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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV

SENTENZA 7 settembre 2015, n.36039

Relatore dott. Claudio D’Isa

Ritenuto in fatto

A.G. ricorre per cassazione avverso la sentenza, indicata in epigrafe, della Corte d’appello di Palermo che, su appello del Procuratore Generale presso la stessa Corte, in riforma di quella di assoluzione, in ordine al delitto di cui all’art. 589 cod. pen. con violazione delle norme sulla disciplina stradale, emessa dal locale Tribunale il 21.10.2013, lo ha ritenuto responsabile del delitto contestato e, con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo ha condannato alla pena di mesi dieci di reclusione.

In breve il fatto per una migliore intelligenza dei motivi posti a base del ricorso.

Il giorno (omissis) , alle ore 10,45 circa, l’imputato, alla guida di un autocarro, nel mentre percorreva, in retromarcia, la Via (omissis) , investiva una donna anziana, M.C. , passandole sopra con le ruote gemelle posteriore di destra. Il Tribunale evidenziava, secondo gli accertamenti effettuati dalla Polizia Municipale, che, con ogni probabilità la persona offesa (come le accadeva sovente per le sue precarie condizioni di salute) aveva perso l’equilibrio mentre era intenta a passeggiare sulla strada e, giacendo sulla sede stradale, era stata investita dal mezzo, questo, nella parte posteriore, non aveva riportato alcun segno di contatto, per cui si escludeva che vi era stato un precedente urto tra l’autocarro e la donna.

Quanto alla condotta di guida dell’A. , il primo giudice aveva evidenziato che, come da lui riferito, aveva controllato che posteriormente al veicolo non ci fossero ostacoli e di avere poi proceduto, controllando sempre gli specchietti laterali di destra e di sinistra, a fare retrocedere il mezzo sino a quando non aveva avvertito ‘una specie di dosso’, ed, una volta sceso dall’autocarro, si era reso conto che si trattava del corpo di una donna anziana.

E, dunque, per il Tribunale, poiché non era stata provata in capo al conducente la violazione di una specifica regola cautelare prevista dal Codice della Strada e, poiché non era stato acquisito alcun elemento certo in ordine alla violazione di un dovere di ispezionare la strada che stava per percorrere, e, poiché non erano stati acquisiti elementi certi in ordine all’iniziale posizione del pedone, non poteva escludersi che si era verificata una situazione imprevedibile dall’autista governabile.

Diversamente, la Corte d’appello, accogliendo le censure mosse alla sentenza di primo grado dal Procuratore Generale, tenuto conto della situazione dei luoghi in cui ebbe a verificarsi il sinistro (vale a dire, in una strada stretta, senza marciapiedi e con autovetture parcheggiate ai lati, tanto da lasciare appena lo spazio per il transito in senso lineare del furgone dell’imputato) e, considerata la strumentazione della quale era fornito l’autocarro condotto dall’imputato (non munito di videocamera posteriore, ma solo di specchietti laterali), ha ritenuto che non è dubitabile che l’A. , in quanto costretto, per uscire dalla via (OMISSIS) , a procedere a retromarcia, dovesse, nell’effettuare tale pericolosa manovra, costantemente sincerarsi che dietro al proprio automezzo, lungo la direzione intrapresa (a marcia indietro), non si trovassero altri utenti della strada.

E precisa che, in tal senso, essendo evidente che, ove l’impiego della strumentazione a disposizione dell’imputato, cioè i soli specchietti laterali, stante la pacifica inidoneità degli stessi a coprire l’intera area retrostante il mezzo, non avesse potuto garantire l’assenza di ostacoli o di altri utenti della strada, l’A. avrebbe dovuto necessariamente avvalersi dell’ausilio di altra persona (che controllando il tratto di strada che l’automezzo si stava accingendo a percorrere, lo potesse rassicurare sull’assenza di pericoli ed in particolare di pedoni), ovvero – ove tale aiuto non fosse stato conseguibile astenersi dal compiere la manovra di retromarcia, almeno in attesa che si verificassero le condizioni per poterla effettuare senza rischi.

L’A. , con il primo motivo, denuncia la violazione degli artt. 589 e 43 cod. pen.. Argomenta che, in ragione del concomitante comportamento imprevedibile della persona offesa (soggetto non autosufficiente per l’età e per le sue condizioni di salute) nel caso di specie deve trovare applicazione il ‘principio di affidamento’, che la Corte d’appello non ha minimamente considerato, ed, ancorché abbia evidenziato che l’A. , procedendo in retromarcia, non aveva altro modo per uscire dalla strada pur utilizzando gli specchietti, censura la condotta di guida dell’imputato in quanto, essendo privo di strumenti che gli avrebbero potuto garantire la visuale della parte posteriore dell’autocarro o non avendo chiesto la collaborazione di altra persona che lo guidasse in sicurezza nella detta manovra, avrebbe dovuto astenersi dal porla in essere.

