Corte_de_cassazione_di_Roma

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 19 novembre 2014, n. 24668

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente
Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere
Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere
Dott. GHINOY Paola – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

sul ricorso 23654-2011 proposto da:

(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1611/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/03/2011 R.G.N. 10044/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/10/2014 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega (OMISSIS);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
1. (OMISSIS), dipendente dell’ (OMISSIS) s.p.a. (gia’ (OMISSIS) s.p.a.) dal 1/4/1975 in qualita’ di impiegato ed in servizio presso l’agenzia del (OMISSIS) in (OMISSIS), era licenziato in data 14/7/2005 a seguito di una contestazione disciplinare, costituita dall’aver divulgato informazioni riservate relative ad una polizza su pegno: in particolare aveva fornito ad un terzo l’indicazione del domicilio di una cliente della banca, titolare della polizza, cosi’ consentendone il riscatto ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe stato conseguito in caso di vendita del bene all’asta. Nella contestazione si faceva riferimento ad una dichiarazione confessoria resa dal lavoratore che avrebbe ammesso il fatto contestato e riconosciuta l’esistenza di un suo debito verso il terzo.
2. Il licenziamento era impugnato dinanzi al Tribunale di Roma, il quale rigettava la domanda. La sentenza era confermata dalla Corte d’appello di Roma che, con la sentenza qui impugnata, depositata in data 29 marzo 2011, riteneva irrilevante la prova dell’affissione del codice disciplinare; confermava il giudizio del tribunale in ordine all’irrilevanza della prova testimoniale chiesta dal ricorrente, a fronte della mancanza di contestazione e, comunque, della prova del fatto addebitato; condivideva la valutazione sullo stato di salute del lavoratore, inidoneo ad inficiare la volonta’ di rendere la dichiarazione confessoria; riteneva infine insussistente la denunciata violazione del diritto di difesa del lavoratore in quanto la dichiarazione era stata resa successivamente alla contestazione disciplinare.
4. Contro la sentenza il (OMISSIS) propone ricorso per cassazione sostenuto da un unico motivo, articolato in violazioni di legge e vizi di motivazione. La (OMISSIS) s.p.a. resiste con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria difensiva ex articolo 378 c.p.c..
5. Con l’unico motivo, il ricorrente assume la violazione e falsa applicazione di norme di diritto “in riferimento ai principi fondamentali in materia di procedimento disciplinare; all’articolo 2119 c.c., Legge n. 300 del 1970, articolo 7, alla Legge n. 604 del 1966, articolo 3 e articoli 2105 e 2106 c.c.”, nonche’ per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Lamenta che la Corte ha ritenuto legittima la sanzione sulla base di circostanze “in parte diverse da quelle contestate al ricorrente”: in particolare, la banca gli aveva addebitato solo ed esclusivamente di “aver fornito in data 19/5/2005 a tale sig. (OMISSIS) … gli estremi del domicilio della signora (OMISSIS) titolare della polizza “…”, senza precisare l’identita’ della persona che aveva poi contattato la titolare della polizza e neppure il nominativo di chi l’aveva riscattata. La Corte gli aveva invece attribuito il fatto di aver consentito a terzi di speculare ai danni di una persona in stato di bisogno che si era rivolta alla banca, nonche’ di aver rivelato a terzi notizie d’ufficio “per perseguire intenti speculativi proprio ai danni di una cliente dell’istituto di credito”. Assume che il non aver esplicitato il nome dei soggetti “terzi” aveva reso la contestazione dell’addebito lacunosa e cosi’ impedito l’esercizio del diritto di difesa. Aggiunge ancora che la sanzione espulsiva era sproporzionata rispetto al fatto addebitato. In definitiva il giudice non aveva ben valutato la gravita’ dei fatti in relazione alla loro portata oggettiva e soggettiva.
6. Il motivo, nella parte in cui prospetta le censure sotto il profilo della violazione e falsa applicazione di legge, e’ inammissibile in considerazione della genericita’ della sua illustrazione. Il ricorrente, invero, non indica quali siano le affermazioni della sentenza in contrasto con le norme indicate o con l’interpretazione che ad esse ne da la giurisprudenza o dove risieda l’eventuale vizio da parte del giudicante di erronea sussunzione della fattispecie concreta in una norma di legge. Esso pertanto e’ inammissibile, alla luce del principio piu’ volte affermato da questa Corte, secondo cui: “In materia di procedimento civile, nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’articolo 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilita’, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrice della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimita’ o dalla prevalente dottrina, cosi’ da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione” (Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., ord., 26 giugno 2013, n. 16038).
