www.studiodisa.itLa massima

Ai sensi dell’art. 2049 c.c., gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono sul datore di lavoro ove tra l’illecito ed il rapporto di lavoro sussista quel nesso di occasionalità necessaria che si riscontra ogni qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile o agevolato la sua condotta, e quindi anche nel caso che egli agisca autonomamente nell’ambito dell’incarico, e persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando una condotta contraria alle direttive e non riconducibile agli interessi del datore.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 4 dicembre 2012, n.21724

RITENUTO IN FATTO

Con citazione ritualmente notificata P.M. , D.C.T. , P.A. e Pa.Lu. , gli ultimi tre quali eredi di P.L. convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Salerno S.A. e la Deutsche Bank s.p.a. (già Banca di America e di Italia), per sentirli condannare, in solido e nelle rispettive qualità di autore dell’illecito e soggetto civilmente responsabile, al pagamento della somma di £ 350.000.000, oltre accessori.
Gli attori – premesso che i fratelli M. e Pa.Lu. erano titolari di un libretto di risparmio e, come s.n.c. Pantaleone, avevano anche un conto corrente acceso presso la filiale di Salerno della B.A.I. e precisato, altresì, che S. , allora vice-direttore della filiale, con il quale intercorrevano rapporti di amicizia, aveva ad essi prospettato lucrose prospettive di guadagno in ordine alle somme depositate sul libretto – lamentavano che il giorno (OMISSIS) il S. avesse realizzato, ad insaputa dei titolari, un’operazione di ampliamento del fido sul conto corrente e di addebitamento/accreditamento in esito alla quale il deposito sul libretto era rimasto azzerato; aggiungevano che, solo nel pomeriggio del (OMISSIS) il libretto era stato consegnato da P.M. a un dipendente della banca, inviato dal S. e che, nell’occasione, il P. aveva sottoscritto alcuni documenti in bianco; precisavano, che il medesimo P.M. , dopo avere verificato l’azzeramento del libretto e l’addebito di assegni sul conto della società per £ 350.000.000, aveva espresso perplessità sull’operazione al S. , il quale aveva rilasciato un proprio assegno postdatato, evidenziando che alla scadenza avrebbe lucrato la differenza; senonché il S. era stato arrestato per illeciti commessi ai danni dei clienti della banca.
Entrambi i convenuti si costituivano in giudizio per resistere alla domanda.
La causa, istruita con una c.t.u. e produzione di documentazione, era decisa con sentenza in data 12.10.2004, con la quale il Tribunale di Salerno accoglieva la domanda nei confronti del S. , mentre la rigettava nei confronti della Deutsche Bank.
La decisione, gravata da impugnazione da parte di P.M. , D.C.T. , P.A. e Pa.Lu. era parzialmente riformata dalla Corte di appello di Salerno, la quale con sentenza in data 24.05.2010 accoglieva la domanda anche nei confronti della Deutsche Bank e per l’effetto la condannava al pagamento, in solido con S.A. , in favore degli appellanti dalla somma di £ 180.760,56 oltre rivalutazione ed interessi e alle spese del doppio grado.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Deutsche Bank, svolgendo tre motivi.
Hanno resistito P.M. , D.C.T. , P.A. e Pa.Lu. , depositando controricorso.
Nessuna attività difensiva è stata svolta da S.A. .
È stata depositata memoria di parte ricorrente.

Motivi della decisione

1. È passata in giudicato la statuizione di condanna emessa in prime cure a carico del S. . Ciò di cui si controverte è, dunque, la responsabilità ex art. 2049 cod. civ. della Banca.

Nella dinamica del fatto la Corte di appello ha ritenuto determinante ‘la prima parte’ della vicenda, come ricostruita sulla scorta del materiale documentale e dell’espletata c.t.u., osservando che sia l’ampliamento del fido sul c/c della s.n.c. Pantaleone, sia la richiesta di addebito sullo stesso conto degli assegni circolari intestati a F.C. (poi pervenuti a un congiunto del S. ) vennero effettuati di propria iniziativa dal dipendente della Banca; in particolare ha evidenziato che il S. compilò il modulo di autorizzazione allo sconfinamento e ottenne l’emissione degli assegni con richiesta verbale, ad insaputa dei clienti, nella mattinata del (OMISSIS) e provvide solo ad operazione già conclusa ai danni della s.n.c. Pantaleone alla sua formale regolarizzazione, facendosi consegnare, nel pomeriggio di quello stesso giorno, da P.M. il libretto e due distinte, firmate in bianco (riempite dal medesimo funzionario con l’addebito di £ 350.000.000 sul conto corrente e l’accredito della stessa somma prelevata dal libretto).