Ebbene, per il ricorrente, la Corte dimentica che il codice della Strada prescrive norme che estendono al massimo l’obbligo di attenzione e prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari, norme (art. 142 1 191 del C.d.S.) che sono state tutte rispettate dall’A. .

Contestualmente, non si tiene conto della norma di cui all’art. 190 del C.d.s. che impone ai pedoni, nell’attraversare la carreggiata, di servirsi degli attraversamenti pedonali, e, qualora non esistano, di attraversarla, solo in senso perpendicolare, con l’attenzione necessaria ad evitare situazioni di pericolo per sé o per altri.

Orbene, per il caso di specie, sulla base degli accertamenti effettuati dalla P.G., è rimasto provato che la donna anziana, verosimilmente, è caduta sulla sede stradale per aver perso l’equilibrio, ed, in tale posizione, essa non poteva essere avvistata dal conducente dell’autocarro in retromarcia, trattasi di una circostanza del tutto imprevedibile. Tutti gli automezzi hanno una parte posteriore non visibile al guidatore, il quale, nell’effettuare la manovra di retromarcia, si ‘affida’ che nessun soggetto – come nel caso di specie – giaccia disteso per terra.

Con il secondo motivo si denuncia altra violazione di legge per non essere stata ammessa una prova decisiva con riferimento all’accertamento dell’esatta individuazione della dinamica del sinistro ed, in particolare, della condotta tenuta dal pedone. Sul punto si era chiesto disporsi consulenza tecnica per verificare se il conducente avrebbe potuto avvedersi della vittima distesa per terra nella fase di retromarcia e se ciò era effettivamente possibile.

Considerato in diritto

I motivi esposti sono infondati e determinano il rigetto del ricorso.

Con riguardo alla primaria censura, effettivamente, in ragione del concomitante comportamento colposo della persona offesa (indipendentemente dall’accertare se la sua caduta sulla sede stradale sia da addebitare a malore o ad imprudenza, essendo certo che essa la percorreva al momento dell’incidente e non vi erano attraversamenti pedonali), il Collegio deve affrontare l’esame della complessa questione teorica, ricca di implicazioni applicative, proposta dal ricorrente. In breve, si tratta di stabilire se il principio di affidamento trovi applicazione nell’ambito dei reati colposi commessi a seguito di violazione di norme sulla circolazione stradale.

Il principio di affidamento costituisce applicazione del principio del rischio consentito: dover continuamente tener conto delle altrui possibili violazioni della diligenza imposta avrebbe come risultato di paralizzare ogni azione, i cui effetti dipendano anche dal comportamento altrui. Al contrario, l’affidamento è in linea con la diffusa divisione e specializzazione dei compiti ed assicura il migliore adempimento delle prestazioni a ciascuno richieste. Nell’ambito della circolazione stradale esso assicura la regolarità della circolazione, evitando l’effetto paralizzante di dover agire prospettandosi tutte le altrui possibili trascuratezze. Il principio, d’altra parte, si connette pure al carattere personale e rimproverabile della responsabilità colposa, circoscrivendo entro limiti plausibili ed umanamente esigibili l’obbligo di rapportarsi alle altrui condotte: esso è stato efficacemente definito come una vera e propria pietra angolare della tipicità colposa. Pacificamente, la possibilità di fare affidamento sull’altrui diligenza viene meno quando l’agente è gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza nei confronti di terzi; o, quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività.

La tendenza della giurisprudenza di legittimità è quella di escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull’altrui correttezza. Si afferma, così, che, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente. In conseguenza, è stata confermata l’affermazione di responsabilità in un caso in cui la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l’auto in prossimità dell’incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l’autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all’obbligo di concedere la precedenza (Da ultimo Cass. IV, 28 marzo 1996, Rv. 204451). Su tali basi si è affermato, ad esempio, che anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l’automobilista deve accertarsi della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell’attraversamento (Cass. IV, 1.8 ottobre 2000, Rv. 218473); e che l’obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente (Cass. IV, 19 giugno 1987, Rv. 176415).

