La massima

La morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale (Sez. U., n. 22676 del 22/01/2009, Ronci, Rv. 243381). Si è in particolare osservato che anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, da un altro lato, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi. Occorre quindi che l’agente abbia violato una regola cautelare diversa dalla norma (della legge sugli stupefacenti) che incrimina il delitto base e che sia specificamente diretta a prevenire la morte o le lesioni personali. Occorre poi una valutazione positiva di prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento, compiuta ex ante, sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello, tenendo peraltro conto di tutte le circostanze della concreta e reale situazione di fatto. Si deve pertanto verificare se dal punto di vista di un agente modello, nella situazione concreta, risultava prevedibile l’evento morte come conseguenza dell’assunzione, da parte di uno specifico soggetto, di una determinata dose di droga. È poi evidente che per agente modello non si deve intendere uno “spacciatore modello”, ma una persona ragionevole, fornita, ai pari dell’agente reale, di esperienza nel campo della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e consapevole della natura e dei normali effetti della sostanza che cede

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza del 24 ottobre 2012, n. 41462

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 16/05/2011 la Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma in data 04/11/2005 con cui D.W.C. è stato condannato alla pena di anni due di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa per i reati di cui agli artt. 73 del D.p.r. n. 309 del 1990 nonché 586 c.p.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il Difensore dell’imputato. Con un primo motivo, lamentando mancanza o manifesta illogicità della motivazione nonché erronea applicazione degli artt. 73 e 75 del Dpr n. 309 del 1990, rileva, come già sostenuto con l’atto di appello, l’errata qualificazione giuridica del fatto, da ricondursi all’interno della fattispecie del consumo di gruppo stante l’atteggiamento sodale, adesivo e spontaneo posto in essere dalla cessionaria D.S. Né può condividersi quanto assunto dalla Corte d’Appello che ha valorizzato in senso contrario la mancata dazione di parte del denaro, necessario per l’acquisto, dalla D.S. a D.W. ; infatti sarebbe risultato pacifico, secondo il ricorrente, che la consumazione era stata preventivata da D.W. e D.S. già al momento del loro incontro presso l’abitazione della seconda. Inoltre il rinvenimento della somma di denaro di lire 195.000 nel portafogli della ragazza starebbe a dimostrare la spesa preventivata per l’acquisto della sostanza.
Con un secondo motivo lamenta, con riguardo alla conferma della condanna per il reato di cui all’art. 586 (con riferimento agli artt. 73 cit. e 589 c.p.) l’errato riferimento alla sufficienza della semplice causalità materiale tra delitto ed evento morte in contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 22676 del 2009. La morte deve, infatti, essere in concreto rimproverabile secondo un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita mentre la Corte ha valorizzato il fatto che il D.W. non avrebbe dovuto far assumere il quantitativo di stupefacente alla D.S. giacché questa non ne aveva mai o quasi mai fatto uso. In realtà il decesso non sarebbe avvenuto per un precario stato di salute o per il congiunto uso di psicofarmaci ma per mera intolleranza narcotica, riscontrabile solo all’esito di una frequentazione tra i due, insussistente nella specie, stante l’amicizia stretta lo stesso giorno dei fatti. D’altra parte, come riscontrato dalle analisi alcolimetriche effettuate (che avevano dato un esito di 0,6 gr/l), l’ingestione di alcolici sarebbe stata minima, così da escludere il prevedibile prolungamento degli effetti eccitanti della sostanza psicotropa.

