Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza n. 10682 del 7 marzo 2013
Considerato in fatto
In data 27.06.2011 il pubblico ministero presso il Tribunale di Genova aveva chiesto al G.I.P. di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, ai sensi dell’art. 322 ter c.p., di beni patrimoniali nella disponibilità. di S. M. sino alla concorrenza dell’importo di euro 67.113,00, in relazione al reato di cui all’art. 10 ter d.lvo 74/00.
Il G.I.P. rigettava la richiesta. Il pubblico ministero proponeva appello. Il Tribunale in sede di riesame, con ordinanza del 7 novembre 2011, in accoglimento dell’appello, disponeva il sequestro sui beni nella disponibilità dello S. fino alla concorrenza della somma di euro 67.113,00.
Avverso tale provvedimento il difensore dello S. proponeva ricorso in cassazione.
La Corte di Cassazione, con sentenza del 9 maggio 2012, annullava l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Genova.
Il Tribunale del riesame di Genova, in data 19.11.2012, decidendo su rinvio della Corte di cassazione, disponeva il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni intestati a S. M.
Secondo il Tribunale del riesame né il G.I.P., ne lo stesso Tribunale avrebbero potuto accertare la circostanza che le somme corrispondenti al profitto del reato si trovassero ancora, al momento della richiesta di sequestro per equivalente proposta dal pubblico ministero, nelle casse della società di cui lo S. era legale rappresentante, atteso che la predetta società era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Genova già in data 21.04.2010; in epoca, dunque, precedente alla richiesta di sequestro del pubblico ministero.
Avverso tale provvedimento proponeva ricorso in cassazione M. S., a mezzo del suo difensore, chiedendone annullamento per i seguenti motivi:
1) violazione di legge ai sensi dell’art.606 lett.b) e c) c.p.p. in relazione all’art.627 n.3 c.p.p., per avere omesso il Tribunale del riesame di adeguarsi in sede di rinvio all’annullamento disposto dalla Corte di Cassazione in procedimento instaurato a seguito di ricorso avverso ordinanza dello stesso Tribunale per il riesame.
2) contraddittorietà, valutabile ex art. 606 c.p.p., tra l’ordinanza impugnata e la sentenza resa dalla corte di cassazione sulla stessa questione e tra le stesse parti.
3) violazione di legge ex art. 606 lett. b) c.p.p. in relazione all’art. 322 ter c.p. e al combinato disposto degli articoli 240 II comma c.p. e 321 II comma c.p.p..
4) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 lett.e) c.p.p.. Secondo la
difesa il Tribunale del riesame non si era uniformato al principio di diritto indicato nella sentenza di annullamento con rinvio della Corte di cassazione, in quanto il provvedimento impugnato, dando per pacifica la impossibilità di procedere al sequestro diretto del profitto del reato, a suo avviso non praticabile, non aveva tenuto in alcun conto la censura mossagli nella sentenza di annullamento, e cioè che lo stesso non aveva mai formato oggetto di richiesta da parte del pubblico ministero. Riteneva poi la difesa che neppure il fallimento della società, dichiarato dopo che si era verificata l’omissione costituente reato, avrebbe impedito un provvedimento di sequestro eseguito sul patrimonio della stessa presso il suo curatore, provvedimento che avrebbe consentito la partecipazione, verosimilmente in via privilegiata, al riparto dei beni con gli altri creditori. Ciò nonostante non risultava che mai fosse stata fatta dal pubblico ministero una richiesta di sequestro in forma specifica, o quanto meno di importo equivalente, sui beni della società.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
La Corte di Cassazione ha ritenuto testualmente che: ”nella specie i giudici di merito hanno accertato in punto di fatto che il profitto del reato, costituito dalle somme corrispondenti alle ritenute di cui era stato omesso il versamento al fisco, si trovava ancora nelle casse della società che di tale profitto era stata l’unica beneficiaria per l’intero ammontare. Per poter procedere pertanto (al sequestro preventivo finalizzato) alla confisca per equivalente di beni diversi nella disponibilità del reo occorreva accertare, motivando adeguatamente sul punto, che non era possibile la confisca diretta presso la società della somma pari al profitto del reato. L’ordinanza impugnata invece manca totalmente di motivazione sulla presenza di questo presupposto necessario per procedersi al sequestro per equivalente, avendo erroneamente ritenuto che questa impossibilità potesse consistere nel mero fatto che il pubblico ministero non aveva chiesto il sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto”. Per tali motivi questa Corte aveva annullato l’ordinanza impugnata, ravvisando sia mancanza di motivazione, sia violazione di legge.
Tanto premesso si osserva che il provvedimento del Tribunale del riesame oggi impugnato ha ritenuto l’impossibilità di disporre il sequestro preventivo in via diretta sulle somme costituenti il profitto del reato in considerazione del fatto che la società in questione era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Genova già in data 21.04.2010, in epoca quindi precedente alla richiesta di sequestro del pubblico ministero. Secondo il Tribunale del riesame quindi l’impossibìlità di disporre il sequestro preventivo in via diretta non derivava dalla mancata richiesta di sequestro in forma specifica da parte del pubblico ministero, bensì dall’avvenuto fallimento e tale situazione aveva legittimato il pubblico ministero a chiedere al G.I.P. il sequestro per equivalente, finalizzato alla confisca ex art. 322 ter c.p..
Tale decisione appare pertanto fondata su di una valutazione di merito del giudice di rinvio, non sindacabile in sede di legittimità, che ha ritenuto che, allo stato, non fosse utilmente perseguibile il sequestro preventivo in forma diretta, in considerazione dello stato di fallimento in cui versava la società che faceva ritenere inutile tale provvedimento cautelare.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 20.02.2013
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