Suprema Corte di Cassazione
Sezione Lavoro
Sentenza del 23 luglio 2012, n. 12770
Svolgimento del processo
Con sentenza del 19 maggio 2004, il Tribunale di Roma respingeva una serie di domande proposte da M.L., dal 23 marzo 1987 dipendente della T. s.p.a. – con inquadramento in livello C) di cui al CCNL applicato e mansioni di impiegata amministrativa -, dirette ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità della intervenuta modifica in peius delle sue mansioni, il suo diritto ad essere reintegrata nelle mansioni precedenti, la condanna della società predetta a risarcirle il danno alla professionalità e all’immagine professionale subito, la condanna della stessa a risarcirle il danno biologico provocato dall’illegittimo trasferimento ed applicazione al servizio (…), il danno morale e quello esistenziale, oltre al pagamento di alcuni elementi retributivi e l’accertamento del suo diritto ad una qualifica superiore, con le connesse differenze retributive.
Su appello della L., la Corte d’appello di Roma, con sentenza non definitiva depositata il 23 ottobre 2007, pronunciando unicamente sul motivo di appello relativo alla dequalificazione che l’appellante avrebbe subito, prima a causa della sua inattività per quattro mesi dal novembre 1999 e poi in ragione dell’adibizione, alla fine di marzo 2000, al servizio telefonico (…), riformava la sentenza di primo grado, dichiarando l’illegittimità del comportamento denunciato e il diritto della L. nei confronti della T. ad essere reintegrata nelle mansioni precedentemente svolte ovvero in altre ad esse equivalenti e disponeva, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio in ordine agli ulteriori motivi di appello.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la T. Italia s.p.a., ma il ricorso veniva rigettato. Frattanto il giudizio proseguiva dinanzi alla Corte d’appello per l’esame delle domande della L. ulteriori rispetto a quelle della lamentata dequalificazione accolta – ormai irrevocabilmente- dalla sentenza non definitiva sopra ricordata. Con sentenza definitiva del 17/7/2008-27 luglio 2009 la Corte d’appello, dopo aver disposto CTU medico-legale, in parziale accoglimento del gravame ed in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma, accoglieva i capi di domanda formulati originariamente dall’attrice, concernenti il risarcimento del danno alla salute, alla professionalità, oltreché il danno morale per un importo complessivo di € 29.352,58, di cui € 22.152,58 a titolo di risarcimento del danno biologico, € 5.000,00 a titolo di risarcimento del danno morale, € 2.200,00 a titolo di risarcimento del danno alla professionalità, tutti valori comprensivi degli interessi, rapportati al momento della decisione, oltre interessi dalla pronuncia al soddisfo, salva la eventuale rivalutazione dalla pronuncia stessa in caso di inadempimento. Rigettava ogni altra domanda.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre M.L. con dieci motivi.
Resiste la T. Italia spa con controricorso, proponendo, a sua volta, ricorso incidentale basato su due motivi, contestato dalla L. con controricorso.
Il difensore della L. ha depositato osservazioni per iscritto sulle conclusioni del P. M. ex art. 379, ult. comma c.p.c.
Motivi della decisione
Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), lamenta che la impugnata sentenza abbia erroneamente escluso la sussistenza sia di un comportamento mobizzante sia di un demansionamento per il periodo antecedente al marzo 2000. Ciò perché -argomenta la ricorrente – la sentenza non definitiva del 23 ottobre 2007 della Corte di Appello di Roma, passata in giudicato, “aveva dichiarato l’illegittimità del comportamento datoriale della T. come contestato” e perché nell’iniziale ricorso introduttivo erano esposte anche le relative domande, Il motivo è infondato poiché è la stessa ricorrente a richiedere nelle conclusioni riportate nella sentenza definitiva di appello, quanto segue : 1) accertare e dichiarare l’illegittimità del comportamento della convenuta consistente nella modifica in peius delle mansioni della ricorrente e, comunque, del loro depauperamento in violazione dell’art. 2103 c.c.; 2) accertare e dichiarare il diritto ad essere reintegrata nelle mansioni precedentemente svolte ovvero adibita a mansioni effettivamente equivalenti alle precedenti e compatibili con la sua professionalità e con il suo stato di salute ; 3) conseguentemente, condannare …”.; 6) accertare e dichiarare che la ricorrente ha svolto mansioni superiori al proprio inquadramento dal 1988 (trasferimento in Direzione Regionale Lazio) al 2.3.2000 e condannare la convenuta …”. Con tali richieste è, dunque, la stessa ricorrente ad interpretare il contenuto della sentenza non definitiva alla stessa stregua di quanto ritenuto nella impugnata sentenza, muovendo, appunto, dal presupposto che detti accertamenti esulavano da quanto affermato nella sentenza non definitiva passata in giudicato.
