Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 6 ottobre 2015, n. 40103

Ritenuto in fatto

1. Il sig. C.S.G. ricorre, per il tramite del difensore di fiducia, per l’annullamento della sentenza del 28/06/2013 della Corte di appello di Firenze che, in riforma dell’assoluzione decisa dal Tribunale di Pisa impugnata dalla sola parte civile, lo ha condannato al risarcimento del danno in favore di quest’ultima, sig. T.O. , in proprio e quale legale rappresentante della “Società Oliviero Toscani Progetto La Sterpaia s.r.l.”.
1.1. L’imputato risponde, in particolare, del reato di cui all’art. 167, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, commesso in XXXX nel mese di ottobre 2007 perché, al fine di trame profitto e di recare danno alla persona offesa, aveva proceduto, senza il loro consenso, al trattamento dei dati personali di T.O. e Ce.Gr. trasmettendo ai due siti internet (OMISSIS) e (OMISSIS) fotografie che li ritraevano in attività professionali con i relativi commenti scritti; fotografie e commenti che, in violazione dell’art. 23, d.lgs. n. 196 del 2003, erano stati diffusi in rete, con conseguente nocumento delle persone offese derivante dallo scioglimento delle relazioni professionali in relazione alle quali stavano effettuando le attività riprese e indebitamente diffuse.
1.2. Secondo il giudice di prime cure non v’è alcuna prova certa che nel caso di specie dal fatto fosse derivato alle persone offese il “vulnus” patrimoniale ritenuto necessario per l’integrazione della causa di non punibilità di cui all’art. 167, d.lgs. 196 del 2003, come descritto dalla rubrica. In particolare, ha affermato, non vi è alcuna prova certa che la condotta posta in essere dall’imputato potesse aver determinato la rottura delle relazioni professionali con (OMISSIS) e ciò sul rilievo che non è stato accertato in modo incontrovertibile che il servizio del T. dovesse costituire uno “scoop” per la rivista, bruciato, appunto, dall’iniziativa del C. . Non c’è alcuna prova, insomma, che sulla realizzazione del servizio fotografico ad opera del T. prevalesse lo “scoop” giornalistico del suo incontro con il Ce. che si era reso recentemente protagonista di iniziative clamorose come la colorazione di rosso della (OMISSIS) . Anche il T. aveva ammesso che in realtà il vero danno era rappresentato dalla perdita della sua affidabilità, con ciò in qualche modo concorrendo a rendere poco credibile la testimonianza del legale rappresentante della sua società che, senza fornire dati precisi sul presunto accordo con la rivista, aveva evidenziato l’interesse allo scoop piuttosto che alla provenienza del servizio dalla mano del T. . Non è chiaro, insomma, secondo il giudice di prime cure, se il servizio fu realizzato su commissione, essendone incerto persino il corrispettivo e l’interruzione delle relazioni professionali che appare conseguenza poco credibile alla luce della notorietà di cui gode il T. . La diffusione di alcune fotografie scattate da un dilettante che ritraggono il T. ed il Ce. sul set fotografico, conclude il Tribunale, fotografie di per sé non sconvenienti, né lesive della dignità delle persone, non costituisce apprezzabile lesione della privacy di due persone di pubblica notorietà.
1.3.Le opposte conclusioni alle quali è pervenuta la Corte territoriale si basano su due considerazioni: a) la nozione di “nocumento” di cui all’art. 166, cit., non si identifica con quella civilistica di “danno”; b) sussistono prove più che sufficienti per affermare che, nel caso in esame, sono stati causati danni di natura patrimoniale e non patrimoniale. In particolare, quanto al danno patrimoniale, i giudici distrettuali hanno tratto il proprio convincimento della sua sussistenza dalla deposizione del T. (che questi, nel suo atto di appello, aveva affermato esser stata immotivatamente disattesa) e di quelle dei suoi collaboratori, ma anche dalle missive intercorse tra la “Oliviero Toscani Progetto La Sterpaia S.r.l.” e (OMISSIS) , nelle quali si faceva riferimento al rapporto contrattuale inerente il servizio fotografico in esclusiva per la rivista, risolto a causa della condotta del C. . Da una missiva inviata alla società del T. , prosegue la Corte territoriale, emerge la prova che la rivista puntasse allo scoop, peraltro di qualità, dell’incontro con il Ce. , autore del clamoroso gesto di colorazione della fontana di XXXXX resosi irreperibile nel timore di possibili sanzioni. Non v’è dubbio, pertanto, che la risoluzione del rapporto contrattuale possa aver determinato la perdita del compenso, anche se non ancora determinato. Comunque, proseguono, aldilà del fatto che, ove non si fosse perfezionato l’accordo con (OMISSIS) , il T. non avrebbe avuto difficoltà a piazzare il servizio, certamente i costi per l’allestimento del set non gli erano stati rimborsati. È vero che non v’è prova che il T. abbia interrotto i rapporti professionali con la rivista, ma è altrettanto vero che egli aveva comunque subito un danno alla propria immagine e credibilità professionale di natura non patrimoniale. Indubbio, pertanto, è il nocumento patrimoniale e morale derivante dalla condotta dell’imputato. Questi, che aveva ospitato gratuitamente il set fotografico, era stato avvertito, dal canto suo, che il T. stava operando per un committente e gli era stata raccomandata la massima riservatezza. Pur potendo credersi alla personale convinzione dell’imputato che il T. intendesse dimostrare la propria solidarietà al Ce. (circostanza confermata dalla stessa parte civile), ciò non esclude il dolo specifico di trarre profitto dalla propria azione, reso evidente dal fatto che in tutti gli articoli successivamente pubblicati era stato ben messo in evidenza il fatto che egli fosse un regista e il gestore del residence nel quale il servizio era stato realizzato. Il dolo, conclude la Corte di appello, non deve avere ad oggetto il nocumento procurato, trattandosi di condizione di punibilità.
2. Per l’annullamento della sentenza ricorre il C. articolando, per il tramite del difensore di fiducia, unico motivo di ricorso con il quale eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’errata applicazione dell’art. 167, d.lgs. 196 del 2003, nonché l’illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza della condizione obiettiva di punibilità richiesta dalla fattispecie contestata.
La funzione della condizione di non punibilità è quella di filtrare condotte effettivamente offensive; il nocumento, che certifica l’inevitabilità dell’esigenza punitiva, deve necessariamente essere del tutto estraneo all’offesa al bene protetto ed espressione di una politica criminale che tiene conto della concorrente tutela di interessi ben distinti. Sicché erra la Corte di appello che, pur formalmente dichiarando di voler aderire a questa interpretazione (pur fatta propria dalla sentenza di questa Corte di cassazione Sez. 3^ penale, n. 23798 del 24/05/2012, richiamata in motivazione) di fatto se ne discosta quando finisce per identificare il nocumento con il mero evento del reato (il trattamento illecito, cioè, dei dati personali).
Tale artifizio motivazionale si è reso necessario perché anche alla Corte distrettuale era risultato evidente quel che era già in primo grado: la mancanza di prova del “vulnus” concretamente patito dalla parte civile.
Dalla lettura stessa della sentenza emerge che non solo che non v’è prova alcuna del nesso di causalità tra la condotta incriminata e il “vulnus” ipotizzato, ma che non v’è prova nemmeno degli accordi relativi al servizio fotografico che la rivista ed il professionista avrebbero concluso. Mancano contratti, accordi di esclusiva, documenti attestanti trattative tra le parti, nulla insomma che riscontri l’effettiva interruzione del rapporto professionale. È la stessa sentenza impugnata a dare atto di come non vi sia prova adeguata del fatto che il T. avesse interrotto i propri rapporti con (OMISSIS) .
La mancanza di prova in ordine ai contenuti dell’accordo con la rivista e alla sua natura patrimoniale rende impossibile comprendere in cosa consista il danno, non essendo chiaro se oggetto dell’accordo fosse lo scoop fotografico o il valore artistico del connubio che legava i due artisti.
Non v’è prova nemmeno del compenso che sarebbe spettato all’artista se è vero che fu proprio il T. a qualificare l’operazione come una manifestazione di solidarietà, tant’è che anche l’imputato non pretese nulla per l’ospitalità offerta.
Non a caso la Corte di appello ha rimandato al giudice civile per la determinazione del danno, non avendo elementi nemmeno per quantificarlo.
3. La parte civile ha depositato una memoria con la quale ha difeso la sentenza impugnata evidenziando come i giudici distrettuali abbiano correttamente individuato il nocumento subito dal T. , consistito nel danno patrimoniale (forzata interruzione del rapporto con la rivista, mancato pagamento del corrispettivo) e non patrimoniale (danno alla immagine ed alla credibilità professionale) subito a causa del comportamento dell’imputato. Nel resto, aggiunge, il ricorso è inammissibile poiché non fa altro che proporre una lettura alternativa del compendio probatorio analizzato dalla Corte di appello; compendio che, in ogni caso, la parte civile illustra essa stessa a dimostrazione della totale infondatezza del ricorso.

