Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 30 giugno 2017, n. 16295

Perché un licenziamento collettivo possa considerarsi legittimo è necessario che il datore non solo indichi i soggetti con cui recedere il rapporto, ma anche i criteri di selezione. In caso contrario il licenziamento è illegittimo

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

ordinanza 30 giugno 2017, n. 16295

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17474/2016 proposto da:

(OMISSIS) S.R.L., IN LIQUIDAZIONE in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1087/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 20/4/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/5/2017 dal Consigliere Dott. CATERINA MA ROTTA.

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

– con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Napoli, decidendo sul reclamo proposto dalla (OMISSIS) s.r.l., in liquidazione, avverso la sentenza del Tribunale di Benevento (che, nella fase di opposizione L. n. 92 del 2012, ex articolo 92, commi 51 e 57, aveva parzialmente accolto il ricorso L. n. 92 del 2012, ex articolo 1, comma 48 e ss., proposto da (OMISSIS), dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato all’esito di procedura ai sensi della L. n. 223 del 1991, e condannato la societa’ al risarcimento del danno pari a dodici mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto), confermava la pronuncia del Tribunale. Riteneva la Corte territoriale che la comunicazione alle OO.SS. di categoria non fosse stata inoltrata contestualmente a quella di recesso e neppure entro il termine di sette giorni previsto dalla L. n. 223 del 1991, articolo 4, comma 9, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 44, bensi’ oltre due mesi dopo; che a fronte della stringente sequenza temporale prevista dalla legge non fossero possibili sanatorie di sorta in caso di suo inadempimento essendo irrilevante la circostanza che il lavoratore fosse stato in grado di conoscere il criterio di scelta attraverso la comunicazione dell’avvio della procedura; che, peraltro, nella specie non vi era stato un licenziamento contestuale di tutti i lavoratori ma era stato introdotto un criterio di scelta consistente nel licenziare prioritariamente coloro che, entro il 27/9/2012, avessero manifestato la volonta’ di non opporsi al recesso, prevedendosi che agli stessi venisse corrisposto un incentivo economico da concordare; che la supposta non essenzialita’ del termine per la suddetta comunicazione contraddiceva la funzione di garanzia da attribuire alla stessa;

– per la cassazione di tale sentenza ricorre la (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione con due motivi;

– (OMISSIS) resiste con controricorso;

– la proposta del relatore, ai sensi dell’articolo 380 bis c.p.c., e’ stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

– solo il controricorrente ha depositato memoria;

– il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Considerato che:

– con il primo motivo la societa’ denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 4, commi 5 e 9, e della L. n. 223 del 1991, articolo 5, commi 3, in relazione alla L. n. 223 del 1991, articolo 24, comma 2. Si duole dell’attribuita essenzialita’ al termine per la comunicazione di cui al citato articolo 4, comma 9, in presenza di un licenziamento collettivo per cessazione dell’attivita’ in cui, essendovi l’azzeramento dell’intero organico, non vi era alcuna esigenza di comparazione tra i lavoratori; sostiene che in tale situazione il ritardo nell’invio della comunicazione non sarebbe giammai potuto risultare di pregiudizio. Rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di appello, non vi era stata alcuna scansione temporale dei licenziamenti che erano tutti avvenuti nella medesima data, senza la necessita’ di individuare criteri di scelta e che la cessazione dell’attivita’ non era mai stata messa in discussione dal lavoratore ovvero dalle stesse OO.SS. in sede di esame congiunto e in sede amministrativa;

– con il secondo motivo la societa’ denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 4, comma 9, anche in relazione all’articolo 152 c.p.c.. Lamenta che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto che il mancato rispetto del termine di sette giorni previsto dall’articolo 4, comma 9, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, potesse determinare l’inefficacia del recesso;

– entrambi i motivi sono infondati (cfr. Cass. 22 novembre 2016, n. 23736);

