a) il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, ricompreso in quello originario, purché ciò avvenga nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione;
b) il principio della specificità della contestazione disciplinare non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi sicché è ammissibile la contestazione per relationem ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato;
c) ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs 30.3.2001 n. 165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla legge 28.6.2012 n. 92 all’art. 18 della legge 20.5.1.970 n. 300, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata legge n. 92 del 2012 resta quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma;
d) il potere del giudice di applicare alla fattispecie ricostruita la esatta regola di diritto, e quindi anche la normativa sul sindacato giurisdizionale sui licenziamenti, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l’appello, dagli artt. 329 e 346 c.p.c. e, per il ricorso per cassazione, dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 9 giugno 2016, n. 11868

Svolgimento del processo

1 – La Corte di Appello di Roma ha respinto i reclami riuniti, proposti ex art. 1, comma 58, della legge 28 giugno 2012 n. 92, dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e da C.R. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva dichiarato l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, per effetto del licenziamento intimato con provvedimento del 2.9.2012, e, ritenuta la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, aveva applicato il sesto comma dell’art. 18 dello Statuto, come modificato dalla legge sopra richiamata, condannando il Ministero a corrispondere al C. l’indennità risarcitoria onnicomprensiva, quantificata nella misura minima di sei mensilità.
2 – La Corte territoriale ha premesso che il procedimento disciplinare era stato avviato con contestazione del 2 marzo 2004, con la quale era stato addebitato al dipendente, per quel che qui interessa, di avere effettuato “operazioni per conto dell’Ufficio Provinciale di Roma mentre era in missione per esigenze del CSRPAD
(Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi) in località ovviamente diverse”. Il procedimento era stato contestualmente sospeso perché i fatti emersi a seguito di visita ispettiva, di rilievo penale, erano stati segnalati dal Ministero all’autorità giudiziaria.
A seguito del passaggio in giudicato della sentenza del 24 maggio 2012, che aveva dichiarato estinti per prescrizione i delitti di truffa e falso addebitati all’imputato, il procedimento disciplinare era stato riavviato mediante richiamo alla originaria contestazione e, all’esito della audizione dell’incolpato, era stato disposto il licenziamento per giusta causa senza preavviso, sul rilievo che in almeno 4 dei 49 casi di sovrapposizione sussisteva incompatibilità assoluta fra le missioni, non giustificabile se non ipotizzando gravi falsità compiute nel corso dell’uno o dell’altro incarico, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
3 – La Corte ha ritenuto infondato il reclamo proposto dal Ministero perché, come evidenziato dal Tribunale all’esito del giudizio di opposizione, la amministrazione aveva violato il principio della necessaria immutabilità della contestazione, in quanto il licenziamento era stato disposto in relazione ad episodi specifici non richiamati nella lettera di avvio del procedimento disciplinare, che, oltre ad essere assolutamente generica, non faceva alcuna menzione della impossibilità di svolgere entrambe le attività dichiarate e della conseguente ritenuta falsità di almeno uno degli atti formati nello stesso giorno.
4 – La Corte territoriale ha poi escluso anche la fondatezza del reclamo proposto dal C. , poiché tutti gli atti formati in occasione delle missioni e le relative richieste di rimborso erano stati firmati dal reclamante, il quale provvedeva da solo ad organizzare la propria attività lavorativa, ivi comprese le trasferte. Ha osservato, inoltre, la Corte che la distanza, superiore a 500 Km, fra le due località escludeva che il C. avesse potuto svolgere le attività nella stessa giornata, tanto più che, non avendo il dipendente documentato l’uso del mezzo aereo per gli spostamenti, questi ultimi avrebbero richiesto via terra un arco temporale di 4 – 5 ore. Infine ha richiamato l’accertamento compiuto dai giudici contabili per evidenziare che gli orari delle missioni dichiarate erano comunque incompatibili, sicché, evidentemente, il C. aveva compilato richieste di rimborso non veritiere.
