materiale lapideo

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza del 3 giugno 2014, n. 22899

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente –
Dott. SAVINO Mariapia Gaeta – Consigliere –
Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. ANDRONIO A.M. – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto;
nei confronti di:
L.P., nato il (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del Tribunale di Taranto del 24 settembre 2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;

udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per il rigetto del ricorso del pubblico ministero;

udito l’avv. Egidio Albanese per L..

Svolgimento del processo

1. – Con ordinanza del 24 settembre 2013, il Tribunale di Taranto ha annullato il decreto di sequestro preventivo per equivalente, fino alla concorrenza di Euro 455.771,00, emesso dal Gip dello stesso Tribunale il 5 agosto 2013, in relazione ai reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 5, contestati all’indagato per l’infedele dichiarazione ai fini Irpef in relazione dell’anno d’imposta 2006, nonchè per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini Irpef in relazione all’anno di imposta 2007 e ai fini Iva per gli anni di imposta 2006, 2007, 2008. Secondo il Tribunale, la determinazione compiuta dalla Guardia di finanza sulla presunzione che la movimentazione di ingenti somme di denaro da parte dell’indagato e dei suoi familiari fosse legata ad un’attività di gestione dell’attività imprenditoriale di cava non dichiarata al fisco deve avere ad oggetto atti costitutivamente relativi al compimento dell’attività stessa. Per il Tribunale, deve essere condiviso il ragionamento seguito dall’Agenzia delle entrate, la quale aveva determinato l’ammontare dei costi di gestione dell’attività in misura pari all’89,13% dell’imponibile induttivamente determinato, con la conseguenza che le imposte sui redditi evase dovevano essere ritenute al di sotto della soglia di punibilità. Quanto poi all’Iva, troverebbe applicazione la previsione di cui al n. 80 della parte 2^ della tabella A del D.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui “i materiali e prodotti dell’industria lapidea in qualsiasi forma o grado di lavorazione” sono soggetti a una tassazione con aliquota pari al 4% e non, come ritenuto dalla Guardia di Finanza, al 20%.

2. – Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, chiedendone l’annullamento.

2.1. – Il ricorrente sostiene, in primo luogo, che la determinazione dell’effettiva base imponibile e della relativa imposta evasa operata dalla Guardia di Finanza, a fronte di maggiori ricavi accertati in capo contribuente, ha tenuto conto della logica esistenza di costi che, seppure non documentati, sono stati riferiti all’esercizio dell’attività di impresa. Si sarebbe, in particolare, preso in considerazione il conto corrente aziendale nel quale erano rappresentati flussi finanziari in entrata e in uscita, ricostruendo i prelevamenti registrati sui conti quali costi di esercizio. La deduzione dei costi nella misura dell’89,13% effettuata dalla Agenzia delle entrate trarrebbe origine – secondo l’ipotesi accusatola – dalla percentuale di redditività di imprese ricomprese nel settore merceologico che operano, però, nella legalità e non in regime di evasione totale degli obblighi fiscali. Si considererebbero, in particolare, costi riconducibili a spese del personale, comprensivi di contributi previdenziali e assistenziali; contributi mai versati dall’impresa dell’indagato nel caso di specie. Si sostiene, inoltre, che la corretta determinazione dell’imposta evasa non può avvenire detraendo la misura dell’incidenza dei costi dalla base imponibile, essendo quest’ultima già il risultato della somma algebrica tra ricavi e costi di esercizio, ma eventualmente dalla sommatoria di tutti i ricavi. Non si sarebbe considerato, inoltre, che le indagini finanziarie avevano accertato l’esistenza di ingenti disponibilità economiche in capo all’indagato.

2.2. – Si deduce, in secondo luogo, la violazione di legge in relazione all’aliquota Iva applicata. Ad avviso del pubblico ministero, i tufi ceduti dalla ditta L. sono da considerarsi materie prime, perchè perdono la loro individualità incorporandosi nel prodotto finito. Il n. 80 della parte 2^ della tabella A del D.P.R. n. 633 del 1972, menzionato nell’ordinanza impugnata sarebbe, poi, inesistente, in quanto la richiamata parte 2^ si compone di soli 41 punti. Del resto, il n. 108 della tabella A, parte 3^, allegata al D.P.R. n. 633 del 1972, che prevedeva per i materiali e prodotti dell’industria lapidea l’applicazione dell’aliquota d’imposta nella misura del 10%, è stato soppresso dal D.L. n. 331 del 1993, art. 36, convertito dalla L. n. 427 del 1993; l’aliquota applicabile ai beni in esame è stata elevata al 20% dal D.L. n. 328 del 1997, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 410 del 1997. A ciò il ricorrente aggiunge che resta a carico del soggetto che emette la fattura l’onere di provare la sussistenza dei requisiti per l’applicazione di aliquote agevolate.