– va innanzitutto richiamata l’espressa previsione di cui alla L. n. 223 del 1991, articolo 24, comma 2, (“Le disposizioni richiamate nel comma 1 si applicano anche quando le imprese di cui al medesimo comma intendano cessare l’attivita’”), rimasta immutata pur a seguito dell’intervento modificativo di cui alla L. n. 92 del 2012. Il primo comma di detta disposizione fa espresso riferimento alle “disposizioni di cui all’articolo 4, commi da 2 a 12, e all’articolo 5, commi da 1 a 5” (si veda, per completezza, anche il Decreto Legge 20 maggio 1993, n. 148, articolo 8, comma 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 luglio 1993, n. 236, secondo il quale: “La disposizione di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, articolo 24, comma 1, ultimo periodo, si interpreta nel senso che la facolta’ di collocare in mobilita’ i lavoratori di cui all’articolo 4, comma 9, della medesima legge deve essere esercitata per tutti i lavoratori oggetto della procedura di mobilita’ entro centoventi giorni dalla conclusione della procedura medesima, salvo diversa indicazione nell’accordo sindacale di cui al medesimo articolo 4, comma 9”);

– come da questa Corte gia’ affermato nella decisione n. 14416 del 4 novembre 2000, facendo seguito alle pronunce a Sezioni unite 13 giugno 2000, n. 419 e 11 maggio 2000, n. 302: “i licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell’insediamento produttivo sono ora soggetti alla gran parte delle norme previste in materia di procedura per la dichiarazione di mobilita’. Come ha sottolineato la Corte costituzionale, anche la cessazione dell’attivita’ si vuole inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilita’ tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell’impresa sull’occupazione e cio’ in quanto la messa in mobilita’ viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori, di talche’ cessa assurge ad espressione di un principio generale, che non puo’ non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell’impresa perfino quando tale soppressione sia operata al di fuori d’ogni procedura (Sent. n. 6/1999). L’assimilazione logica della cessazione di attivita’, che la norma effettua alle ipotesi di licenziamento collettivo per riduzione o trasformazione di attivita’ o di lavoro’, contemplate nel precedente comma e’ del resto coerente con quanto emerge dai lavori preparatori: infatti il testo approvato originariamente dal Senato conteneva l’espressa previsione della inapplicabilita’ della normativa in esame all’ipotesi di cessazione dell’attivita’ di impresa per provvedimento dell’autorita’ giudiziaria; ma questa limitazione e’ stata soppressa nel testo approvato dalla Camera dei Deputati. Da cio’ puo’ trarsi un argomento ulteriore circa la volonta’ legislativa di estendere la latitudine della normativa in esame”;

– si ricorda, del resto, che la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 190/2000), nel ritenere non fondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 3, comma 4 bis, prima proposizione, della L. 23 luglio 1991, n. 223, aggiunto dal Decreto Legge 20 maggio 1993, n. 148, articolo 6, convertito in L. 19 luglio 1993, n. 236, nel testo risultante dalla modifica introdotta dal Decreto Legge 23 ottobre 1996, n. 542, articolo 7, convertito in L. 23 dicembre 1996, n. 649, sollevata, in riferimento all’articolo 3 Cost., comma 1, e articolo 11 Cost., ha rilevato che: “Alla materia dei licenziamenti collettivi e’ dedicata la direttiva comunitaria 75/129/CEE (successivamente modificata ed integrata dalle direttive 95/56/CEE e 98/5/CE), la quale (all’articolo 1) fornisce la definizione di licenziamento collettivo – ancorata a presupposti esclusivamente dimensionali (dell’azienda) e numerici (quale rapporto tra lavoratori licenziati e lavoratori occupati) – e delinea (ai successivi articoli 2 e 3) il campo di applicazione delle garanzie procedimentali; il quale e’ tendenzialmente generale perche’ le ipotesi escluse sono tipizzate ed elencate (rapporti di lavoro a termine; rapporti di impiego pubblico; rapporti di lavoro degli equipaggi di navi marittime), onde risulta esaltata l’ampia portata delle garanzie cosi’ introdotte. Alla direttiva e’ stata data attuazione nell’ordinamento interno con la L. 23 luglio 1991, n. 223, il cui articolo 24, regola il licenziamento collettivo conseguente a riduzione o trasformazione di attivita’ o di lavoro, o cessazione dell’attivita’;

– coerentemente con siffatta lettura costituzionale della richiamata normativa e’ stato ritenuto (cfr. Cass. 23 settembre 2011, n. 19496) che, in tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, ha portata generale ed e’ obbligatoria anche nell’ipotesi in cui, nell’ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell’attivita’ aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti (il tutto, ovviamente, sulla base della disciplina applicabile prima degli interventi legislativi di cui al Decreto Legislativo n. 148 del 20105, attuativo della L. n. 183 del 2014 – Jobs Act -);

