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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 21245  del 29 novembre 2012

 

Svolgimento del processo

B.C. e T.A. convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Milano la USL (omissis) di Rho, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni da essi patiti per la morte di B.A., padre del primo e marito della seconda.
Sostennero che l’evento luttuoso si era verificato per negligenza e imperizia dei medici del locale ospedale. Costituitasi in giudizio, la USL contestò le avverse pretese. Disposta ed espletata consulenza tecnica d’ufficio, il giudice adito rigettò la domanda.

Il gravame proposto dai soccombenti avverso tale decisione fu respinto dalla Corte d’appello in data 19 ottobre 1999. I B. e la T. proposero allora ricorso per cassazione e il Supremo Collegio, con sentenza del 4 marzo 2004, n. 4400, cassò con rinvio la pronuncia della Curia territoriale, affermando, tra l’altro, che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se esisteva un errore diagnostico dei medici ovvero un’omissione di comportamento dovuto sulla base dei normali protocolli di cura e, in caso positivo, se, in assenza di questo errore o di questa omissione secondo una valutazione di probabilità, il B. aveva ragionevoli probabilità di salvezza, in relazione alla fattispecie concreta.
Riassunto il giudizio innanzi al giudice di rinvio, la Corte d’appello di Milano ha nuovamente rigettato l’appello.
Per la cassazione di detta pronuncia ricorrono B.C. e T.A., formulando due motivi, illustrati anche da memoria.
Resiste con controricorso la Gestione Liquidatoria della disciolta USSL (omissis) di Rho.

Motivi della decisione

1. In motivazione il decidente, ripercorsi i momenti essenziali dell’iter argomentativo del Supremo Collegio, sostiene che, anche a voler ipotizzare che i medici dell’Ospedale di Rho, all’esito di una corretta diagnosi, si fossero attivati subito per contattare una struttura dotata di reparto di chirurgia vascolare, supportata da adeguata unità di anestesi e rianimazione, nell’arco di tempo di due ore – periodo trascorso tra insorgenza della sintomatologia e morte del B. – le possibilità di sopravvivenza dello stesso erano comunque ridotte al minimo. Non a caso il consulente tecnico d’ufficio aveva escluso che fosse comprovato o comprovabile, in via di certezza, un nesso di causalità materiale fra il censurabile comportamento tecnico sanitario e il decesso dei paziente. In definitiva, secondo il decidente, una possibilità di riuscita dell’intera operazione finalizzata a salvare la vita del paziente, ragguagliata alla quota minima, statisticamente rapportabile al 10%, non poteva essere ritenuta sufficiente per addebitare l’evento all’ente ospedaliero.
2. Di tale valutazione si dolgono i ricorrenti, denunciando, nel primo motivo di ricorso, violazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., ex art. 360 c.p.c., n. 3. Secondo gli esponenti il giudice del rinvio non aveva considerato che non solo la convenuta Gestione non aveva dimostrato di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno e che l’impossibilità della prestazione era derivata da causa ad essa non imputabile, ma che era processualmente acquisita la certezza dell’errore diagnostico e la prova dell’omissione di ogni cura in favore del B.. In tale contesto la valorizzazione in chiave di esclusione del rapporto di causalità, della misura delle possibilità di sopravvivenza del paziente, fissata al 10%, integrava una patente violazione dei principi giuridici enunciati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui “la causalità civile ordinaria (…) è caratterizzata dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità, rispetto a quella penale, atteso che il giudice, dovendo operare una selezione di scelte giuridicamente opportune, in un dato momento storico, non è vincolato ad una formula peritale” (confr. Cass. civ. 16 ottobre 2007, n. 21619).

