è preclusa nel giudizio di legittimità. 

In conclusione, non resta che respingere il ricorso con addebito di ulteriori spese alla ricorrente. 

Trattandosi di ricorso successivo al 30 gennaio 2013 e deciso sfavorevolmente, ricorrono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1 quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M. 

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 1.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. 

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2018. 

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2018

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