Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza n. 25310 dell’11 novembre 2013

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I.- La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello della S. s.p.a. avverso la sentenza di prime cure del Tribunale di Pescara, dichiarativa della inefficacia del licenziamento intimato dalla suindicata società al dipendente M.S., per violazione della disciplina dei licenziamenti collettivi, consistente nell’avere la società datrice di lavoro proceduto all’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità facendo riferimento alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative dei singoli centri operativi, nel caso di specie quello di Città Sant’Angelo, anziché a quelle dell’intero complesso aziendale.
La Corte d’appello dell’Aquila, per quel che qui interessa, precisa che:
a) il lavoratore ha lamentato che – in presenza di una crisi del settore di portata tale da coinvolgere l’intero assetto aziendale – la società S. ha attivato distinte procedure di mobilità per le diverse unità produttive, così: 1) privando le OO.SS. della possibilità di avere un quadro di insieme dei problemi economici prospettati della società e quindi di elaborare piani di intervento generali: 2) impedendo una diversa utilizzazione dei lavoratori coinvolti nella procedura di mobilità, per esempio, attraverso l’offerta della possibilità di trasferimento in altre sedi della società, onde evitare la misura del licenziamento;

b) a fronte di tale situazione, i motivi di appello della S. si risolvono in petizioni di principio che non sono in grado neppure di scalfire il nucleo centrale della sentenza di primo grado consistente nella affermata illegittimità della procedura perché applicata, volta per volta, a singole unità produttive, ancorché la crisi riguardasse l’azienda nel suo complesso, senza differenziazioni trai diversi centri operativi dislocati sul territorio nazionale;
c) in realtà, la società sembra confondere tra il merito della scelte aziendali, sicuramente non sottoponibile a sindacato giurisdizionale, e le ragioni della scelta effettuata dall’azienda, le quali invece devono essere esplicitate, onde consentire un adeguato controllo della loro sussistenza.
2.- Il ricorso di S. s.p.a. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi;
resiste, con controricorso, M. S.
Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I – Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Il ricorso è articolato in quattro motivi.
1.1.- Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991.
La società sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, nel giudizio sarebbero emersi – come pacifici – molteplici fatti giustificativi della scelta della S. di limitare l’applicazione della procedura di mobilità al Centro operativo di Città Sant’Angelo, cui era addetto il S., senza estenderla all’intero complesso aziendale.
1.2.- Con il secondo motivo si denunciano: a) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; b) “insufficiente motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 24 della legge n. 223 del 1991”.
La ricorrente contesta la sentenza impugnata ove non avrebbe dato atto – motivando specificamente al riguardo – delle ragioni per le quali, a fronte della pacifica organizzazione aziendale in molteplici unità produttive, non fosse possibile limitare l’applicazione della procedura di mobilità in oggetto ad una sola di tali unità, non essendo sufficiente al riguardo l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la crisi aveva investito tutta l’azienda.
1.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all`art. 360, n. 5, cod. proc. civ., “insufficiente motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, in relazione agli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del l991”.
Si contesta la base del ragionamento espresso dalla Corte aquilana, secondo cui è stata dichiarata l’illegittimità della procedura di mobilità da qua perché limitata ad una singola unità produttiva.
Si sostiene che la suddetta decisione sia stata giustificata esclusivamente per la rilevata sussistenza di fattori generali di crisi, prescindendo aprioristicamente da qualunque valutazione in ordine alle ragioni ulteriori e diverse addotte da parte della azienda ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991 per giustificare la scelta di delimitare, nell’ambito della suddetta crisi, l’applicazione della procedura di mobilità ad una singola unità produttiva e/o realtà territoriale.
1.4.- Con il quarto motivo si denunciano: a) omessa ammissione delle prove; b) vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
La S. – pur ribadendo che nel giudizio non vi è mai stata alcuna contestazione sulla veridicità ed esaustività delle informazioni rese sulla specificità della crisi del Centro operativo di Città Sant’Angelo – “per mero scrupolo sottolinea anche che la Corte aquilana, non ammettendo la prova richiesta dalla società nella memoria di costituzione non le ha consentito di dimostrare le ragioni della scelta imprenditoriale di cui si tratta, peraltro già specificate nella lettera di apertura della procedura del 5 luglio 2005.