5 – La Corte di appello ha, inoltre, escluso che la condotta fosse solo colpevole ed ha anche ritenuto che il fatto non fosse riconducibile all’art. 13, comma 4 del CCNL 2006/2009, poiché nella specie non era configurabile una “manomissione” dei fogli di presenza, bensì una falsità nelle dichiarazioni, di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva adottata.
6 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sulla base di due motivi. C.R. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, affidato a due motivi, per censurare i capi della decisione relativi alla affermata sussistenza dei fatti ed alla sussumibilità degli stessi all’ipotesi prevista dall’art. 13, comma VI, del CCNL di comparto. Il Ministero ha resistito con controricorso alla impugnazione incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1 – Il ricorso principale denuncia, con il primo motivo, “violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto lavoratori, L. 300/1970; CCNL 2002/2003 del 12.5.2003 comparto ministeri; art. 115 c.p.c.” in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4 c.p.c.. Il ricorrente, trascritti nel loro contenuto essenziale gli atti del procedimento disciplinare, rileva che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, sussiste assoluta corrispondenza tra la contestazione degli addebiti e le motivazioni espresse nel provvedimento disciplinare, poiché in sede di riattivazione del procedimento l’amministrazione aveva espressamente richiamato la sentenza del Tribunale Ordinario di Roma e, quindi, il capo di imputazione che conteneva la analitica indicazione di tutte le condotte ritenute di rilievo penale e nel relativo elenco erano inclusi gli episodi in relazione ai quali la misura espulsiva era stata adottata. Aggiunge che nel corso della audizione svoltasi il 28 giugno 2012 il dipendente, assistito dal legale di fiducia, si era difeso proprie sulle plurime sovrapposizioni di missioni, dimostrando di avere piena consapevolezza degli addebiti. La Corte territoriale, quindi, aveva errato nel comparare tra loro solo la contestazione iniziale e l’atto conclusivo del procedimento, senza valutare la nota di riattivazione con la quale l’atto iniziale era stato specificato.
1.1 – Il secondo motivo denuncia la violazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 7 dello Statuto e della normativa contrattuale sul rilievo che il principio della necessaria corrispondenza fra fatto contestato e sanzione non rende illegittimo il licenziamento ogniqualvolta il datore di lavoro provveda solo alla specificazione di aspetti fattuali della condotta contestata, che non risulti modificata quanto alla materialità ed alla gravità. Precisa al riguardo il Ministero che la incompatibilità fra le missioni era già stata evidenziata nella contestazione originaria, nella quale era stato, inoltre, richiamato il verbale ispettivo i cui esiti erano stati posti nella piena conoscenza del C. .
2 – Il ricorso incidentale denuncia, con il primo motivo, “violazione e falsa applicazione degli articoli 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”. Rileva, in sintesi, il ricorrente che la attività svolta in data 18 gennaio 2002 presso la ditta Italbus di (OMISSIS) nonché presso l’Autoscuola di (OMISSIS) risultava attestata da atti formati dallo stesso C. nella sua qualità di pubblico ufficiale, atti rispetto ai quali non era mai stata proposta dalla amministrazione querela di falso. La Corte territoriale, pertanto, non poteva ricorrere al ragionamento presuntivo in presenza di una prova legale ex art. 2700 c.c., tra l’altro riscontrata anche dalle deposizioni testimoniali assunte durante la fase sommaria. Quanto, poi, alle ulteriori missioni il giudice di appello non aveva in alcun modo considerato che le stesse si erano protratte per più giorni, sicché ben avrebbe potuto il dipendente ultimare l’attività di collaudo nel corso della mattinata per poi svolgere in altra sede l’attività di esaminatore nel pomeriggio. Infine evidenzia che i fatti posti dalla Corte di Appello alla base della prova presuntiva non presentano i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge.