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2049 cod. civ. e dell’art. 1362 co. 2 cod. civ. (art. 360 n.3 cod. proc. civ.). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia omesso qualsiasi valutazione in ordine alla meritevolezza di tutela del comportamento tenuto dal P. , atteso che le riferite modalità evidenzierebbero l’irregolarità dell’operazione bancaria e considerato, altresì, che la consegna dell’assegno postdatato, personale del S. , di £ 420.000.000, a garanzia del buon fine dell’operazione, avrebbe dovuto costituire chiaro indice della consapevolezza dello stesso P. di trattare con quest’ultimo in proprio.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia erronea, contraddittoria, insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n.5 cod. proc. civ.). Al riguardo parte ricorrente osserva che – a seguire la ricostruzione della Corte di appello – non troverebbe alcuna giustificazione il comportamento del P. che, a garanzia del proprio investimento, ebbe a richiedere un assegno personale del S. , così come non sarebbe comprensibile l’atteggiamento di quest’ultimo che, se si era risolto ad emettere un assegno di notevole importo, era perché, evidentemente, aveva dei propri interessi in gioco, diversi e distinti da quelli della Banca.

1.3. Con il terzo e subordinato motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 1227 cod. civ. e 2056 cod. civ. (art. 360 n.3 cod. proc. civ.) per non avere la Corte di appello valutato, ai fini dell’entità del danno da risarcire, il concorso del fatto colposo del danneggiato.

2. I primi due motivi – che, per la loro evidente connessione, si prestano, per buona parte, ad un esame congiunto – sono infondati, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione dell’art. 2049 cod. civ. in relazione alla fattispecie concreta, siccome ricostruita con valutazioni congrue e logiche e risultando priva di fondamento anche la deduzione della violazione dell’art. 1362 co. 2 cod. civ..

Valga considerare che la Corte territoriale ha correttamente enunciato i principi in base ai quali può essere affermata la responsabilità datoriale ex art. 2049 c.c., rilevando come, ai sensi di tale norma, gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono sul datore di lavoro ove tra l’illecito ed il rapporto di lavoro sussista quel nesso di occasionalità necessaria che si riscontra ogni qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile o agevolato la sua condotta, e quindi anche nel caso che egli agisca autonomamente nell’ambito dell’incarico, e persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando una condotta contraria alle direttive e non riconducibile agli interessi del datore.

Come è noto il fondamento di siffatta regolamentazione è la scelta, di carattere squisitamente ‘politico’, di porre a carico dell’impresa – come componente dei costi e dei rischi dell’attività economica – i danni cagionati da coloro della cui prestazione essa si avvale per il perseguimento della sua finalità di profitto, in conformità al brocardo per cui ubi commoda, ibi incommoda.

2.1. Ciò posto, si osserva che – sulla base di tale corretto approccio ermeneutico – la Corte di appello ha evidenziato che ‘la fase preparatoria’ dell’operazione (l’ampliamento del fido / l’addebitamento sul conto corrente conseguente con correlativa emissione degli assegni / infine l’accreditamento a fronte del prodotto scoperto, con il contemporaneo svuotamento del libretto) risultava svolta dal S. , all’insaputa dei clienti, approfittando della propria qualità di vice-direttore, con abuso dei suoi poteri gerarchici e riserva di ratifica in giornata, così individuando quel rapporto di occasionante necessaria, sotteso alla responsabilità datoriale; ha, quindi, rimarcato che ‘la formale regolarizzazione’ (invio del dipendente della Banca per ritirare il libretto e le due firme sulle distinte bancarie) venne callidamente effettuata dal medesimo S. , approfittando della circostanza che i P. avessero richiesto condizioni più lucrative di investimento per il libretto bancario, in tal modo implicitamente, ma inequivocamente evidenziando come l’operazione risultasse ‘propria’ della Banca (e, comunque, escludendo che in tale fase, il cliente potesse supporre il contrario); ha, infine, esaminato le medesime argomentazioni (ri)proposte con i motivi all’esame, escludendo che ‘il segmento’ della vicenda, su cui si appunta la difesa della ricorrente (l’emissione dell’assegno post-datato, e mai onorato, di £ 420.000.000 a propria firma che il S. si indusse a consegnare a fronte delle rimostranze del P. , allorché questi accertò il prelievo di ingente importo dal libretto e l’assenza di ogni investimento), potesse rilevare per escludere la responsabilità della banca, siccome costituente un posterius rispetto all’illecito che si era ormai consumato all’insaputa del cliente.

