Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 8 aprile 2016, n. 6844
Ritenuto in fatto
1. – Con sentenza del luglio 2005, il Tribunale di L’Aquila rigettò la domanda proposta da S.A. e C.E. , nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio minore A. , per sentir condannare il Ministero dell’istruzione e la Scuola media statale (omissis) al risarcimento dei danni patiti dal predetto minore, il quale – durante l’orario scolastico e nel corso di una partita di calcio “particolarmente animata”, svolgentesi in assenza dell’insegnante di educazione fisica che l’aveva organizzata – riportava gravi lesioni all’occhio destro (con danno visivo quantificato nel 30% di invalidità permanente) a seguito di una violenta pallonata.
2. – Avverso tale decisione proponeva impugnazione S.A. , nelle more divenuto maggiorenne, che nel contraddittorio con il Ministero dell’istruzione, la Milano Assicurazioni S.p.A. (quale compagnia di assicurazione chiamata in causa in primo grado dal Ministero a titolo di garanzia) e la Scuola media statale “( omissis) ” (rimasta contumace) – la Corte di appello di L’Aquila rigettava con sentenza resa pubblica il 4 febbraio 2013.
2.1. – La Corte territoriale – a fronte delle censure mosse dall’appellante alla sentenza di primo grado di violazione degli artt. 2050 e 2048 cod. civ. e di erronea affermazione in ordine all’esclusione del nesso causale tra assenza dell’insegnante e verificazione del danno – osservava che il Tribunale aveva fatto buon governo delle risultanze di causa, dando preminenza, anzitutto, ad “una delle testimonianze più utili – e disinteressate – emerse dall’istruttoria”, ossia quella di Sa.Al. , compagno di gioco del S. , da cui si evinceva che l’incidente “avveniva durante una normale azione di gioco”, per esser stato il pallone calciato durante la partita da uno dei giocatori (Co.Al. ), il quale “senza volerlo da breve distanza” colpiva al volto il S. stesso.
Con ciò, soggiungeva il giudice di appello, cadendo “il sillogismo astratto e disomogeneo sviluppato dall’appellante”, non essendo la “pallonata” da “ricondursi ad una iniziativa violenta del praticante nei confronti dell’avversario, né risultando esaltata dai rilevati spintonamenti che in via concomitante altri giocatori si stavano dando, ma in un’altra zona del terreno, risultata diversa da quella in cui si stava svolgendo in quel momento l’azione”.
2.2. – Il giudice di secondo grado escludeva, quindi, che l’azione di gioco, “del tutto rientrante nella normalità della pratica”, potesse esser stata “causata o anche indirettamente accentuata da una complessiva situazione comportamentale che era degenerata e andata fuori controllo per la notevole assenza dell’insegnante durante l’azione ed il calcio della palla”, non potendo neppure “avere incidenza causale la presenza o meno dell’insegnante” rispetto all’azione materiale di danno, in quanto lo stesso, in base all’id quod plerumque accidit, non avrebbe potuto “immaginare la portata lesiva del tiro del Co. “, né tantomeno frapporsi tra detto tiro e il S. “per evitare l’impatto”.
2.3. – La Corte territoriale escludeva, infine, che potesse “avere il benché minimo rilievo” la “condizione dell’oggetto usato per la partita, il pallone vecchio con pretese sfilacciature”, giacché la lesione patita dal danneggiato non era stata determinata “da una propria sporgenza o dalla superficie logora del pallone”, bensì “dall’impatto a distanza ravvicinata della sfera in sé per sé, con il volto del S. che era collocato nei pressi dell’avversario”.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre A. S. sulla base di quattro motivi.
Resiste con controricorso la Milano Assicurazioni S.p.A., mentre non hanno svolto attività difensiva gli intimati Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e la Scuola media statale (omissis).
Considerato in diritto
1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2050 cod. civ..
La Corte territoriale avrebbe errato ad escludere la responsabilità dei convenuti ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., negando che “una partita di calcio non costituisce attività pericolosa”, posto che avrebbe dovuto avere riguardo ai mezzi adoperati e, nella specie, il dimostrato utilizzo di “un pallone assolutamente inidoneo al gioco in quanto caratterizzato dalla presenza di sfilamenti pendenti” che di molto accentuavano la sua potenzialità lesiva, trasformandolo “in un oggetto particolarmente pericoloso” per la presenza di numerose sporgenze e per essere, comunque, un pallone di cuoio, ben più pesante di un pallone di gomma.