– se il dato formale e’ imprescindibile, e’ stato anche da questa Corte precisato che, per effetto di tale estensione, la tutela opera nei limiti della compatibilita’ di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell’attivita’ aziendale e cioe’, ferma restando l’insindacabilita’ della libera scelta dell’imprenditore di cessare l’attivita’, al fine di consentire il controllo sindacale sulla effettivita’ della scelta medesima, cio’ allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell’attivita’ dissimuli la cessazione dell’azienda o la ripresa della attivita’ sotto diversa denominazione o in diverso luogo, e, dall’altro, la funzione di promuovere, attraverso la iscrizione nelle liste di mobilita’, il reimpiego dei lavoratori licenziati, anche attraverso l’organizzazione di corsi di qualificazione e riqualificazione professionale e l’utilizzo temporaneo in opere o servizi di pubblica utilita’ (cosi’ Cass. 7 giugno 2007, n. 13297; si vedano anche Cass. 3 luglio 2015, n. 13684 e, prima ancora, Cass. 26 luglio 2005, n. 15643);

– ferma restando, allora, la necessita’ della comunicazione di cui all’articolo 4, comma 9, che resta strettamente collegata, al pari di quella di cui al comma 3, della medesima norma, al controllo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale (dato testuale egualmente insuperabile e’ quello dell’articolo 5, comma 3, secondo cui il recesso di cui all’articolo 4, e’ inefficace qualora sia intimato “… in violazione delle procedure richiamate dall’articolo 4, comma 12”; quest’ultima disposizione prevede, a sua volta, che: “Le comunicazioni di cui al comma 9, sono prive di efficacia ove siano state effettuate senza l’osservanza… delle procedure previste dal presente articolo” – cfr. Cass. 1 luglio 2013, n. 16448 -), e’ stato ritenuto che il datore di lavoro, nell’ipotesi di cessazione dell’attivita’, e’ solo “dispensato dall’obbligo di specificare, nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, articolo 4, comma 3, cit., i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali, nel caso in cui sia disposta la chiusura di un settore o ramo d’azienda, deve essere applicato tenendo conto che, in tema di licenziamenti collettivi, ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta dettati dalla L. n. 223 del 1991, articolo 5, la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilita’ puo’ essere effettuata avendo riguardo soltanto ai lavoratori addetti al settore o al ramo interessato dalla chiusura o dalla ristrutturazione e non a quelli addetti all’intero complesso organizzativo e produttivo soltanto qualora si accerti che queste riguardino effettivamente in via esclusiva detto settore o ramo d’azienda ed esauriscano in tale ambito i loro effetti, non sussistendo inoltre in esso professionalita’ suscettibili di utilizzazione nel settore o ramo nel quale l’attivita’ viene mantenuta” – cosi’ Cass. 10 maggio 2003, n. 7169; si vedano anche Cass. 26 luglio 2005, n. 15643 e Cass. 17 aprile 2014, n. 8971 nonche’ la gia’ citata Cass. 7 giugno 2007, n. 13297 -). E’ stata, altresi’, individuata una incompatibilita’ con riferimento alle conseguenze della dichiarazione di inefficacia del recesso per mancata procedimentalizzazione nell’ipotesi di cessazione dell’attivita’ aziendale, nella quale solo non puo’ essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro dovendo la pronuncia limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno – si veda Cass. 19 dicembre 2008, n. 29831 -;

– pur con i suddetti correttivi interpretativi, e’ tuttavia sempre rimasta ferma la necessita’ del rispetto del dato formale e della cadenza procedimentale specificandosi, in particolare, che “la sanzione dell’inefficacia consegue anche nel caso di violazione della prescrizione di cui all’articolo 4, comma 9” – cfr. gia’ Cass. 14 novembre 1998, n. 11480 e numerose successive conformi, tra cui, in particolare le gia’ citate Cass., S.U., 11 maggio 2000, n. 302 e Cass. 1 luglio 2013, n. 16448) e tale vizio non e’ non e’ suscettibile di sanatoria ex post (arg. ex Cass. 11 luglio 2007, n. 15479). Si consideri, a tale ultimo riguardo, che anche la legge n. 92 del 2012 ha inciso solo sulla fase iniziale della procedura di informazione e consultazione consentendo ora espressamente la sanatoria di eventuali vizi della comunicazione di apertura della procedura medesima (articolo 1, comma 45, che incide sulla L. n. 223 del 1991, articolo 4, comma 12) -;