2.1 – Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione dell’art. 13 comma IV CCNL personale comparto ministeri 2006/2009, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”. Assume il ricorrente incidentale che la condotta andava eventualmente sussunta nell’ipotesi prevista dalla lettera g) dell’art. 13, comma IV, del CCNL di comparto, in quanto la condotta addebitata, ove ritenuta provata, avrebbe integrato una manomissione dei fogli di presenza o delle risultanze anche cartacee degli stessi, in relazione alla quale il contratto prevedeva una sanzione conservativa.
3 – Ragioni di priorità logica impongono di esaminare innanzitutto il ricorso incidentale con il quale il C. , sul presupposto della insussistenza del fatto e, comunque, della non riconducibilità dello stesso ad una delle ipotesi per le quali il contratto collettivo prevede la sanzione espulsiva, ha chiesto alla Corte, in via principale, di pronunciare ex art. 384, comma 2, c.p.c. e di riconoscere le tutele previste dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, o, in subordine, dal comma 5 dello stesso articolo, come modificato dalla legge 28 giugno 2012 n. 92. L’impugnazione incidentale, quindi, muove dalla ritenuta applicabilità al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, applicabilità affermata anche dai giudici di merito che, sia pure senza motivare sul punto, hanno fatto discendere dalla ritenuta violazione delle regole procedimentali le conseguenze previste dal comma 6 della norma modificata.
Ritiene, al contrario, il Collegio che la normativa invocata dal C. non sia applicabile alla fattispecie.
3.1 – Occorre premettere, che in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché sulla base del principio generale desumibile dall’art. 384 c.p.c., deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata o infondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente prospettata dalle parti e della quale si è discusso nei gradi di merito, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti esposti nel ricorso per cassazione, principale o incidentale, e nella stessa sentenza impugnata e fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto (in tal senso Cass. 14.2.2014 n. 3437; Cass. 17.4.2007 n. 9143; Cass. 29.9.2005 n. 19132).
È stato anche affermato da questa Corte che la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma, che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di impugnazione, nondimeno la censura motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perché impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione (Cass. 4.2.2016 n. 2217).
Nel caso di specie la tutela reintegratoria invocata con il ricorso incidentale è quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, sicché, per i principi di diritto sopra richiamati, la Corte deve innanzitutto procedere alla esatta qualificazione giuridica dei fatti e, quindi, alla individuazione della normativa applicabile alla fattispecie.
3.2 – Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nell’art. 51 del d.lgs 165 del 2001 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall’altro i commi 7 e 8 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 nonché la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e seguenti delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
La sentenza di questa Corte 25 novembre 2015 n. 24157 ha fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poiché, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dall’art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, ha ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l’impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto al primo ed al secondo comma dell’art. 18 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.
Il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere disatteso, giacché plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dall’art. 2 del d.lgs n. 165 del 2001.
Invero l’art. 1 della legge n. 92 del 2012, dopo aver previsto al comma 7 che “Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo.”, al comma 8 aggiunge che “Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto dei commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l’automatica estensione all’impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l’impiego privato (si pensi, ad esempio, all’art. 1, comma 2, del d.lgs n. 276 del 2003), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dall’art. 86 comma 8 del d.lgs. n. 276 del 2003, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato.
La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della legge n. 92 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (in particolare l’art. 2, comma 2, esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicché la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012.
Non è, questo, il caso della nuova disciplina del licenziamento, perché sulla estensione della stessa all’impiego pubblico nulla è detto nell’art. 1, con la conseguenza che, in difetto di una espressa previsione, non può che operare il rinvio di cui al comma 8.
Ciò comporta che, sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.
