Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 ottobre 2017, n. 23846. L’assenza di un potere disciplinare del datore di lavoro non può di per sé comportare la negazione del vincolo di subordinazione

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La seconda censura e’ inammissibile, in quanto tende a dare ingresso ad una surrettizia revisione del giudizio di merito, attraverso il controllo in sede di legittimita’ della motivazione della sentenza gravata o indurre a prendere in considerazione sotto un’angolazione diversa, coincidente con le proprie ragioni, il materiale probatorio assunto dal giudice a fondamento della propria decisione.
Come affermano le Sezioni Unite (n.8053/2014), la riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, ad opera del Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54 conv. in L. n. 134 del 2012, ha comportato l’introduzione nell’ordinamento di un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
Nella censura in esame, la parte in realta’ deduce un “vizio di motivazione”, e non gia’ un “omesso esame”, per avere il giudice di appello negato erroneamente che le circostanze di svolgimento del rapporto fossero incompatibili con la parasubordinazione, coincidendo in tutto e per tutto, con lo schema legale tipico, formalmente prescelto dai contraenti, (Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articolo 61).
Gli ultimi tre motivi vanno trattati congiuntamente. Essi sono inammissibili, perche’ violano le regole di chiarezza e specificita’ dell’impugnazione, proponendo solo nominalmente una pluralita’ di censure, dalla cui successiva esplicazione non si apprezza ne’ la reciproca autonomia, ne’ il chiaro significato (Cass. Sez. Un., n. 9100/2015), bensi’ si arriva a contestare il convincimento del giudice – difforme da quello auspicato – mirando, cosi’ a un riesame del merito estraneo al giudizio di legittimita’.
In definitiva, il ricorso e’ infondato e pertanto va rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento nei confronti della controricorrente delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida in Euro 3.700 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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