7. La censura di omessa motivazione e’ invece infondata. La sentenza ha ritenuto provato l’addebito, che e’ consistito “nel rivelare a terzi notizie di ufficio”: l’ulteriore proposizione “per perseguire intenti speculativi proprio ai danni di una cliente dell’istituto di credito””, che il ricorrente precisa non essere stata oggetto di contestazione disciplinare, non scalfisce il nucleo centrale della decisione, che e’ fondata su una valutazione di contrarieta’ ai doveri nascenti dal rapporto di lavoro della rivelazione di dati conosciuti in ragione della posizione del lavoratore all’interno dell’istituto di credito. La Corte ha anzi precisato, richiamando la motivazione del Tribunale, l’irrilevanza del motivo per cui la condotta violatrice era stata tenuta, sottolineandone tuttavia l’oggettiva gravita’ in considerazione dei suoi prevedibili (e di fatto verificatisi) sviluppi, costituiti dal riscatto della polizza, poco prima dell’asta, ad un prezzo di gran lunga inferiore rispetto alle offerte gia’ pervenute alla banca, con conseguente grave perdita economica per la cliente, titolare della polizza.
7.1. In altri termini, il giudizio espresso dalla Corte circa la sussistenza e la gravita’ dell’addebito non e’ fondato sulla presunta collusione tra il ricorrente e il terzo, e la stessa formulazione infinitiva della frase su cui si appuntano le censure del ricorrente (“per perseguire intenti speculativi…”) rende incerta l’individuazione del soggetto cui e’ attribuito il fine di lucro che, peraltro, la sentenza di primo grado, condivisa dai giudici di appello, imputa espressamente al terzo (pag. 28 del controricorso in cui e’ riportata la sentenza del Tribunale).
8. E’ poi inammissibile l’ulteriore aspetto della censura secondo cui la Corte non avrebbe valutato la lacunosita’ e la genericita’ della contestazione, nella parte in cui non recava il nominativo del soggetto che aveva contattato la titolare della polizza, ne’ di quello che l’aveva poi disimpegnata, e che tale genericita’ aveva leso i suoi diritti di difesa.
8.1. L’inammissibilita’ sta nel fatto che di tale questione non vi e’ cenno nella sentenza impugnata, la quale nel riportare puntualmente i motivi di gravame non fa alcun riferimento a tale questione. Era dunque onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilita’ per novita’ della censura, non solo di allegare l’avvenuta sua deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avrebbe fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicita’ di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione medesima (Cass., 18 ottobre 2013, n. 23675).
8.2. In realta’, da quanto emerge dallo stesso ricorso introduttivo del giudizio riportato in sentenza, l’identita’ del soggetto che aveva ricevuto l’informazione e di quello che ha poi riscattato la polizza era pacifica, sicche’ non si ravvisa, in concreto, alcuna violazione dei diritti di difesa del lavoratore, trattandosi di circostanza che, oltre ad essere incontestata, e’ evidentemente secondaria rispetto ai fatti fondanti la contestazione. Neppure risulta violato il principio di necessaria corrispondenza fra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati: tale circostanza, invero, non ricorre quando, come nel caso di specie, contestati fatti capaci di integrare l’astratta previsione legale (nella specie, la violazione del dovere di segretezza relativamente a notizie d’ufficio), il datore di lavoro alleghi nel corso del procedimento disciplinare circostanze confermative o ulteriori prove, su cui il prevenuto possa senza difficolta’ controdedurre (Cass., 12 marzo 2010, n. 6091; Cass. 25 febbraio 1993 n. 2287; Cass., 7 giugno 2003, n. 9167; Cass., 13 giugno 2005, n. 12644).
9. Infine e’ inammissibile la censura riguardante l’omessa motivazione in ordine alla sproporzione tra sanzione espulsiva e fatto addebitato, non avendo la parte indicato dove e quando la questione, di cui non vi e’ alcun cenno nella sentenza impugnata, sarebbe stata introdotta nel giudizio, e tale mancata indicazione costituisce violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.
10. Il ricorso deve dunque essere rigettato. In applicazione del criterio della soccombenza il (OMISSIS) deve essere condannato al pagamento delle spese processuali in favore della societa’ controricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge.

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