3.3 – Dette conclusioni, fondate sul tenore letterale della disciplina in commento, sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e sistematico che, nel rispetto della doverosa sintesi imposta dagli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., possono essere così riassunte:
a) la definizione delle finalità della legge n. 92 del 2012, per come formulata nell’art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l’uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
b) la formulazione dell’art. 18, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il d.lgs. 27.10.2009 n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;
c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel d.lgs n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell’art. 18 fa riferimento al solo art. 7 della legge n. 300 del 1970 e non agli artt. 55 e 55 bis del d.lgs citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate “ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 e seguenti c.c.”;
d) una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato, poiché, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24.10.2008 n. 351). Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41, 1 e 2 comma, della Costituzione, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.
3.4 – La ritenuta inapplicabilità della riforma all’impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nell’art. 51, comma 2, alla legge 20 maggio 1970 n. 300 “e successive modificazioni ed integrazioni”. Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore del T. U. nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l’art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966.
Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l’automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.
Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata.
Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.
In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere affermare, per le considerazioni tutte sopra esposte, che l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012, non è stato espunto dall’ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
3.5 – Resta fuori dal tema dibattuto, e che in questa sede viene rimeditato espressamente, l’indiscutibile immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando né nelle previsioni della legge 92 del 2012 (art. 1 commi 48 e seguenti) né nel corpo normativo di cui al d.lgs. 165 del 2001 ed anzi militando, per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 S.L., la espressa previsione dell’art. 1 comma 47 della legge del 2012.
3.5 – L’avere il ricorrente incidentale invocato una normativa sostanziale non applicabile al rapporto non esime, peraltro, la Corte dall’esame delle censure mosse alla sentenza impugnata, poiché il principio iura novit curia impone al giudice di ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purché il petitum e la causa petendi della domanda proposta restino immutati.
Nel caso di specie il ricorrente incidentale ha invocato la tutela reintegratoria sul presupposto della insussistenza dei fatti contestati e, comunque, della giusta causa, sicché la domanda formulata risulta compatibile con la disciplina effettivamente applicabile al rapporto.
4 – Il primo motivo del ricorso incidentale è, però, infondato, poiché non si ravvisa la denunciata violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c..
La Corte territoriale, per giungere a ritenere provate la inconciliabilità delle attività attestate dal C. come avvenute nella medesima giornata e la conseguente falsità degli atti formati dal ricorrente incidentale, ha valorizzato una pluralità di elementi, tutti indicati nella articolata motivazione, ed in particolare ha considerato:
a) la distanza, superiore a 500 km, esistente fra le due località, nelle quali il C. avrebbe svolto rispettivamente i collaudi richiesti dal Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi e gli esami di guida effettuati per conto dell’Ufficio Provinciale di Roma;
b) il mancato utilizzo del mezzo aereo per gli spostamenti;
c) la natura delle attività svolte nella medesima giornata ed il tempo richiesto da ognuna di esse;
d) gli orari dichiarati nelle richieste di rimborso, non compatibili con lo spostamento in altra località e con le attività ivi apparentemente svolte;
e) la circostanza che fosse lo stesso ricorrente incidentale ad organizzare in assoluta autonomia la propria attività, ivi comprese le trasferte.
4.1 – Questa Corte ha da tempo affermato che “le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione” (Cass. 11.5.2007 n. 10847 e negli stessi termini Cass. 27.10.2010 n. 21961 e Cass. 6.6.2012 n. 9108).
È stato anche evidenziato che nella prova per presunzioni non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità. Il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto va, quindi, accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Cass. 31.10.2010 n. 22656; Cass. 5.2.2014 n. 2632; Cass. 27.4.2016 n. 8324).
Il giudice del merito è solo tenuto ad esplicitare il criterio logico posto alla base della selezione degli indizi e le ragioni del suo convincimento, che deve risultare all’esito di una duplice valutazione: la prima, di tipo analitico, volta a selezionare gli elementi che presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; l’altra, di tipo sintetico, tendente ad una valutazione complessiva di tutte le emergenze in precedenza isolate, per accertare se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva. Detto giudizio di sintesi non è censurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico (Cass. 28.10.2014 n. 22801).