Con il secondo motivo, subordinato al primo, la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1218 c.c. in relazione agli artt.2103 e 2697 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), evidenzia la natura contrattuale dell’obbligo del datore di adibire il lavoratore alle mansioni rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte. Da tale premessa fa discendere, come corollario, l’assunto che, al fine di escludere la responsabilità per inadempimento ossia per il demansionamento o attribuzione di mansioni inferiori, non sarebbe sufficiente la contestazione della allora convenuta che era onerata invece del relativo onere della prova. L’infondatezza del motivo emerge dal richiamo alla parte della motivazione della sentenza impugnata ove si afferma che “nella fattispecie in esame, deve rilevarsi che il danno alla professionalità risulta provato solo in relazione all’illegittimo trasferimento e non alla dedotta inattività, dal novembre 1999 al 1.3.2000?. Pertanto -come appare evidente- la sentenza impugnata non ha posto a carico del lavoratore l’onere di provare che le mansioni assegnate fossero equivalenti a quelle svolte in precedenza, ma solo quello di provare il danno del quale chiede il risarcimento.
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 n. 4 c.p.c.) ed omessa o contraddittoria motivazione in ordine alla illegittimità del trasferimento (art. 360 n. 5 c.p.c.), lamenta che né la sentenza parziale né quella definitiva abbiano preso in considerazione il problema della illegittimità del trasferimento sotto profili diversi da quelli, pur espressamente dedotti, relativi al mutamento in peius mansioni affidate, rilevando detto trasferimento, invece, sotto il duplice aspetto della evidenza di un intento persecutorio e come autonoma fonte di danno non patrimoniale.
Il motivo è privo di fondamento, se si considera che, nella specie, rilevando il c.d. trasferimento non come spostamento di sede bensì come mutamento di mansioni verificatosi nel marzo 2000, la attuale ricorrente avrebbe dovuto gravare di ricorso per cassazione la sentenza parziale, che a questo evento, cioè alla dedotta dequalificazione a seguito del trasferimento al servizio (…)”-come sostenuto dalla stessa ricorrente nel ricorso in esame – faceva riferimento. Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. nonché carenza ed illogicità di motivazione ( art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), contesta il capo della sentenza che, dopo aver richiamato la nozione comunemente accolta del mobbing, ha escluso che il comportamento datoriale abbia contenuto e finalità mobizzanti. Ciò perché la sentenza avrebbe assunto una valutazione oggettiva e non finalistica delle singole condotte rispetto alle quali non rileva la legittimità dei singoli comportamenti e che deve prescindere sia dalla valutazione “puntigliosamente analitica” di ciascuna delle condotte sia dalla valutazione complessiva del comportamento vessatorio sia, infine, dal loro collegamento temporale. Il motivo è infondato.
Invero, la Corte territoriale, dopo aver rilevato che i vari comportamenti assunti mobizzanti, complessivamente valutati, non erano tali da configurare la nozione di mobbing, così come delineata dalla consolidata giurisprudenza, ha sottolineato che alcuni di questi non risultavano provati (il divieto di ritirare gli effetti personali) e che la maggioranza degli stessi risultava del tutto legittima (apertura della corrispondenza avuto riguardo alla normativa che inibisce la recezione di corrispondenza personale e quindi logica riferibilità a comunicazioni d’ufficio; trattamento di malattia corrisposto nella misura prevista da contratto collettivo vigente; conteggio del dare e dell’avere per somme pagate in eccedenza i mesi precedenti; reiterazione delle visite controllo legittimata dalla durata dell’assenza per malattia -oltre otto mesi nel 2000 e cinque mesi nel 2001 -; legittimo rifiuto della licenza straordinaria, concedibile, secondo il contratto collettivo, solo all’esaurimento del periodo di comporto, presupposto nel caso non realizzato; fruizione di una licenza straordinaria dal 1 gennaio al 31 dicembre 2002 ancorché questa licenza, pendendo trattative per la risoluzione consensuale rapporto, sia stata formalizzata solo nel 2002; coerenza della decisione aziendale di soddisfare -in un contesto che vedeva le richieste superiori rispetto alle disponibilità – i lavoratori che avevano prestato la loro opera nell’intero anno 2000, essendosi invece la ricorrente assentata dal marzo al dicembre dello stesso anno). Motivatamente, pertanto, la Corte di merito ha ritenuto che i singoli comportamenti non avevano in sé, congiuntamente ed isolatamente considerati contenuto mobizzante, sicché dalla loro somma, difettando una qualsiasi prova dell’esercizio abusivo del diritto, non poteva trarsi un disegno persecutorio fonte di risarcimento.