II – Esame delle censure
2.- I quattro motivi del ricorso – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
2.1.- Deve essere, in primo luogo, ricordato che, per consolidato e condiviso orientamento di questa Corte (inaugurato da Cass. 10 luglio 2000, n. 9169), con riguardo ai licenziamenti collettivi per riduzione del personale “ai fini della determinazione dell’ambito di attuazione del licenziamento e dell’individuazione dei lavoratori da licenziare deve tenersi conto di tutti i lavoratori dell’azienda, sicché non può valere a ridurre il numero dei soggetti da valutare comparativamente il mero ridimensionamento (o la stessa soppressione) di un reparto, potendo la riduzione del personale essere limitata agli addetti a tale reparto solo allorquando sia costoro sia gli addetti ai restanti reparti siano portatori di specifiche professionalità non omogenee che ne rendano impraticabile in radice qualsiasi comparazione”.
Sulla base di tale principio, questa Corte ha, quindi, affermato che, in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, nell’ambito della singola unità produttiva, ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto ciò non sia il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale (vedi, per tutte: Cass. 15 giugno 2006, n. 13783; Cass. 19 maggio 2005, n. 10590; Cass. 22 aprile 2005, n. 8474; Cass. 9 settembre 2003, n. 13182; Cass. 24 gennaio 2002, n. 809; Cass. 26 settembre 2000, n. 12711; Cass. 10 giugno 1999, n. 5718; Cass. 18 novembre 1997, n. 11465).
2.2.- Facendo applicazione di tali principi questa Corte (sentenza 26 aprile 2012, n. 6500) in una controversia analoga alla resente – riferita alla medesima vicenda, con riguardo ad un diverso dipendente della società S., introdotta in sede di legittimità da un ricorso in cui si prospettavano censure simili alle attuali – è pervenuta alla medesima soluzione del rigetto del ricorso.
A tale orientamento il Collegio intende dare continuità, precisando che le sentenze di segno diverso, richiamate dalla ricorrente (Cass. 20 febbraio 2012, n. 2429; Cass. 21 febbraio 2012, n. 2522 e n. 2523), pur avendo come sfondo la stessa vicenda della S., hanno tuttavia esaminano fattispecie specifiche parzialmente diverse da quella oggetto del presente giudizio, come risulta, per esempio, dagli ampi riferimenti alla CIGS antecedente alla procedura di mobilità contenuti nelle suddette sentenze, che sarebbero impraticabili nel presente giudizio, visto che la CIGS risulta estranea al thema decidendum.
2.3.- Detto questo, i primi tre motivi del presente ricorso appaiono, dal punto di vista della loro stessa impostazione, viziati per analoghe ragioni per le quali la Corte aquilana ha considerato “petizioni di principio” i motivi di appello.
Infatti, anche nell’attuale ricorso, la S. incentra tutte le censure su questioni che non toccano il nucleo della motivazione della sentenza impugnata, rappresentato dall’avere la Corte d’appello ritenuto di confermare la sentenza di primo grado secondo cui la comunicazione effettuata ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991 non conteneva una idonea giustificazione delle ragioni per cui la procedura di mobilità era stata limitata alla sola unità produttiva di Città Sant’Angelo, “a fronte di una crisi che riguardava l’azienda nel suo complesso, senza differenziazioni fra i diversi centri operativi dislocati sul territorio nazionale”.
Pertanto – contrariamente a quanto si sostiene nel primo motivo di ricorso – la sentenza impugnata non ha ritenuto che ricorresse un’ipotesi di illegittimità della comunicazione della L. n. 223 del 1991, ex att. 4, comma 3, in quanto inidonea, per la carenza delle informazioni ivi contenute, a consentire alle OOSS l’esercizio del potere di controllo ad esse assegnato dalla legge.