In qualche caso a tale ampia configurazione della responsabilità è stato apposto il limite della imprevedibilità (Cass. IV, 24 settembre 2008 Rv. 241476), che talvolta si richiede sia assoluta (Cass. IV, 3 giugno 2008 Rv. 241004). L’obbligo di moderare adeguatamente la velocità in relazione alle caratteristiche del veicolo o di procedere con assoluta prudenza in ragione delle condizioni ambientali deve essere inteso nel senso che il conducente deve essere non solo sempre in grado di padroneggiare assolutamente il veicolo in ogni evenienza, ma deve anche prevedere le eventuali imprudenze altrui e tale obbligo trova il suo limite naturale unicamente nella normale prevedibilità degli eventi, oltre il quale non è consentito parlare di colpa (Cass. IV, 8 marzo 1983, Rv. 158790).

Si tratta allora di comprendere se l’atteggiamento rigorista abbia una giustificazione o debba essere invece temperato con l’introduzione, entro limiti ben definiti, del principio di affidamento.

Senza dubbio quello della circolazione stradale è un contesto meno definito di quello del lavoro in equipe (con riferimento alla colpa professionale dei medici), ove il principio in parola trova pacifica applicazione. Si configura, infatti, un’impersonale, intensa interazione che mostra frequenti violazioni delle regole di prudenza. D’altra parte, il codice della strada presenta norme che sembrano estendere al massimo l’obbligo di attenzione e prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari. Ad esempio, l’art. 141 impone di regolare la velocità in relazione a tutte le condizioni rilevanti, in modo che sia evitato ogni pericolo per la sicurezza; e di mantenere condizioni di controllo del veicolo idonee a fronteggiare ogni ‘ostacolo prevedibile’. L’art. 145 pone la regola della ‘massima prudenza’ nell’impegnare un incrocio. L’art. 191 prescrive la massima prudenza nei confronti dei pedoni, sia che si trovino sugli appositi attraversamenti, sia che abbiano comunque già iniziato l’attraversamento della carreggiata. Tali norme tratteggiano obblighi di vasta portata, che riguardano anche la gestione del rischio connesso alle altrui condotte imprudenti. D’altra parte, come si è accennato, le condotte imprudenti nell’ambito della circolazione stradale sono tanto frequenti che esse costituiscono un rischio tipico, prevedibile, da governare nei limiti del possibile.

Tali norme, tuttavia, non possono essere lette in modo tanto estremo da enucleare l’obbligo generale di prevedere e governare sempre e comunque il rischio da altrui attività illecita, vi sono aspetti della circolazione stradale che per forza implicano un razionale affidamento: di fronte ad una strada il cui il senso di circolazione sia regolato non si può pretendere che l’automobilista si paralizzi nel timore che alcuno possa non attenersi a tale disciplina.

Insomma, un’istanza di sensatezza del sistema e di equità induce con immediatezza a cogliere che il principio di affidamento debba essere in qualche guisa riconosciuto nell’ambito della circolazione stradale. La soluzione contraria non solo sarebbe irrealistica, ma condurrebbe a risultati non conformi al principio di personalità della responsabilità, prescrivendo obblighi talvolta inesigibili e votando l’utente della strada al destino del colpevole per definizione o, se si vuole, del capro espiatorio.

Né può esercitare un’influenza contraria (come sembra ritenere il ricorrente) il fatto che gli altrui comportamenti imprudenti siano tanto gravi quanto diffusi, come quello di ciclomotoristi che sorpassano sulla destra audacemente veicoli fermi. Un tale approccio condurrebbe, addirittura, ad un effetto paradossale: quello di svuotare la forza cogente della disciplina positiva e di generare un patologico affidamento inverso da parte dell’agente indisciplinato sulla altrui attenzione anche nel prevedere le proprie audaci intemperanze comportamentali.

Per tentare di definire la concreta portata del principio nell’ambito della circolazione occorre considerare che i contesti fattuali possibili sono assolutamente indeterminati; e non è quindi realistico che l’affidamento concorra a definire i modelli di agenti, le sfere di rischio e di responsabilità in modo categoriale, come invece accade nel ben più definito contesto del lavoro in equipe e, entro confini peraltro assai limitati, nell’ambito della sicurezza del lavoro.