I motivi da cinque a nove, con i loro richiami a vizi di motivazione ed agli artt. 2056, 2059 e 1223 c.c. (5° motivo), 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005 (6° e 7° motivo), 1223, 2056 e 2059 c.c. (8° e 9° motivo) riguardano la liquidazione del danno: la ricorrente lamenta che la sentenza non abbia personalizzato il danno; che ha liquidato il danno morale in una misura percentuale del danno biologico; che ha liquidato il danno alla professionalità in misura pari al 50% della retribuzione. Risultano violati, argomenta la ricorrente, i principi che governano la liquidazione equitativa del danno; non vi è stata la liquidazione del danno biologico temporaneo. Le censure sono prive di fondamento.
Osserva il Collegio che in argomento la Corte territoriale, dopo avere richiamato la espletata consulenza tecnica e gli elementi probatori acquisiti, ha tenuto a specificare i criteri adottati nella liquidazione riportando sia i riferimenti normativi che gli arresti giurisprudenziali nella materia con argomentazioni che non risultano inficiate della sollevate censure, anche alla luce del principio secondo il quale i danni dei quali si chiede il risarcimento debbono essere provati, all’occorrenza mediante presunzioni, i cui elementi debbono però essere acquisiti al processo.
Con il decimo motivo la L., denunciando violazione dell’accordo collettivo di lavoro del 19 luglio 2000 in relazione all’art. 32, comma 7 del CCNL del 28 giugno 1996 (art. 360 n. 3 c.p.c.), lamenta che l’impugnata sentenza, nel determinare il richiesto trattamento di malattia dovuto per i mesi di marzo-ottobre 2001 non abbia tenuto presente anche l’accordo 19 luglio 2000, che per il personale in servizio, differiva di 18 mesi l’entrata in vigore della nuova disciplina.
Il motivo non può trovare accoglimento in quanto fa riferimento a due contratti collettivi succedutisi nel tempo ed alla disciplina transitoria, che non risulta essere stata in precedenza presa in esame a tali fini, ed inoltre non si basa – come sarebbe stato necessario – su una denuncia di violazione dei criteri ermeneutici codicistici. Va disatteso anche il ricorso incidentale.
Con il primo motivo la T. Italia S.p.A., denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., sostiene che la sentenza impugnata – nel riconoscere in favore della L. il risarcimento del danno da lesione alla professionalità nella misura del 50% della retribuzione- sia incorsa nel vizio di ultrapetizione dal momento che la lavoratrice nel ricorso iniziale aveva chiesto il risarcimento di detta voce di danno nella misura del 20%.
La censura è infondata poiché come emerge dagli atti, accanto alla indicata misura, è stata fatta altresì richiesta di condanna della società alla diversa somma, maggiore o minore, da accertarsi in corso di giudizio.
Infondato è anche il secondo motivo con cui si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. nonché insufficiente motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).
In particolare, la società osserva che la motivazione che precede la liquidazione del danno alla professionalità, avendo riguardo alla sindrome depressiva accertata dal CTU e determinatasi in coincidenza con il demansionamento a centralinista del (…) del marzo 2000, si attaglierebbe al danno biologico, peraltro, distintamente risarcito, ma non al danno alla professionalità.
Anche questo motivo è privo di fondamento, poiché, per un verso non sono indicate le ragioni della violazione della richiamata normativa, per altro verso, non è ravvisabile il denunciato vizio motivazionale, avendo, sul punto la Corte territoriale dapprima richiamato – tra gli elementi idonei al conseguimento della prova per presunzioni sull’esistenza del danno alla professionalità – “la lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini del soggetto…” per poi affermare che in coincidenza col demansionamento del marzo 2000 la Signora L. era caduta in “depressione reattiva o trauma nel luogo di lavoro, insonnia, insicurezza;..”.
In conclusione, entrambi i ricorsi vanno rigettati.
L’esito del giudizio induce a compensare le spese tra le parti.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.
Depositata in Cancelleria il 23.07.2012
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