Il ragionamento seguito dalla Corte territoriale è del tutto diverso.
La Corte d’appello, infatti, pur senza richiamare esplicitamente la relativa disposizione, ha chiaramente individuato come profilo di illegittimità del licenziamento de quo nella violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, che, nel fissare le regole concernenti i criteri di scelta dei lavoratori interessati alla procedura di mobilità, stabilisce (comma 1) che l’individuazione di tali lavoratori deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale. Sul punto la sentenza impugnata ha, in particolare, affermato che la suddetta comunicazione non era tale da esplicitare le ragioni per le quali la società datrice di lavoro ha deciso – esercitando la propria discrezionalità imprenditoriale – di delimitare l’ambito di applicazione dei
criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità e così di consentire un adeguato controllo adeguato controllo sulla sussistenza delle ragioni tecnico-produttive e organizzative che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, ossia sul fatto che la limitazione dell’ambito dei lavoratori fra i quali operare la scelta sia imposta dai motivi dell’esubero esposti e dalle ragioni per cui lo stesso non poteva essere assorbito.
D’altra parte, anche il riferimento agli accordi sindacali nei quali è stata riconosciuta la natura di unità produttive autonome dei Centri operativi, è inammissibile sia per mancato rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione sia perché risulta, del pari, inconferente rispetto alle argomentazioni poste a base della motivazione della sentenza impugnata, nelle quali non si mette in discussione la natura del Centro operativo in questione.
2.4.- Poiché, per “diritto vivente”, la verifica della legittimità del licenziamento presuppone anche la corretta applicazione dei criteri di scelta, relativamente alla quale grava sul datore di lavoro l’onere probatorio; ne deriva che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei suddetti criteri di attribuzione dell’onere probatorio, espressi da ultimo da Cass. 3 maggio 2011 n. 9711, secondo la quale, infatti, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l’oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata.
Ne deriva l’infondatezza del secondo motivo, visto che, nella descritta situazione, doveva essere la società a dimostrare che vi erano valide ragioni giustificative della propria scelta, non potendo tale scelta essere giustificata implicitamente per il fatto che il Centro operativo di Città Sant`Angelo era una unità produttiva autonoma.
2.5.- All’esito di una analisi del testo della comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 3, – che si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e – incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, come accade nella specie – la Corte territoriale ritenuto che la stessa fosse priva delle indicazioni idonee a giustificare la limitazione dell’ambito di applicazione della procedura di mobilità e dei criteri di scelta dei lavoratori interessati alla sola unità produttiva di Città Sant’Angelo.
Tale interpretazione resiste agevolmente alle censure della società che – in particolare nel terzo motivo – non evidenzia alcun vizio logico nel procedimento argomentativo seguito dalla Corte ma si limita a proporre, una diversa interpretazione, basata, in parte, su circostanze di fatto (ad esempio la concessione del trattamento CIGS al Centro Operativo di Pescara) che, anche perché allegate in modo affatto generico, non appaiono significative ai fini dell’accoglimento della censura.
Né può ipotizzarsi alcuna violazione della L. n. 223 del 1991, art. 24 o art. 4, sotto i profili allegati da parte ricorrente, atteso che, come si è in precedenza evidenziato, la Corte territoriale non ha affermato l’impossibilità per l’imprenditore di limitare la procedura di mobilità alla singola unità produttiva, ma si è limitata a verificare se, nel caso concreto, erano state allegate idonee ragioni per giustificare tale limitazione.

2.6.- Anche il quarto motivo di ricorso è inammissibile perché le censure con esso prospettate non attengono all’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione – che, peraltro, risulta congruo e chiaramente individuabile, come si è detto – ma si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice del merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono, quindi, nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.
III – Conclusioni
4.- Il ricorso deve essere in definitiva respinto. In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 00,00 (cento/00) per esborsi, euro 3500,00 (tremilacinquecento/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 2 ottobre 2013.

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