2.3. – Si deducono, in terzo luogo l'”erronea e contraddittoria motivazione in merito alla qualificazione tributaria del maggior reddito accertato”, nonchè l’erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Si sottolinea, in particolare, che lo svolgimento dell’attività di estrazione di pietre, calcare, creta e ardesia da parte dell’impresa individuale dell’indagato e la riferibilità dei rapporti bancari a tale attività appare comprovata dall’esistenza di due contratti di locazione di cava, dall’assenza dell’esercizio di altre attività di impresa, dalla riferibilità delle movimentazioni di denaro a tale settore di attività.

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è parzialmente fondato.

3.1. – Il primo e il terzo motivo di impugnazione – entrambi sostanzialmente riferiti a vizi logici della motivazione del provvedimento impugnato – sono inammissibili. L’art. 325 c.p.p., comma 1, consente, infatti, il ricorso per cassazione contro i provvedimenti emessi in materia cautelare reale per i soli motivi di violazione di legge, da intendersi comprensivi della carenza assoluta di motivazione, ma non anche della contraddittorietà o manifesta illogicità della stessa. A tali ultimi vizi intende, invece, riferirsi il ricorrente laddove afferma la scorrettezza della ricostruzione della base imponibile (primo motivo di ricorso) e l’erronea valutazione dei presupposti di fatto relativi all’attività concretamente svolta dall’indagato (terzo motivo di ricorso).

Quanto alla determinazione dell’imposta evasa, deve del resto rilevarsi che, ai fini cautelari, è sufficiente che il giudice prenda in considerazione il complesso degli elementi a sua disposizione e indichi quelli che ritiene di porre a fondamento della decisione. Così ha fatto il Tribunale del riesame, il quale ha ritenuto di preferire, alla ricostruzione dell’imponibile effettuata dalla Guardia di Finanza, quella della Agenzia delle entrate, che aveva determinato l’ammontare dei costi di gestione dell’attività in misura pari all’89,13% dell’imponibile stesso, evidenziando che il calcolo effettuato dalla Guardia di Finanza non teneva adeguatamente conto dei costi. Si tratta, del resto, di una valutazione che potrà essere oggetto di definitivo approfondimento in sede di merito. Ed anzi la ragione giustificativa della previsione dell’art. 325 c.p.p., comma 1, nel senso di limitare alla sola violazione di legge il ricorso per cassazione risiede proprio nell’esigenza – rilevante ai fini dell’economia processuale – di evitare che il giudizio di merito sulla responsabilità penale possa essere anche parzialmente anticipato in sede cautelare.

3.2. – Fondato è, invece, il secondo motivo di doglianza, con il quale si contesta che l’aliquota Iva applicabile nel caso di specie sarebbe del 4%, in forza della previsione del n. 80 della parte 2^ della tabella A del D.P.R. n. 633 del 1972, asseritamente riferita ai materiali e prodotti dell’industria lapidea in qualsiasi forma o grado di lavorazione.

La motivazione dell’ordinanza impugnata sul punto è, infatti, del tutto carente ancor prima che errata in punto di diritto.

Il Tribunale non specifica se e in che misura l’Iva evasa si riferisca effettivamente a prodotti dell’industria lapidea, limitandosi a richiamare sul punto la rideterminazione effettuata dall’Agenzia delle entrate, senza adeguatamente spiegare da dove, in punto di fatto, possa essere desunta la riconducibilità dell’attività economica svolta dall’imputato al commercio di materiali e prodotti dell’industria lapidea, in mancanza di riferimenti ai concreti elementi di prova sul punto.

A ciò deve aggiungersi che – contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale -la cessione di tali materiali non risulta inclusa tra quelle per le quali, nell’ambito delle tabelle del D.P.R. n. 633 del 1972, sono previste aliquote Iva diverse da quella ordinaria: il richiamato n. 80 della parte 2^ della tabella A del D.P.R. n. 633 del 1972, non risulta, infatti, vigente. Ciò, ovviamente, a meno che non vi sia la destinazione di tali materiali alla realizzazione di opere riconducibili a categorie agevolate; circostanza, quest’ultima, che non ricorre nel caso di specie.

4. – Il provvedimento impugnato deve essere, dunque, annullato, con rinvio al Tribunale di Taranto perchè, in applicazione dei principi appena sopra enunciati, proceda a nuovo giudizio in relazione alla determinazione dell’aliquota Iva applicabile e alle sue conseguenze sull’ipotizzata sussistenza del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, in particolare sotto il profilo del superamento della vigente soglia di punibilità.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Taranto.

Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2014

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