Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 24 marzo 2015, n. 5878

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4344-2012 proposto da:

(OMISSIS) SOCIETA’ COOPERATIVA P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

  • ricorrente –

contro

(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, giusta procura speciale notarile in atti;

– resistente con procura –

avverso la sentenza n. 662/2011 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 10/08/2011 R.G.N. 1589/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/01/2015 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per il rigetto.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(OMISSIS) impugno’ il licenziamento per giusta causa intimatole dalla (OMISSIS) soc. coop. per avere denominato alcuni file di lavoro con le locuzioni “merda” e “nuova merda”; radicatosi il contraddittorio il Giudice adito respinse il ricorso, ma la Corte d’Appello dell’Aquila, con sentenza del 9.6-11.8.2011, in accoglimento del gravame della lavoratrice, dichiaro’ l’illegittimita’ del licenziamento, con applicazione della tutela reale. A sostegno del decisum la Corte territoriale – osservo’ che la condotta della (OMISSIS), per quanto censurabile sotto il profilo della correttezza, non costituiva un’infrazione della disciplina del lavoro tanto grave, sia soggettivamente che oggettivamente, da ledere in maniera irreparabile la componente fiduciaria, essendo risultata episodica l’indicata sgradevole denominazione di documenti di lavoro, che non evidenziava un manifesto e ripetuto disprezzo al decoro e all’immagine aziendale, ne’ poteva annoverarsi nella fattispecie dell’insubordinazione; non essendo emersi altri abusi nell’utilizzo dei beni aziendali affidati alla lavoratrice, la vicenda, valutata nella sua complessita’, non giustificava, sotto il profilo della congruita’, l’adozione della massima sanzione espulsiva, potendo la condotta agita essere punita con una sanzione di tipo conservativo. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la (OMISSIS) soc. coop. ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi.

L’intimata (OMISSIS) ha depositato procura, partecipando alla discussione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’articolo 2119 c.c., nonche’ vizio di motivazione, deduce che la Corte territoriale era addivenuta “alla incoerente conclusione che il fatto non si fosse verificato”, risultando comunque la sentenza impugnata contraddittoria e illogica rispetto all’acquisito corredo probatorio. Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’articolo 2119 c.c., la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia sminuito l’esatta portata del fatto sotto il profilo oggettivo, caratterizzato dal disprezzo della lavoratrice per il proprio lavoro, e non abbia considerato che la condotta censurata era intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio del rapporto lavorativo e a seguito di una precedente contestazione disciplinare per altri fatti.

Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’eccezione di giudicato implicito sul capo relativo all’affermazione di responsabilita’ della lavoratrice, che non aveva impugnato la pronuncia di primo grado relativamente al fatto, contestando soltanto la gravita’ della sanzione applicata.

I tre mezzi, tra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

2. Deve anzitutto rilevarsi che, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, la Corte territoriale ha riconosciuto la sussistenza della condotta nella sua materialita’; ne’, conseguentemente, appare fondata la deduzione della violazione del giudicato interno relativamente all’accertamento del fatto storico su cui la vicenda si incentra.

2.1 Quanto teste’ osservato esclude altresi’ la sussistenza di vizi motivazionali relativi alla ricostruzione delle circostanze fattuali oggetto di giudizio, che la Corte territoriale ha colto nella loro effettiva materialita’ (rilevando, altresi’, che la condotta addebitata era stata implicitamente ammessa dalla stessa lavoratrice).

Risulta poi inammissibile il profilo di doglianza afferente alla dedotta mancata considerazione di un precedente disciplinare, del quale la ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non specifica i concreti accadimenti che lo avrebbero determinato, cosi’ da rendere impossibile qualsivoglia valutazione circa la sua eventuale pertinenza e rilevanza in relazione agli addebiti che hanno condotto al licenziamento impugnato.

2.2 Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr, ex plurimis, fra le piu’ recenti, Cass., nn. 5095/2011; 6498/2012), la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, e’ una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realta’ da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione e’ quindi deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realta’ sociale.

Il fatto addebitato, nei suoi risvolti oggettivi e soggettivi, quali accertati dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi logici, si connota oggettivamente come disdicevole e passibile di sanzione disciplinare (come la stessa sentenza impugnata, del resto, riconosce), ma non configura gli estremi della insubordinazione, ne’ quelli di una specifica inottemperanza alle mansioni affidate alla lavoratrice, ne’ e’ in se’ idoneo a ledere concretamente l’immagine della Societa’ datrice di lavoro e dei suoi organi; rimane, in sostanza, nell’ambito di una condotta volgare e certamente non commendevole, ma non assurge a gravita’ ed importanza tale da ledere, in termini di irrimediabilita’, il rapporto fiduciario e da giustificare quindi la sanzione espulsiva.

2.3 Nei distinti profili in cui si articolano, i motivi svolti vanno dunque disattesi.

3. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo sulla base della condotta defensionale effettivamente espletata, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in euro 1.600,00 (milleseicento), di cui euro 1.500,00 (millecinquecento) per compensi, oltre spese generali 15% e accessori come per legge.

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