Ciò che l’odierna ricorrente addebita al giudice del merito, pertanto, non è di aver compiuto un’erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa disciplinata dall’art. 2049 cod. civ. (ovvero di aver erroneamente interpretato la predetta disposizione codicistica), bensì di aver ritenuto applicabile la norma medesima alla concreta fattispecie dedotta in giudizio, in ragione dell’errata valutazione delle risultanze istruttorie.

2.2. Anche la censura di violazione dell’art. 1362 co. 2 cod. civ. risulta manifestamente infondata, attesa la surrettizietà del richiamo al ‘comportamento successivo’, sostanzialmente finalizzato ad una valutazione alternativa della vicenda, posto che si pretende di adoperare il criterio non già come elemento sussidiario di interpretazione della volontà contrattuale, bensì come prova stessa di un presunto contratto intercorso tra il P. e il S. , da ritenersi, invece, insussistente sulla base della ricostruzione della vicenda operata dalla Corte di appello.

2.3. Escluso, dunque, un errar in iudicando ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, va rilevato come, sotto il diverso profilo del vizio di motivazione, la censura risulta manifestamente infondata alla luce del principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, laddove censuri la ricostruzione e l’interpo1 azione del materiale istruttorio accolta dalla sentenza impugnata, deve evidenziare l’erroneità del risultato raggiunto dal giudice del merito attraverso l’allegazione e la dimostrazione dell’inesistenza o della assoluta inadeguatezza dei dati che egli ha tenuto presenti ai fini della decisione, o delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, non potendo limitarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue (Cass. 25 febbraio 2005. n. 3994).

Come risulta dalla sintesi sopra riportata, nella specie, la Corte di merito è pervenuta alla decisione attraverso argomentazioni complete ed appaganti, improntate a retti criteri logici e giuridici, nonché frutto di un’indagine accurata delle risultanze processuali.

Gli argomenti di segno contrario svolti da parte ricorrente non introducono alcun elemento scardinante nel processo argomentativo della decisione impugnata, eludendone, nella sostanza, il punto centrale, laddove si mette in evidenza che la richiesta e il correlativo rilascio dell’assegno, rimasto insoluto, avvennero ‘a giochi fatti’, quando ormai, cioè, la perdita si era ormai prodotta per i P. . Alle dette valutazioni la parte ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, in quanto ciò comporterebbe un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione.

In definitiva i suddetti motivi, così come articolati, pur lamentando formalmente un difetto di motivazione, sono ben lungi dal prospettare un vizio della sentenza gravata, rilevante sotto il profilo di cui ai nn.3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. e mirano, anche attraverso la surrettizia deduzione del malgoverno delle norme in tema di interpretazione contrattuale, a sollecitare null’altro che una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite nell’impugnata sentenza, muovendo censure del tutto inammissibili.

I due motivi vanno, pertanto, rigettati.

3. È inammissibile il terzo motivo di ricorso, proponendo una questione nuova – quella del preteso concorso di colpa del danneggiato – che presuppone accertamenti e indagini sicuramente riservati al giudice di merito e preclusi in sede di legittimità. Invero non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, né rilevabili d’ufficio (v. ex plurimis Cass. 30 marzo 2007 n. 7981; Cass. 29 ottobre 2001 n. 13403) e, ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 12 luglio 2005, n. 14599).

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza; la relativa liquidazione avviene come in dispositivo alla stregua dei soli parametri di cui al D.M. n. 140/2012, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 10.200,00 (di cui Euro 10.000,00 per compensi) oltre accessori come per legge.

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