Inoltre, il giudice di appello avrebbe errato ad escludere la responsabilità ex art. 2050 cod. civ. anche in ragione dell’omessa adozione di misure di sicurezza, concernenti non solo le predette condizioni del pallone, ma anche la sorveglianza dell’insegnante, che era del tutto mancata.
Tutte le circostanze innanzi evidenziate erano state oggetto di riscontro in base alle raccolte deposizioni testimoniali (testi D.G. , L. e M. ), che il giudice di secondo grado avrebbe omesso di valutare.
1.1. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
1.1.1. – È infondato là dove tende ad accreditare, comunque, la riconduzione dell’attività sportiva riferita al gioco del calcio nell’alveo di una attività pericolosa, in contrasto con quanto già da questa Corte affermato in ragione della natura della disciplina, che privilegia l’aspetto ludico, pur consentendo, con la pratica, l’esercizio atletico, così da essere normalmente praticata nelle scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non programmatico finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio fisico, tanto da rimanere irrilevante, ai fini della possibile responsabilità dell’insegnante di educazione fisica e dell’istituto scolastico, anche ogni indagine volta a verificare se la medesima attività faccia, o meno, parte dei programmi scolastici ministeriali (Cass., 19 gennaio 2007, n. 1197; Cass., 27 novembre 2012, n. 20982).
1.1.2. – È inammissibile là dove postula la pericolosità dell’attività per il mezzo “in concreto” adoperato giacché il pallone di calcio non può essere considerato, in sé per sé, un mezzo pericoloso, ossia un mezzo tale da presentare “connotati tipici di pericolosità eccedenti livello del normale rischio connesso all’ordinario esercizio” dell’attività medesima (cfr. Cass., 27 febbraio 1984, n. 1393), da rilevarsi in base a dati statistici, ad elementi tecnici ed alla comune esperienza (Cass., 21 dicembre 1992, n. 13530; Cass. n. 10551 del 2002, cit.)), così viepiù impingendo in un accertamento di fatto, da compiersi secondo il criterio della prognosi postuma, in base alle circostanze esistenti al momento dell’esercizio dell’attività, che è rimesso in via esclusiva al giudice di merito e la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata.
Peraltro, la censura, inammissibile sotto il profilo in esame per l’erronea prospettazione di un vizio di violazione di legge, lo è (inammissibile) anche perché manca di cogliere la ratio decidendi che assiste la sentenza impugnata, ossia l’irrilevanza delle dedotte condizioni “pericolose” del mezzo in concreto utilizzato nell’occasione (pallone di cuoio sfilacciato e con sporgenze – là dove, peraltro, le deduzioni sul peso del pallone e la ipotizzata pericolosità del materiale di confezionamento anzidetto il ricorrente non precisa di averle veicolate già nel giudizio di merito, non essendo nella stessa sentenza di appello evidenziate tra i profili di doglianza in sede di gravame e, dunque, da reputarsi nuove in questa sede, come del resto il documento che le assiste, prodotto solo con il ricorso per cassazione), per essere l’evento lesivo stato determinato soltanto dall’impatto della sfera a seguito di calcio a distanza ravvicinata con il volto del S. .
2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2048 cod. civ..
La Corte di appello avrebbe errato nell’escludere la responsabilità dei convenuti in base all’art. 2048 cod. civ., mancando di considerare che non era “stata fornita prova liberatoria da parte dell’insegnante, né circa l’impossibilità di spiegare un intervento correttivo nell’ambito della vigilanza espletata (è anzi stata dimostrata l’assenza di vigilanza), né circa l’adozione preventiva di misure disciplinari idonee ad evitare il danno”.
2.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
Il ricorrente assume sussistere, da parte della Corte territoriale, una violazione dell’art. 2048 cod. civ. e in tal senso argomenta.
Tuttavia, la decisione impugnata è conforme ai principi della materia enunciati da questa Corte, sul presupposto della disciplina dall’anzidetto tipo di responsabilità extracontrattuale.
