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Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

 sentenza 22 luglio 2013, n. 31348

Ritenuto in fatto

Il GUP del Tribunale di Tortona condannava G.D. , all’esito di giudizio celebrato con il rito abbreviato, alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione ed Euro 14.000,00 di multa per aver, al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 309/90, coltivato 53 piante di marijuana, nonché detenuto circa 88 grammi di marijuana e materiale per la coltivazione dello stesso stupefacente, con finalità di cessione a terzi.
A seguito di gravame ritualmente proposto nell’interesse dell’imputato, la Corte d’Appello di Torino, confermava l’affermazione di colpevolezza in relazione a tale addebito, osservando che non vi era stata impugnazione in punto di responsabilità e si limitava quindi ad esaminare le censure in ordine all’entità della pena che riduceva rideterminandola in misura prossima ai minimi edittali, valutando in proposito l’incensuratezza dell’imputato e tenendo conto delle attenuanti generiche già concesse dal primo giudice.
Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, tramite il difensore, deducendo violazione di legge e vizio motivazionale sull’asserito rilievo che: a) la Corte distrettuale non avrebbe in alcun modo valutato la concreta inoffensività della condotta dell’imputato, essendo stati sequestrati presso l’abitazione del G. solo germogli di marijuana privi di principio attivo stante lo stato del tutto iniziale, vale a dire embrionale, dei germogli stessi; b) non essendo stati svolti accertamenti tecnici sugli 88 grammi di marijuana sequestrati, sarebbe rimasta ignota la quantità del principio attivo contenuto in tale sostanza per cui i giudici del merito avrebbero errato nel non riconoscere la configurabilità dell’attenuante dell’ipotesi della lieve entità del fatto, tenuto anche conto che il G. , per sua stessa ammissione, era tossicodipendente e faceva uso proprio di marijuana.

Considerato in diritto

Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.
Mette conto preliminarmente evidenziare che con l’appello, in punto di sussistenza del reato, l’imputato aveva dedotto, con generiche affermazioni, che gli 88 grammi di marijuana erano destinati al suo uso personale, aggiungendo che le 53 piantine erano allo stato embrionale e prive di tetraidrocanabinolo, ponendo altresì l’accento più che altro sulla effettiva disattivazione del cellulare avvenuta il (OMISSIS) come comunicato dalla Vodafone, circostanza in ordine alla quale il primo giudice aveva invece prospettato il mendacio del G. .
Ciò premesso, non possono sussistere dubbi in ordine allo svolgimento da parte del G. di un’attività di coltivazione (nel senso precisato nella giurisprudenza di questa Corte: cfr. Sez. Un., n. 28605 del 24/04/2008 Ud. – dep. 10/07/2008 – Di Salvia), resa evidente dalle circostanze oggettive rilevate dai verbalizzanti.
Parimenti devono ritenersi fuori discussione la concreta offensività della condotta e l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile: quanto all’offensività, depongono in tal senso il numero delle piantine oggetto della coltivazione, l’attrezzatura rinvenuta “in loco” e lo stato dei germogli dopo la semina; per quel che riguarda l’idoneità della sostanza a produrre effetto drogante, la relativa prova di imponente spessore è costituita dal rinvenimento degli 88 grammi di marijuana che erano certamente idonei a produrre effetto drogante, avendo la difesa sostenuto che detto stupefacente sarebbe stato destinato all’uso personale del G. . A tale ultimo riguardo, giova sottolineare che le Sezioni Unite di questa Corte – ribadendo quanto già altre volte affermato – hanno avuto modo di precisare quanto segue: “nel caso (…..) in cui il coltivato (o parte di esso) sia stato raccolto, la successiva detenzione del prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione, con inammissibile assorbimento nella fattispecie amministrativa dell’illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale.

La condotta di coltivazione (punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole anticipazione della tutela penale e dalla valutazione di un pericolo del pericolo, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti” (Sez. Un., n. 28605 del 24/04/2008 Ud. – dep. 10/07/2008 – Di Salvia, cit.). Principio poi ancora ulteriormente ribadito dalle sezioni semplici di questa Corte: “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. (Fattispecie relativa alla coltivazione di venticinque piante di “cannabis”)” [in termini, “ex plurimis”, Sez. 6, n. 49528 del 13/10/2009 Cc. – dep. 23/12/2009 – Rv. 245648]. Dunque, anche l’eventuale destinazione della marijuana all’uso personale dell’imputato, non renderebbe la condotta priva di rilievo penale.
Così delineata la piattaforma probatoria acquisita e valutata dai giudici del merito, nessun rilievo assume la questione relativa alla disattivazione dell’utenza cellulare dell’imputato.
Resta infine da esaminare la doglianza relativa al mancato riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 73, quinto comma, del d.P.R. n. 309/90. Orbene, detta questione non risulta essere stata sottoposta al vaglio del giudice dell’appello. Trattasi dunque di deduzione inammissibile, involgendo essa aspetti valutativi di merito e non rientrando quindi nel novero delle questioni indicate nell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. che questa Corte avrebbe potuto esaminare di ufficio; è stato condivisibilmente enunciato nella giurisprudenza di legittimità il seguente principio: “In tema di ricorso per Cassazione, è consentito superare i limiti del devolutum e dell’ordinata progressione dell’impugnazione soltanto per le violazioni di legge che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello, come nell’ipotesi di ius superveniens, e per le questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento del fatto, rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Non sono proponibili per la prima volta in cassazione, invece, le questioni giuridiche che presuppongono un’indagine di merito che, incompatibile con il sindacato di legittimità, deve essere richiesta o almeno prospettata nella sua sede naturale.

La mancata devoluzione di siffatta questione in sede propria preclude ogni successiva doglianza e rende intangibile la decisione formatasi sul punto o capo, poi investito dal ricorso” (in termini, Sez. 5, n. 9360 del 24/04/1998 Ud. – dep. 13/08/1998 – Rv. 211441; cfr., al riguardo, anche Sez. 4, n. 4853 del 03/12/2003 Ud. – dep. 06/02/2004 – Rv. 229373, con la quale è stato tra l’altro precisato che le questioni di diritto sostanziale possono essere sollevate per la prima volta davanti alla Corte di cassazione – così venendo meno la preclusione per le violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello – sempre che si tratti di deduzioni di pura legittimità o di questioni di puro diritto insorte dopo il giudizio di secondo grado in forza di “ius superveniens” o di modificazione della disposizione normativa di riferimento conseguente all’intervento demolitorio o additivo della Corte costituzionale).
Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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