Suprema Corte di Cassazione 

sezione III

sentenza n. 46165 del 18 novembre 2013

RITENUTO IN FATTO

1. – Con sentenza del 21 novembre 2012, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Cremona del 17 febbraio 2011, con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente all’importo di € 287.596,90 di maggiore imponibile, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicava nelle dichiarazioni annuali per l’anno 2004 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Si deduce, in primo luogo,l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice, in relazione all’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 55, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972. Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che l’accertamento della Agenzia delle i entrate fosse stato effettuato in base all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, perché non avrebbe tenuto conto che nell’avviso di accertamento si faceva riferimento all’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973. Si tratterebbe di un profilo i rilevante perché la verifica di cui all’art. 39, secondo comma, lettera d), sarebbe stata condotta sulla base di presunzioni semplici, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dal primo comma dello stesso articolo. La difesa prosegue evidenziando che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il fatto che la riscossione di alcuni affitti per locazioni di abitazioni sia stata accreditata al conto cassa contanti equivaleva soltanto ad attestare che tali importi erano stati fatti rientrare nella disponibilità liquide dell’impresa. L’accertamento si sarebbe dovuto limitare all’attività imprenditoriale dell’imputato, evitando ogni confusione tra l’attività imprenditoriale e la posizione personale dello stesso. In tale ottica, nessuna rilevanza avrebbe potuto essere attribuita al fatto che il figlio dell’imputato aveva percepito canoni confluiti sul suo conto corrente personale. Quanto agli immobili compravenduti dall’impresa dell’imputato, il giudice d’appello avrebbe errato nel ritenere provato il fatto evasivo, perché avrebbe desunto lo scostamento dei prezzi di compravendita dal valore utilizzando i dati ONI, all’epoca inutilizzabili ai fini dell’accertamento.

2.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si rileva la manifesta illogicità della motivazione, perché basata sull’erroneo presupposto che l’accertamento fiscale fosse stato eseguito sulla scorta di riferimenti normativi diversi dall’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973. Partendo da tale presupposto, la Corte territoriale avrebbe ritenuto l’esistenza di indizi gravi precisi e concordanti, dai quali è derivato il giudizio finale di colpevolezza.
2.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza davanti a questa Corte la difesa ha presentato “motivi aggiunti” recanti un’analisi delle verifiche fiscali relative alle annualità 2003-2004-2005-2006, con i quali ribadisce sostanzialmente quanto già affermato nel ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. – I motivi di ricorso – che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono, in sostanza, alla motivazione della sentenza impugnata circa le modalità dell’accertamento effettuato dall’Agenzia delle entrate – sono inammissibili.
Il ricorrente si basa, infatti, sull’assunto che l’accertamento tributario sarebbe stato effettuato in via induttiva; assunto espressamente smentito dalla Corte d’appello, con una motivazione che risulta completa e logicamente coerente con riferimento a tutti i profili di doglianza già evidenziati nel giudizio di secondo grado e riproposti in questa sede.
3.1. – Deve permettersi che la verifica del giudice penale può sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata davanti al giudice tributario, perché nella sede penale deve darsi prevalenza al dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura formale che caratterizzano l’ordinamento tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria. (Cass. pen., sez. 3, 26 febbraio 2008, n. 21213, rv. 239984; sez. 3, 18 maggio 2011, n. 36396, rv. 251280).
3.2. – Proprio dando prevalenza al dato fattuale, la Corte distrettuale evidenzia, in particolare, che vi era stata una sottofatturazione del corrispettivo di immobili che risultavano essere stati venduti dall’impresa dell’imputato a privati, con prezzi dichiarati inferiori rispetto al valore degli immobili stessi. Gli accertamenti – prosegue la Corte d’appello – erano stati svolti in base all’art. 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973, in forza del quale il reddito viene rettificato nel caso in cui l’incompletezza, falsità o inesattezza degii elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulti dall’ispezione delle scritture contabili, ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti documenti relativi all’impresa, nonché dei dati e delle notizie raccolte dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32.

Laddove sussistano tali presupposti – prosegue la norma – l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precisi e concordanti. Sul piano tributario si erano riscontrati, dunque, molteplici convergenti indizi dell’evasione fiscale e non ci si era limitati ad utilizzare – come asserito dalla difesa – una mera singola presunzione.

Gli stessi elementi – correttamente ritenuti decisivi, univoci e concordanti – sono posti dalla Corte distrettuale a sostegno deila ritenuta responsabilità penale. E, in particolare: a) l’imputato non ha dato alcuna documentata giustificazione delle somme di denaro cui si riferisce l’imputazione; b) tale non è l’affermazione secondo cui l’Agenzia delle entrate  avrebbe erroneamente considerato versamenti confluiti a titolo di cauzione o prigione relative a immobili suoi personali o del figlio, il quale utilizzava i suoi conti, in quanto degli affitti di proprietà personale dell’imputato si era già tenuto conto in sede di determinazione del reddito sottratto a imposizione e in quanto l’utilizzazione del conto del padre da parte dei figlio risulta sfornita di prova;
c) del pari indimostrata è l’affermazione difensiva secondo cui nel maggior imponibile recuperabile a tassazione erano stati fatti confluire illegittimamente dall’Agenzia delle entrate depositi, acconti, anticipi, relativi a future vendite, e, dunque, a esercizi futuri;
d) il valore dichiarato nei rogiti stipulati del 2004 si è mantenuto al di sotto del valore normale, secondo i criteri di mercato liberamente apprezzabili dal giudice penale; e) tale circostanza risulta confermata dal fatto che per alcuni degli immobili erano stati stipulati mutui per un valore assai superiore a quello dichiarato, in relazione ai quali era inverosimile che le banche concedenti avessero accettato in garanzia immobili che non avessero un valore quantomeno corrispondente; f) quanto ai costi in nero, questi erano di entità modesta e, dunque, irrilevante ai fini della ritenuta responsabilità penale, perché l’accertamento ha avuto per oggetto essenzialmente l’occultamento di una parte del corrispettivo percepito perla vendita degli immobili e non la costruzione e vendita di immobili interamente in nero.
3.3. – A fronte di una siffatta motivazione, le censure del ricorrente relative alla ricostruzione e all’interpretazione della contabilità proposte con i motivi di impugnazione principale e ulteriormente precisate con i motivi aggiunti si risolvono – come anticipato – nella richiesta di una reinterpretazione del quadro probatorio, che si concretizza in un riesame del merito del provvedimento impugnato, precluso in sede di legittimità. Deve, infatti, farsi richiamo alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa dell’art. 606, primo comma, lettera e), cod. proc. pen., al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (ex plurimis, tra le pronunce successive alle modifiche apportate all’art, 606 cod. proc. pen. dalla legge 20 Febbraio 2006, n. 46: sez. 6, 29 marzo 2006, n. 10951; sez. 6, 20 aprile 2006, n. 14054; sez. 3, 19 marzo 2009, n. 12110; sez. 1, 24 novembre 2010, n. 45578; sez. 3,9 Febbraio 2011, n. 8096).
4. – Né può essere in questa sede dichiarata la prescrizione del reato.

In presenza di un ricorso inammissibile, quale quello in esame, trova infatti applicazione il principio, costantemente enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione, è preclusa dall’inammissibilità del ricorso per cassazione, anche dovuta alla genericità o alla manifesta infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione (ex multis, sez. 3, 8 ottobre 2009, n. 42839; sez. 1, 4 giugno 2008, n. 24688;sez. un., 22 marzo 2005, n. 4).

Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che <<la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inmmissibilità>>, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 1° ottobre 2013.

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