Ai principi di diritto sopra richiamati si è attenuta la Corte territoriale che, nel respingere il motivo di reclamo formulato dal C. , ha correttamente escluso che le presunzioni costituiscano un mezzo di prova relegato dall’ordinamento in un grado subordinato rispetto agli altri mezzi; ha indicato tutti gli elementi acquisiti al processo che, valutati complessivamente, concorrevano a far ritenere dimostrato il fatto ignoto, ossia la falsità delle attestazioni e delle richieste di rimborso formate dal reclamante; ha escluso che il ragionamento presuntivo potesse essere impedito dalla natura degli atti sottoscritti dal C. , evidenziando al riguardo che l’essenza della contestazione andava individuata proprio nell’avere formato atti non rispondenti al vero, sicché l’appellante non poteva giovarsi della sua qualità di funzionario pubblico.
4.2 – Anche la ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 2700 c.c., invocato dal ricorrente incidentale, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale, giudicando in fattispecie analoga, ha escluso che sia necessaria la querela di falso, quando oggetto del giudizio sia la responsabilità disciplinare del pubblico ufficiale autore dell’atto contenente una falsità ideologica.
È stato evidenziato, infatti, che “non appartiene all’ambito delle finalità dell’atto pubblico anche quella di influire sulla sfera giuridica personale del pubblico ufficiale autore dell’atto stesso, anche perché ciò determinerebbe una situazione di incompatibilità, non irrilevante ai fini della stessa validità dell’atto (cfr. art. 2701 c.c.)” (Cass. 22.6.2002 n. 9147 e la giurisprudenza ivi richiamata).
4.3 – Il motivo è, poi, inammissibile nella parte in cui censura la motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe errato nella valutazione della prova documentale (quanto alla durata delle missioni) e delle deposizioni testimoniali (in relazione agli orari nei quali le attività sarebbero state svolte).
Si tratta di doglianze che esulano dall’ambito del vizio di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c., poiché attengono alla ricostruzione dei fatti, che, per le sentenze pubblicate, come nella specie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”. Detto vizio, inoltre, non è denunciabile, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter ultimo comma c.p.c.).
La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dall’art. 1, commi da 58 a 60, della legge n. 92/2012, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. 29.10.2014 n. 23021).
5 – È infondato anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale il C. ha sostenuto che, in ogni caso, il fatto andava ricondotto alla previsione dell’art. 13, comma 4, lett. g), del CCNL 12.6.2003, come modificato dall’art. 27 del CCNL per il quadriennio 2006/2009.
Anche a voler prescindere dal rilievo che la disposizione contrattuale invocata è successiva all’epoca dei fatti, va detto che le parti collettive hanno previsto la sanzione disciplinare della sospensione del servizio in relazione a “fatti e comportamenti tesi all’elusione dei sistemi di rilevamento elettronici della presenza e dell’orario o manomissione dei fogli di presenza o delle risultanze anche cartacee degli stessi”. La condotta tipizzata (in relazione alla quale il successivo d.lgs 150 del 27.10.2009, non applicabile ratione temporis alla fattispecie, ha invece espressamente previsto la sanzione del licenziamento) è quella relativa alla falsa attestazione dell’orario di lavoro, derivante sia dalla “elusione” dei sistemi di controllo automatici sia dalla alterazione dei fogli di presenza.
Nel caso di specie, al contrario, le falsità commesse dal ricorrente, ritenute provate dalla Corte territoriale, vanno ben oltre la mera attestazione dell’orario di lavoro, poiché il licenziamento è stato intimato per avere il dipendente formato atti pubblici e richieste di rimborso non rispondenti al vero (quantomeno in parte), inducendo in errore l’Amministrazione quanto alla durata delle missioni e realizzando, in tal modo, un ingiustificato profitto in danno dell’ente.
La Corte territoriale ha, quindi, correttamente escluso che la condotta potesse essere sussunta nella previsione invocata dal reclamante.