Considerato in diritto

3. Il primo motivo è manifestamente infondato anche a voler prescindere dall’indirizzo di questa Corte secondo cui, a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. n. 272 del 2005, convertito in L. n. 49 del 2006, l’acquisto, la detenzione e la successiva cessione al “mandante” di sostanza stupefacente in caso di uso di gruppo integrano comunque il reato di cui all’art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e non l’illecito amministrativo previsto dall’art. 75 del citato decreto, circoscrivendosi l’ambito sanzionatorio di rilevanza amministrativa alle sole ipotesi di uso “esclusivamente personale” dello stupefacente (ex plurimis, Sez. 3, n. 35706 del 20/04/2001, Garofalo, Rv. 251228). Per la configurabilità dell’ipotesi di codetenzione per uso di gruppo di sostanza stupefacente, non punibile in base all’art. 75 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, infatti, occorre la prova rigorosa che la droga sia stata acquistata in comune, con il denaro cioè di tutti i partecipanti al gruppo ed allo scopo di destinarla al consumo esclusivo dei medesimi. Se l’acquisto e il consumo rimangono circoscritti all’interno del gruppo degli assuntori, è irrilevante che la sostanza sia detenuta da uno solo di essi, in quanto l’intero quantitativo è idealmente divisibile in quote corrispondenti al numero dei menzionati partecipanti. In difetto di ciò, sussiste per il detentore il reato di cessione, sia pure gratuita, a terzi di sostanza stupefacente (Sez. 4, n. 35682 del 10/07/2007, Di Riso, Rv. 237776). Nella specie, la Corte territoriale, anche richiamando la sentenza di primo grado, ha posto in rilievo che non solo la prova di un acquisto effettuato anche col denaro della ragazza, versato prima o dopo detto acquisto, manca ma, anzi, appare contrastata dall’elemento sottolineato nella sentenza di primo grado, secondo cui la somma di lire 200.000 di cui la ragazza disponeva sin dalla sera prima, era stata spesa solo nella parte di lire 6.000. Sotto un altro profilo la sentenza di primo grado ha motivatamente concluso nel senso che l’iniziativa dell’acquisto ebbe a partire dal solo D.W. tenuto conto che l’assunzione della dose letale del 31/5/2001 fu per la ragazza una delle prime se non la prima, che ella non conosceva spacciatori e che l’albergo fu scelto e pagato dal D.W.
4. Quanto al secondo motivo, va ricordato che, secondo l’indirizzo di questa Corte avallato dalle Sezioni Unite, la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale (Sez. U., n. 22676 del 22/01/2009, Ronci, Rv. 243381). Si è in particolare osservato che anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, da un altro lato, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi. Occorre quindi che l’agente abbia violato una regola cautelare diversa dalla norma (della legge sugli stupefacenti) che incrimina il delitto base e che sia specificamente diretta a prevenire la morte o le lesioni personali. Occorre poi una valutazione positiva di prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento, compiuta ex ante, sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello, tenendo peraltro conto di tutte le circostanze della concreta e reale situazione di fatto. Si deve pertanto verificare se dal punto di vista di un agente modello, nella situazione concreta, risultava prevedibile l’evento morte come conseguenza dell’assunzione, da parte di uno specifico soggetto, di una determinata dose di droga. È poi evidente che per agente modello non si deve intendere uno “spacciatore modello”, ma una persona ragionevole, fornita, ai pari dell’agente reale, di esperienza nel campo della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e consapevole della natura e dei normali effetti della sostanza che cede. La pronuncia delle Sezioni Unite ha anche aggiunto doversi in via generale escludere la responsabilità del cedente per la morte del cessionario in tutte le ipotesi in cui la morte risulti in concreto imprevedibile, in quanto intervenuta per effetto di fattori non noti o non rappresentabili dal cedente, come potrebbe verificarsi, ad esempio, nel caso di cessione di una sostanza “normale” per qualità e quantità e di morte dovuta alla contemporanea assunzione di alcol che abbia accentuato gli effetti della droga (a meno che lo spacciatore sapesse che la vittima era dedita all’uso di alcol o intendesse farne uso in quella occasione); o nel caso di consumo dello stupefacente congiunto all’uso di psicofarmaci, o di consumo da parte di soggetto apparentemente giovane e in buono stato di salute, ma in realtà con gravi difetti fisici, o in precario stato di salute, o con grave vizio cardiaco; o anche nel caso in cui l’agente abbia ceduto un normale quantitativo di droga ad un soggetto presentatosi come consumatore diretto senza che fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad un terzo con un ridotto grado di tolleranza (e quindi altamente a rischio di overdose), e ciò quand’anche fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad altri.
Ciò posto, la sentenza impugnata ha fondamentalmente assunto a parametro di prevedibilità dell’evento – morte della ragazza – il fatto che quest’ultima, alla prima (se non una delle prime) esperienza di assunzione di stupefacente, ebbe ad assumerne un quantitativo addirittura esorbitante rispetto ai valori fissati per la dose letale e che l’imputato ben poteva essere consapevole del conseguente rischio di overdose in considerazione della sua acclarata pluriennale attività di spaccio di stupefacente, risalendo il suo primo precedente al 1991.
Non viene tuttavia spiegato, posto che non si dice, ad esempio, che l’imputato ebbe ad essere informato direttamente di ciò dalla ragazza, perché tale esperienza nel settore avrebbe dovuto porre in grado il D.W. di riconoscere nella D.S. persona mai prima di allora dedita all’assunzione di stupefacenti, risolvendosi pertanto una tale affermazione nell’utilizzo, come detto, non più consentito alla luce della giurisprudenza citata, di un criterio prognostico sostanzialmente coincidente, in ragione dell’assenza di elementi tratti dalla concreta e reale situazione di fatto, con una valutazione in termini di mera responsabilità oggettiva, ovvero fondata sul solo nesso di causalità astratta.
Ne consegue che la motivazione resa dai giudici di appello non appare fare corretta applicazione dei principi dettati da questa Corte e la sentenza va pertanto annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma limitatamente al delitto previsto dall’art. 586 c.p.. Rigetta nel resto il ricorso.

Depositata in Cancelleria il 24.10.2012

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