Difatti, “in materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo verificatosi a carico di uno studente all’interno della struttura scolastica durante le ore di educazione fisica, nell’ambito dello svolgimento di una partita, ai fini della configurabilità di una responsabilità a carico della scuola ex art. 2048 cod. civ., incombe sullo studente l’onere di provare il fatto costitutivo della sua pretesa, ovvero l’illecito subito da parte di un altro studente, e sulla scuola l’onere di provare il fatto impeditivo, ovvero di non aver potuto evitare, pur avendo predisposto le necessarie cautele, il verificarsi del danno; in particolare, non può essere considerata illecita la condotta di gioco che ha provocato il danno se è stata tenuta in una fase di gioco quale normalmente si presenta nel corso della partita, e si è tradotta in un comportamento normalmente praticato per risolverla, senza danno fisico, in favore dei quello dei contendenti che se ne serve, se non è in concreto connotata da un grado di violenza ed irruenza incompatibili col contesto ambientale e con 1 età e la struttura fisica delle persone partecipanti al gioco” (Cass., 14 ottobre 2003, n. 15321).
In siffatta cornice si colloca, dunque, l’accertamento in fatto – che non è attinto dalla denunciata violazione di legge – operato dalla Corte territoriale (cfr. sintesi ai 55 2.1. e 2.2. del “Ritenuto in fatto” che precede, cui si rinvia), la quale ha riscontrato come l’evento lesivo (pallone calciato da altro allievo a breve distanza dal volto dell’avversario) si sia determinato nel corso di “una normale azione di gioco” del calcio, “rientrante nella normalità della pratica”, né violenta in sé, né “esaltata” dagli accadimenti in altra e diversa zona del terreno di gioco.
3. – Con il terzo mezzo è prospettato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., “omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti”.
Le affermazioni della Corte di appello in ordine alla valenza astratta e teorica dei fatti allegati dall’attore a fondamento della domanda (“assenza dell’insegnante nel corso della partita”; “utilizzo di un pallone di cuoio usurato e sfilacciato”; “degenerazione della partita che portava i partecipanti a spintonarsi tra loro”) sarebbero “in palese contrasto con le risultanze istruttorie emerse nel corso del giudizio di primo grado” (deposizioni L. , D.G. , M. , D.E. , Ce. ).
4. – Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 116 cod. proc. civ..
La Corte territoriale, in ordine alle circostanze relative alle condizioni del pallone, alla degenerazione della partita e dell’assenza dell’insegnante, avrebbe violato l’art. 116 cod. proc. civ. per aver omesso di “operare una esaustiva, logica e consequenziale valutazione delle prove raccolte nel corso dell’istruttoria di primo grado”, ponendo a fondamento del proprio convincimento “circostanze di fatto del tutto prive di supporto probatorio”.
4. – Il terzo e quarto motivo, da scrutinarsi congiuntamente, non possono trovare accoglimento.
4.1. – Entrambi i motivi pongono censure attinenti alla motivazione della sentenza impugnata, giacché anche la denunciata violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., in guisa di error in procedendo, risolvendosi in una critica sulla scelta e sulla valutazione dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione, quale compito rimesso all’apprezzamento discrezionale, ancorché motivato, del giudice di merito, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione.
4.2. – Ciò posto, occorre rammentare che il vizio di motivazione denunciato con il presente motivo di ricorso quale atto di impugnazione avverso sentenza del 4 febbraio 2013 – è da sussumere sotto il paradigma della nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., introdotta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134.
Sicché, alla luce della giurisprudenza di questa Corte (Caso., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053), si tratta di un vizio “relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
Con l’ulteriore puntualizzazione per cui “la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili” (tra le altre, Cass., 9 giugno 2014, n. 12928).
4.3. – Alla luce dei ricordati principi la motivazione adottata dalla Corte territoriale si sottrae alle censure del ricorrente, giacché essa ha considerato e valutato i fatti (“assenza dell’insegnante nel corso della partita”; “utilizzo di un pallone di cuoio usurato e sfilacciato”; “degenerazione della partita che portava i partecipanti a spintonarsi tra loro”) di cui è (solo formalmente) lamentato l’omesso esame, là dove, invero, la sostanza delle censure involgono (in modo inammissibile) un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie rispetto a quello fornito dal giudice del merito, al quale soltanto spetta il relativo compito, altresì esorbitando dal paradigma censorio di cui al novellato art. 5 dell’art. 360 citato.
5. – Il ricorso deve, dunque, essere rigettato e il ricorrente condannato, ai sensi dell’art. 385, primo comma, cod., proc. civ., al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate come in dispositivo in conformità ai parametri introdotti dal d.m. 10 marzo 2014, n. 55.
Nulla è da disporsi in punto di regolamentazione di dette spese nei confronti delle parti intimate che non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida, in favore della società controricorrente, in complessivi Euro 5.600,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Al sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
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