6 – Il giudice di appello ha, poi, valutato la gravità del comportamento tenuto, ritenendo provati il carattere doloso dello stesso e la idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche in considerazione della qualità di funzionario pubblico rivestita e della natura e delicatezza delle mansioni svolte.
Il capo della sentenza non è stato specificamente censurato nel ricorso incidentale, sicché non possono essere apprezzate le doglianze contenute nella “memoria di costituzione di difensore aggiunto” dell’8 marzo 2016 e nella memoria ex art. 378 c.p.c.. Detti atti non possono integrare o ampliare il contenuto dei motivi di ricorso e con gli stessi non possono essere dedotte nuove censure né sollevate questioni nuove (Sez. U. n. 11097 del 15/05/2006; Cass. n. 28855 del 29/12/2005; Cass. n. 14570 del 30/07/2004).
Il ricorso incidentale va, pertanto, rigettato.
7 – I motivi del ricorso principale, da trattarsi congiuntamente perché connessi, sono, invece, fondati.
È opportuno premettere che il principio della immutabilità dei fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare è finalizzato, al pari di quello relativo alla necessaria specificità della contestazione, a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi.
Valorizzando la ratio del principio, questa Corte ha precisato che non si verifica una modifica della contestazione nel caso in cui la condotta contestata resti invariata e mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa, poiché in tal caso, ove non vengano in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta in alcun modo compromesso (Cass. 22.3.2011 n. 6499).
È stato anche affermato, e va qui ribadito, che il canone della specificità, nella contestazione dell’addebito, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, sicché deve ritenersi ammissibile la contestazione per relationem, in quanto consente all’incolpato l’esercizio del diritto di difesa, ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato, perché emersi nel contraddittorio con lo stesso, come accade nei casi in cui il procedimento disciplinare venga attivato in relazione a fatti già accertati in sede penale (Cass. 3 marzo 2010 n. 5115 e negli stessi termini Cass. 15.5.2014 n. 10662).
7.1 – Rileva, inoltre, il Collegio che allorquando, contestualmente alla contestazione, il datore di lavoro sospenda il procedimento in attesa della definizione del processo penale instaurato per i medesimi fatti, non risultano violati i principi della immutabilità e della specificità della contestazione se, venuta meno la causa di sospensione e riattivato il procedimento disciplinare, il datore di lavoro si avvalga degli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, comunque ricompreso in quello originario, e ciò faccia nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione.
Detto principio, per i procedimenti instaurati in epoca successiva alla entrata in vigore del d.lgs n. 150 del 2009, è desumibile dall’art. 55 ter del d.lgs n. 165 del 2001 nella parte in cui, al comma 4, fa riferimento al “rinnovo della contestazione dell’addebito”, in occasione del quale, evidentemente, la pubblica amministrazione potrà avvalersi degli elementi emersi in sede penale, visto che nel nuovo sistema la sospensione può essere disposta solo qualora ricorra una particolare complessità del fatto da accertare ed i dati raccolti dalla amministrazione non siano sufficienti per irrogare la sanzione.
Per i procedimenti ai quali non si estende la nuova normativa la possibilità di avvalersi di quanto emerso in sede penale per meglio circoscrivere la contestazione, discende dalla finalità stessa della sospensione, che mira non solo ad evitare un contrasto fra gli esiti dei due procedimenti, ma anche a consentire un più accurato accertamento dei fatti, tra l’altro effettuato dall’autorità giudiziaria, e, quindi, da soggetto imparziale, con le garanzie che l’ordinamento riconosce sia all’imputato che al soggetto sottoposto ad indagini.
7.2 – La Corte territoriale ha ritenuto violato il principio della immutabilità della contestazione all’esito della comparazione fra la missiva del 2 marzo 2004 (con la quale il procedimento penale era stato avviato e contestualmente sospeso, in quanto i fatti emersi a seguito di visita ispettiva erano stati segnalati anche alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma) e la lettera di licenziamento ed ha ritenuto la non corrispondenza fra fatto contestato e fatto posto a fondamento del recesso, perché nella originaria contestazione gli episodi non erano stati analiticamente indicati ed inoltre era stata sottolineata solo la sovrapposizione degli orari, senza fare cenno alla falsità degli atti ed alla possibilità che le attività dichiarate non fossero state svolte.