Anche nell’ambito della circolazione stradale che qui interessa, è stata ripetutamente affermata la necessità di tener conto degli elementi di spazio e di tempo, e di valutare se l’agente abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro: la prevedibilità ed evitabilità vanno cioè valutate in concreto (Cass. IV, 25 ottobre 1990, Rv. 185559; Cass. IV, 9 maggio 1983, Rv. 159688; Cass. V, 2 febbraio 1978, Rv. 139204). Tali enunciazioni generali abbisognano di un ulteriore chiarimento, già del resto ripetutamente proposto di recente da questa Corte (Cass. IV, 06 luglio 2007, Rv. 237050; Cass. IV, 7 febbraio 2008, Rv. 239258): l’esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento si pone in primo luogo e senza incertezze nella colpa generica, poiché in tale ambito la prevedibilità dell’evento ha un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell’ambito della colpa specifica la prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio cautelato dalla norma, ma rileva pure in relazione al profilo squisitamente soggettivo, al rimprovero personale, imponendo un’indagine rapportata alle diverse classi di agenti modello ed a tutte le specifiche contingenze del caso concreto. Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo nell’ambito delle norme rigide la cui inosservanza da luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell’ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell’esito antigiuridico da parte dell’agente modello. Non può essere escluso del tutto che contingenze particolari possano rendere la condotta inosservante non soggettivamente rimproverabile a causa, ad esempio, della imprevedibilità della condotta di guida dell’altro soggetto coinvolto nel sinistro. Tuttavia, tale ponderazione non può essere meramente ipotetica, congetturale, ma deve di necessità fondarsi su emergenze concrete e risolutive, onde evitare che l’apprezzamento in ordine alla colpa sia tutto affidato all’imponderabile soggettivismo del giudice.

L’esigenza di una indagine concreta, si è pure affermato dalla giurisprudenza da ultimo indicata, non viene meno neppure quando, come nella circolazione stradale, la condotta inosservante di altri soggetti non costituisce in sé una contingenza imprevedibile, si è chiarito che lo spazio per l’apprezzamento che giunga a ritenere imprevedibile la condotta di guida inosservante dell’altro conducente è ristretto e va percorso con particolare cautela. Ciò nonostante, l’esigenza di preservare la già evocata dimensione soggettiva della colpa (id est la concreta rimproverabilità della condotta) ha condotto questa Corte ad enunciare che, come si è prima esposto, le particolarità del caso concreto possono dar corpo ad una condotta realmente imprevedibile.

A tali principi si ispira la sentenza impugnata quando, nell’esaminare il caso, evoca la ragionevole prevedibilità e la rapporta, con implicita evidenza, alle particolarità del caso concreto. L’imputato aveva avviato la manovra di retromarcia con un veicolo ingombrante in una strada non larga, ben sapendo che una parte posteriore del suo mezzo non era a lui visibile e che l’autocarro non era dotato di strumenti ottici (già all’epoca del fatto disponibili sul mercato) che gli consentisse una completa visibilità della parte posteriore; ha tuttavia continuato nella manovra, e ben avrebbe potuto, come rileva la Corte del merito, chiedere l’ausilio di qualcuno per operare la manovra in sicurezza, essendo ben possibile che in quel frangente potesse attraversare la strada o percorrerla una persona non autosufficiente o un bambino.

Al riguardo, si appalesano, per il caso di specie, assolutamente pertinenti le massime giurisprudenziali, richiamate dalla Corte territoriale, per le quali “in tema di retromarcia effettuata da autoveicoli sia sulla strada pubblica sia in luoghi comunque soggetti a frequentazione di persone (e quindi anche privati) tale pericolosa manovra non deve essere effettuata quando il conducente del mezzo non sia in grado di percepire e visivamente dominare tutto lo spazio retrostante da impegnare e, quindi, di regolare il movimento dell’autovettura in relazione alla presenza di eventuali ostacoli. Ne deriva che i conducenti di veicoli che, per ragioni strutturali (mole altezza sagomatura,) o contingenti (carico voluminoso odi ingombrante, avarie o perdite di accessori) non siano in grado di assicurare le condizioni descritte, devono adottare tutti gli accorgimenti idonei e sufficienti a realizzare situazioni di sicurezza. Tra dette soluzioni pratiche vi è la collaborazione di altra persona a terra per aiutare – con apposite segnalazioni- colui che esegue la manovra. Quest’ultima non deve essere compiuta in assenza delle prospettate soluzioni, poiché non si può porre a repentaglio l’incolumità di coloro che, per qualsiasi motivo anche con condotte imprudenti o negligenti – possano venire trovarsi sulla proiezione della linea di arretramento senza essere viste; evento non frequente, ma non eccezionale e pertanto non imprevedibile”.

Di tal che “il conducente, qualora si renda conto di avere dietro alle spalle una strada che non rende percepibile l’eventuale presenza di un pedone, se non può fare a meno di effettuare la manovra, deve porsi nelle condizioni di controllare la strada, ricorrendo se del caso alla collaborazione di terzi che, da terra, lo aiutino per consentirgli di fare la retromarcia senza alcun pericolo per gli utenti della strada” (Sez. 4, Sentenza n. 35824 del 27/06/2013 Ud. Rv. 256959).

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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