– e’ stato da questa Corte altresi’ precisato (cfr. Cass. 22 marzo 1999, n. 2701) che “la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilita’, con la puntuale indicazione della modalita’ con la quale sono stati applicati i criteri di scelta, assume un’importanza decisiva per il controllo dell’esercizio dei poteri datoriali, fissando definitivamente nei termini indicati dalle comunicazioni la motivazione del singolo licenziamento. D’altro canto, la comunicazione ai soggetti esterni indicati dalla norma svolge la necessaria funzione di manifestare le ragioni delle scelte dell’imprenditore in quanto rilevanti in una dimensione collettiva, e non apprezzabili nell’ambito del singolo rapporto di lavoro; solo in questa dimensione e’ possibile un’effettiva verifica del rispetto dei criteri di scelta”. E’ stata anche sottolineata la diversita’ di contento e di finalita’ delle due comunicazioni previste dall’articolo 4, comma 9, il che esclude che l’una possa rendere superflua l’altra (si veda Cass. 8 marzo 2006, n. 4970 secondo cui: “Il tenore letterale, nonche’ la ratio della L. n. 223 del 1991, articolo 4, comma 9, conducono a ritenere che la prima comunicazione (al singolo lavoratore) e la seconda (agli Uffici del lavoro e alle associazioni di categoria) hanno contenuto e finalita’ differenti. In particolare, la prima comunicazione – da redigersi in forma scritta – deve contenere solo la notizia del recesso, senza la necessita’ di alcuna motivazione; la contestuale comunicazione all’Ufficio del lavoro, invece, deve includere anche i dati relativi all’elenco dei lavoratori collocati in mobilita’, con l’indicazione per ciascun soggetto del nome, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’eta’, del carico di famiglia, nonche’ la puntuale indicazione delle modalita’ con le quali sono stati applicati i criteri di scelta. Conseguentemente, deve escludersi che la contestualita’ richiesta dalla menzionata norma (ora il termine di sette giorni) sia prevista in funzione della conoscibilita’ della motivazione da parte del lavoratore”;

– ed allora e’ chiaro come, in tale sistema delineato dal legislatore, l’esatto adempimento degli obblighi procedimentali posti a carico del datore di lavoro assolva anche ad una funzione di tutela del singolo lavoratore: “in particolare la comunicazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare e delle relative modalita’ applicative (anche se non fatta al lavoratore personalmente) gli consente di verificare la legittimita’ del recesso stesso e quindi di valutare l’opportunita’, o meno, di impugnarlo, risultando del resto cristallizzate le ragioni della scelta a se’ sfavorevole, con significativi effetti di tutela non dissimili da quelli svolti dalla contestazione dell’addebito nel licenziamento disciplinare e della comunicazione dei motivi del licenziamento individuale in regime di stabilita’ del rapporto” – cosi’ la gia’ citata Cass. n. 2701/1999 -. Cio’ e’ tanto piu’ evidente sol che si consideri che un criterio di scelta ben puo’ essere, nell’ipotesi di cessazione dell’attivita’, quello che operi uno scansionamento nel tempo dei licenziamenti e che la necessita’ della relativa comunicazione non puo’ dipendere, come pretenderebbe la ricorrente, da una valutazione (ex posi) della contemporaneita’ delle comunicazioni di recesso a tutte le unita’ ancora alle dipendenze della societa’ e che, in ogni caso, lo scopo della comunicazione e’ anche quello di consentire la compilazione delle liste di mobilita’ per la fruizione da parte dei lavoratori licenziati della relativa indennita’;