2 Con il secondo mezzo si deduce violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e art. 2697 cod. civ., ex art. 360 c.p.c., n. 3. Evidenziano i ricorrenti che nella sentenza di cassazione cori rinvio la Suprema Corte aveva affermato che il paziente, per effetto dell’inadempimento dei medici della struttura alla quale si era affidato, aveva certamente perso le chances che statisticamente aveva, segnatamente precisando che la chance non è una mera aspettativa di fatto, ma una entità patrimoniale a se stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, con conseguente possibilità di configurare la sua perdita in termini di danno concreto ed attuale.
Sostengono che del tutto arbitrariamente la Corte d’appello in sede di rinvio aveva invece escluso che la domanda degli eredi B. potesse essere qualificata come di risarcimento del danno da perdita di chance, laddove essi, nell’atto introduttivo del giudizio, avevano chiesto il risarcimento di tutti i danni derivati dalla morte del loro congiunto.
3. Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro intrinseca connessione, sono infondate per le ragioni che seguono.
Occorre muovere dalla considerazione che nella sentenza n. 4400 del 2004, che cassò con rinvio la pronuncia della Curia meneghina, questa Corte ebbe modo di precisare che anche in sede civile risarcitoria, il nesso di causalità materiale andava determinato a norma degli artt. 40 e 41 cod. pen., (confr. Cass. pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328); che, esclusa la possibilità di dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’esistenza del nesso causale, dovendo il giudice verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, il rapporto di causalità andava affermato quando risultasse giustificato e processualmente certo che la condotta colpevole del medico era stata condizione necessaria dell’evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica; che in una situazione in cui era certo che il medico aveva dato alla patologia sottopostagli una risposta errata o in ogni caso inadeguata, era possibile affermare che, in presenza di fattori di rischio, detta carenza aveva aggravato la possibilità che l’esito negativo si producesse, di talchè il paziente aveva perso, per effetto di detto inadempimento, delle chances di guarigione che statisticamente aveva;
che la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non era una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita configurava un danno concreto ed attuale (ex pluribus Cass. civ. 10 novembre 98 n. 11340, Cass. civ. 15 marzo 1996 n. 2167).
In tale prospettiva, nel medesimo arresto, questa Corte, precisato che la domanda per perdita di chances è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, perchè in questo secondo caso l’accertamento è incentrato sul nesso causale, mentre nel primo oggetto dell’indagine è un particolare tipo di danno, e segnatamente una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, quale la mera possibilità del risultato finale, ha affermato che, nella fattispecie, gli attori avevano domandato esclusivamente il risarcimento del danno per la morte del loro congiunto, conseguente ad assunto errore diagnostico ed omesso intervento chirurgico, di talchè il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se esisteva siffatto errore ovvero un’omissione del comportamento dovuto sulla base dei normali protocolli di cura e, in caso positivo, se, in assenza di tanto, il B. aveva ragionevoli probabilità di salvezza.

6. Tali affermazioni consentono anzitutto di sgombrare il campo dal secondo motivo di ricorso. E invero, il rilievo degli impugnanti, volto a far valere che, nell’atto introduttivo del giudizio essi avevano chiesto il risarcimento di tutti i danni derivati dalla morte del loro congiunto – e dunque anche il danno da perdita di chance – è all’evidenza basato sull’equivoco di fondo che la liquidazione di quest’ultimo possa essere operata d’ufficio dal giudice, essendo la relativa domanda insita, come un minus, in quella volta a far valere il pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato. Per quanto innanzi detto, trattasi invece di domanda tutt’affatto diversa, sulla quale, ove non proposta, il giudice non può pronunciare.
Ne deriva che la negativa valutazione già espressa da questa Corte in ordine alla portata dell’atto introduttivo del giudizio e all’impossibilità di ritenerlo esteso alla perdita di chances di sopravvivenza del dante causa dei ricorrenti è ormai coperta da giudicato.
Altra questione sarebbe se, accertato il nesso di causalità materiale, si dovesse poi accertare quello c.d. di casualità giuridica, e cioè il rapporto eziologico tra la lesione cagionata dalla condotta illecita del medico, commissiva o omissiva, e i danni che ne sono derivati, procedendo alla loro selezione, secondo i parametri stabiliti dall’art. 1223 cod. civ. (confr. Cass. Civ, 21 luglio 2011, n. 15991). Ma tale scrutinio si impone solo quando, certo che l’evento lesivo è stato cagionato dalla colpevole condotta del medico, sia emerso che i danni lamentati sono stati altresì determinati dal concorso di altri fattori naturali, quali le precarie condizioni di salute del paziente.
Ora nella fattispecie, il giudice di merito si è espresso negativamente proprio sull’esistenza del nesso di causalità materiale, di talchè ogni indagine sotto il profilo della causalità giuridica è irrimediabilmente preclusa.
Piuttosto la negativa valutazione formulata sul punto dal decidente è oggetto delle critiche svolte nel primo mezzo. Di esse conviene quindi occuparsi.
7. Trattasi di censure prive di fondamento per le ragioni che seguono.
Va qui ancora una volta ribadito che l’accertamento del legame eziologico tra la condotta illecita del medico, commissiva o omissiva e la lesione in concreto patita dal paziente, è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, con la precisazione che nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (confr. Cass. Civ. 16 ottobre 2007, n. 21619).
8. Venendo al caso di specie, il giudice di merito, con argomentazioni immuni da errori logici, esenti da aporie e da contrasti disarticolanti con il contesto fattuale di riferimento, ha affermato, sulla base dei rilievi del consulente tecnico, che il giudizio controfattuale in ordine alla incidenza eziologica del comportamento dei sanitari sulla morte del paziente non dava possibilità di salvezza dello stesso superiori al 10%, di talchè, anche a volere ipotizzare una immediata, corretta diagnosi della patologia che lo aveva colpito, mancava una soglia di probabilità di sopravvivenza apprezzabile in termini tali da consentire di addebitare all’ente ospedaliero la responsabilità della morte del B..
Tale valutazione che applica correttamente i principi giuridici che governano la materia, resiste ai rilievi critici degli impugnanti, rilievi che, attraverso la surrettizia evocazione di vizi di violazione di legge, in realtà inesistenti, mirano esclusivamente a sollecitare una rivalutazione dei fatti e delle prove preclusa in sede di legittimità.
Il ricorso è respinto.
La difficoltà delle questioni consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2012.

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