Così argomentando il giudice del merito non ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra sintetizzati, poiché non ha valutato il tenore della nota di riattivazione del procedimento ed il richiamo contenuto nella contestazione originaria al verbale ispettivo (in relazione al quale è mancato anche ogni accertamento sulla conoscenza che dello stesso il C. avesse all’epoca dell’avvio del procedimento), né ha considerato la missiva del 2.3.2004 nella sua interezza, non avendo chiarito se, in relazione alla descrizione della condotta contestata, potesse essere attribuito un qualche significato al richiamo fatto alla denuncia penale inoltrata.
Si impone, pertanto, la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, poiché la valutazione sulla asserita violazione del diritto di difesa del dipendente incolpato e, quindi, sulla fondatezza del reclamo proposto dal Ministero delle Infrastrutture, deve essere nuovamente effettuata dal giudice del merito, alla luce dei principi di diritto sopra indicati.
8 – Occorre a questo punto chiarire che nel giudizio di rinvio, anche qualora dovesse essere nuovamente accertata la violazione delle regole del procedimento, non potrà essere riconosciuta al C. una tutela diversa da quella meramente indennitaria, ritenuta applicabile dal Tribunale di Roma con la sentenza resa all’esito del giudizio di opposizione.
Il potere di qualificazione giuridica non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e, in sede di impugnazione, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l’appello, dagli artt. 329 e 346 c.p.c. e per il ricorso per cassazione dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato, in ragione del principio di specificità, dalle censure sollevate con i singoli motivi.
Nel giudizio di rinvio, poi, nel quale l’atto di riassunzione non ha natura di impugnazione perché volto solo alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata, non possono essere proposti dalle parti, né presi in esame dal giudice, motivi diversi da quelli che erano stati formulati nel primo giudizio d’appello, che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno (Cass. 8.11.2013 n. 25244).
Il Tribunale di Roma, accertata la violazione delle regole del procedimento disciplinare, ha ritenuto che dalla stessa dovessero discendere le sole conseguenze previste dall’art. 18, comma 6, della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e detto capo della sentenza non è stato oggetto di impugnazione, in via principale o incidentale, da parte del C. , che con il reclamo ha lamentato solo la erroneità della pronuncia di rigetto della domanda principale, fondata sulla asserita insussistenza del fatto.
Il C. , pertanto, non potrà giovarsi della cassazione della sentenza, per effetto della ritenuta fondatezza del ricorso principale del Ministero, per domandare nel giudizio di rinvio la tutela prevista dall’art. 18 della legge n. 300/1970, nel testo antecedente alla novella legislativa, essendo detta domanda preclusa dal disposto dell’art. 329, 2 comma, c.p.c..
9 – La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame delle questioni ancora controverse, pronunciando anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi ai principi di diritto enunciati ai punti 3, 7 e 8, e sintetizzati nei termini che seguono:
a) il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, ricompreso in quello originario, purché ciò avvenga nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione;
b) il principio della specificità della contestazione disciplinare non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi sicché è ammissibile la contestazione per relationem ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato;
c) ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs 30.3.2001 n. 165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla legge 28.6.2012 n. 92 all’art. 18 della legge 20.5.1.970 n. 300, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata legge n. 92 del 2012 resta quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma;
d) il potere del giudice di applicare alla fattispecie ricostruita la esatta regola di diritto, e quindi anche la normativa sul sindacato giurisdizionale sui licenziamenti, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l’appello, dagli artt. 329 e 346 c.p.c. e, per il ricorso per cassazione, dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale e rigetta l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

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