– sulla ulteriore questione in disamina, l’indirizzo di questa Corte e’ consolidato (da ultimo: Cass. 5 febbraio 2016, n. 2322; Cass. 4 febbraio 2016, n. 2206; Cass. 8 gennaio 2016, n. 157; Cass. 28 ottobre 2015, n. 22024, con ampio richiamo in motivazione di precedenti conformi, quali Cass. n. 8680/15; Cass. n. 16448/13; Cass. n. 7490/11; Cass. n. 7407/10; Cass. n. 16776/09; Cass. n. 1722/09; Cass. n. 15898/05) nell’escludere una nozione elastica di contestualita’ della comunicazione in esame, per l’esigenza, secondo la sua ratio, di rendere visibile e quindi controllabile dalle associazioni di categoria, oltre che dagli uffici pubblici competenti, la corretta applicazione della procedura con riferimento ai criteri di scelta seguiti ai fini della collocazione in mobilita’, quale indispensabile presupposto per la tutela giurisdizionale riconosciuta al singolo dipendente. Ne’ ad escludere che la contestualita’ prescritta dalla norma sia in funzione anche della conoscibilita’ del corretto esercizio del potere da parte dei singoli dipendenti puo’ valere la considerazione che la motivazione del recesso, nemmeno prescritta dalla L. n. 604 del 1966, nel caso di licenziamenti individuali, a maggior ragione non sia configurabile in materia di licenziamenti collettivi, ove il lavoratore si trova in una situazione di minore debolezza contrattuale, per la presenza di penetranti controlli delle organizzazioni sindacali e degli uffici pubblici (Cass. 8 marzo 2006, n. 4970), dal momento che la tutela collettiva assicurata dalla procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore non esclude certo, pur nell’ambito dei licenziamenti collettivi, la tutela individuale, rappresentando la comunicazione congiunta prevista dalla norma in esame uno specifico termine di collegamento fra il momento collettivo e quello individuale (Cass. 1 dicembre 2010, n. 24341). Sicche’, nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimita’ non trova spazio una nozione elastica del requisito di contestualita’, poiche’ essa contraddice la funzione di garanzia dei lavoratori licenziati attribuita alle comunicazioni da inviare alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro e si rileva incoerente con il disegno normativo contenuto nella L. n. 223 del 1991. Ne risultano esaltati i connotati di rigidita’ della procedura, con la conseguenza che “la riscontrata violazione determina di per se’, ai sensi della L. n. 223 del 1991, articolo 5, comma 3, l’inefficacia del licenziamento” (cosi’ Cass. 29 aprile 2015, n. 8680);

– alla luce dei rigorosi principi enunciati e della funzione di garanzia delle comunicazioni previste dalla L. n. 223 del 1991, articolo 4, comma 9, risulta allora corretta l’interpretazione dei giudici di appello che hanno ritenuto risolutivo ai fini della violazione della norma procedurale in esame il mancato rispetto del termine di sette giorni di cui alla intervenuta modifica legislativa (articolo 1, comma 44, e dall’articolo 2, comma 72, lettera d), L. 28 giugno 2012, n. 92: “Alla L. 23 luglio 1991, n. 223, articolo 4, comma 9, al secondo periodo, la parola: contestualmente e’ sostituita dalle seguenti: entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi e dall’articolo 2, comma 72, lettera d) della medesima legge: Alla L. 23 luglio 1991, n. 223, articolo 4, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1, le parole: le procedure di mobilita’ sono sostituite dalle seguenti: la procedura di licenziamento collettivo”) che, lungi dall’avere carattere dirimente non e’ meno cogente della precedente contestualita’, secondo l’interpretazione data da questo giudice di legittimita’;

– ne’ fondatamente la ricorrente richiama le decisioni di questa Corte n. 5942 del 24 marzo 2004 e n. 10187 del 20 novembre 1996 a sostegno della pretesa irrilevanza della tardivita’ della comunicazione evidenziando che la stessa non avrebbe impedito alle associazioni sindacali di categoria di esercitare il controllo sulle corrette modalita’ di esercizio del recesso, trattandosi di precedenti superati da numerose decisioni successive di segno contrario (si vedano, tra le altre, Cass. 23 gennaio 2009, n. 1722; Cass. 17 luglio 2009, n. 16776; Cass. 31 marzo 2011, n. 7490; Cass. 26 marzo 2010,n. 7407; Cass. 16 luglio 2013, n. 17363; Cass. 9 ottobre 2013, n. 22958);

– d’altro canto, opinare senz’altro la sufficienza ai fini del rispetto della tutela di cui all’articolo 4, comma 9, della non contestazione della scelta imprenditoriale di cessare l’attivita’ (che si assume non essere stata mai messa in discussione dal lavoratore ovvero dalle OO.SS. in sede sindacale o in sede amministrativa), significa non solo elidere del tutto l’iter minuziosamente dettato dal legislatore, ma anche configurare in via di interpretazione una forma alternativa, che la legge stessa non contempla;

– la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione degli indicati principi;

– ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’articolo 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo;

– conclusivamente, essendo da condividere la proposta del relatore, il ricorso va rigettato;

– la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

– va dato atto dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la societa’ ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15% da corrispondersi all’avvocato (OMISSIS), antistatario.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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