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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 5137  del 1 febbraio 2013

Considerato in diritto

E. A. proponeva, per il tramite del difensore, ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova data 20.1.011, emessa a conferma della sentenza del Tribunale di Massa, sez. distaccata di Carrara, data 13.11.09, con la quale il predetto veniva condannato alla pena di mesi tre di reclusione ed euro 300,00 per il reato di cui all’art. 81 cpv 2 L.683/83 come sostituito dall’art. 1 l. 389/89.
All’imputato era stato contestato di avere, in qualità di amministratore unico dell’impresa F. Costruzioni s.r.l., con sede in Potenza, omesso di versare all’INPS le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni erogate ai lavoratori dipendenti relativamente ai seguenti periodi: dal mese di gennaio al mese di dicembre 2002, dal mese di gennaio al mese di maggio 2003, dal mese di aprile al mese di dicembre 2004, dal mese di gennaio al mese di ottobre 2005.

La sentenza impugnata aveva disatteso la censura mossa dall’appellante circa l’insussistenza di prove in ordine all’avvenuto pagamento delle retribuzioni, pagamento richiesto come condizione per la configurabilità del reato in questione, asserendo in proposito che, nel caso di contestazione ex art. 2 L. 683/83, la prova poteva evincersi dai cd modelli DM 10, ovvero i modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale.
Peraltro, essendo il lavoro dipendente per sua natura oneroso, dalla prestazione lavorativa deriva una presunzione iuris tantum dell’avvenuta corresponsione della retribuzione, con inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato che eccepiva una divergenza fra le risultanze formali del modello anzidetto.
Il ricorrente deduceva l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 lett. B) c.p.p. relativamente all’art. 2 D.L. 12.12.83 conv. in Legge 683/83 e il vizio di motivazione della sentenza, con riferimento all’accertamento del presupposto dell’avvenuta corresponsione della retribuzione, asserendo che il giudice di merito si era limitato a desumere tale condizione dalla deposizione lacunosa e imprecisa della teste M. la quale non aveva chiarito in alcun modo se effettivamente erano stati pagati gli stipendi ai dipendenti.

Considerato in diritto

ll ricorso è inammissibile in quanto si risolve in generiche apodittiche affermazioni di inadeguata valutazione degli elementi di prova da parte del giudice di merito senza in realtà evidenziare alcun il vizio intrinseco di logicità dell’appartato argomentativo da esso adottato.
Ai fini della configurabilità del reato contestato occorre la prova della corresponsione della retribuzione, senza la quale non può ritenersi integrata la condotta di cui all’art. 2 Legge 683/83, di omesso versamento all’ente previdenziale delle ritenute previdenziali e assistenziali, operate sulla retribuzione corrisposta.
Occorre innanzitutto rammentare la distinzione esistente, per la natura giuridica e per momento genetico, fra l’obbligo del versamento dei contributi gravanti direttamente sul datore di lavoro e quello del versamento dei contributi dovuti dal lavoratore. Entrambe le obbligazioni fanno capo al datore di lavoro, con la differenza che il primo è un obbligo contributivo diretto, per la quota di contributi di spettanza del datore di lavoro, il secondo invece è un obbligo contributivo indiretto per la quota di spettanza del lavoratore, in relazione alla quale il datore di lavoro agisce come “sostituto” responsabile verso l’ente assicuratore, ovvero come soggetto prima obbligato a trattenere le ritenute sulla retribuzioni corrisposte ai dipendenti e poi a versare le ritenute stesse all’ente assicuratore.
Di conseguenza l’obbligo a carico del datore di lavoro di versare i contributi nasce contestualmente alla nascita del rapporto di lavoro subordinato ed è indipendente dalla effettiva corresponsione della retribuzione, fondandosi esclusivamente sull’esistenza del rapporto di lavoro, l’obbligo, sempre carico del datore di lavoro, di versare le ritenute dei contributi dovuti dal lavoratore nasce nel momento dell’effettiva corresponsione della retribuzione sulla quale le ritenute stesse devono essere operate. Ciò si spiega col fatto che questo secondo versamento ha per oggetto la quota contributiva gravante sul lavoratore e presuppone quindi l’effettiva percezione della retribuzione da parte di quest’ultimo, anche se poi è il datore di lavoro, in qualità di sostituto di imposta, che è incaricato di trattenere la quota contributiva e di versarla all’ente previdenziale.
Mentre l’omesso versamento dei contributi a carico del datore di lavoro è stato depenalizzato e attualmente integra una sanzione amministrativa, l’omesso versamento delle ritenute previdenziali costituisce ancora un reato, stante la maggiore gravità della condotta, rappresentata, non solo dall’omissione del versamento, ma anche dall’appropriazione indebita da parte del datore di lavoro delle ritenute prelevate alla fonte dalla retribuzione dei lavoratori subordinati.
Sull’argomento sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermando in principio secondo cui “il reato di cui all’art. 2 della legge 11 novembre 1983 n. 638 (omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti) non è configurabile in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione.
La Corte ha osservato che il riferimento letterale alle “ritenute operate” sulla retribuzione deve essere interpretato nel senso che non può essere operata una ritenuta senza il pagamento della somma dovuta al creditore”. (S.U., Sentenza del 28/05/2003-23/06/2003 Rv. 224609).
Nel caso in esame la sentenza impugnata fornisce un’adeguata congrua motivazione in punto di responsabilità dell’imputato per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali facendola discendere, con argomentando del tutto logiche e consequenziali, dalla prova dell’avvenuta corresponsione della retribuzione, che ha desunto dai cd. modelli DM10, attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l‘istituto previdenziale, trasmessi dal datore di lavoro all’I.N.P.S., e ponendo in evidenza il carattere esaustivo di tali risultanze probatorie di guisa che appare del tutto destituita di fondamento la censura del ricorrente volta ad individuare nella lacunosa deposizione della teste M. gli unici elementi probatori posti a fondamento della decisione dei giudici di seconde cure, dal medesimo giudicati insufficienti. In realtà il giudice di merito non fa discender da tale deposizione la prova in questione, bensì dalle risultanze dei modelli DM10.
Secondo consolidato orientamento di questa Corte, la prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni nel processo per l’imputazione del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, può essere costituita da prove documentali, testimoniali ed indiziarie.
Fra le prove documentali assumono particolare rilievo probatorio i modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale, trasmessi dal datore di lavoro all’I.N.P.S,. (cosiddetti modelli DM10) (Sez. 3, 7/10/2009 – 02/12/2009 Rv. 245610, Sentenza del 04/03/2010 -16/04/2010 Rv. 246966).
I modelli DM10 sono dunque idonei a dimostrare l’avvenuta corresponsione della retribuzione.
Peraltro, essendo il lavoro dipendente per sua natura oneroso, dalla prestazione lavorativa deriva una presunzione iuris tantum dell’avvenuta corresponsione della retribuzione, con inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato che eccepiva una divergenza con le risultanze formali del modello anzidetto (Cass. sez. 3, 28.9.2005 n. 38938).
Del tutto inconferente è dunque la censura mossa in punto di valutazione del materiale probatorio utilizzato dai giudici di appello che erroneamente il ricorrente individua e circoscrive alla sola deposizione della teste M .
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000 in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso alla pubblica udienza del 18.7.012

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