Considerato in diritto

4. Il ricorso è fondato.
5.L’art. 167, comma 1, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, intitolato “Trattamento illecito di dati”, punisce con la reclusione da uno a tre anni la condotta di chi, al fine di trame profitto per sé o per altri o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo 129, “se dal fatto deriva nocumento”.
5.1. Il precedente art. 35, legge 31 dicembre 1996, n. 675 (abrogato dall’art. 183, d.lgs. n. 196 del 2003), intitolato “Trattamento illecito di dati personali”, descriveva la condotta nei seguenti termini: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trame per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 11, 20 e 27, è punito con la reclusione sino a due anni o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da tre mesi a due anni”. La pena era aggravata “se dal fatto deriva nocumento”.
5.2. Come affermato da questa Corte, per “nocumento” deve intendersi un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura patrimoniale o non patrimoniale, subito dalla persona alla quale si riferiscono i dati o le informazioni protetti (così, Sez. 3, n. 30134 del 28/05/2004, Barone, Rv. 229472; Sez. 5, n. 51089 del 12/05/2014, Rv. 261726; Sez. 3, n. 23798 del 24/05/2012; cfr. altresì Sez. 5, n. 44940 del 28/09/2011, Rv. 251448), ma anche da terzi (Sez. 3, n. 17215 del 17/02/2011, Rv. 249991; Sez. 3, n. 7504 del 16/07/2013). Il nocumento può anche coincidere, nei fatti, con il c.d. “danno-evento” di matrice civilistica ma non è giuridicamente sovrapponibile ad esso e soprattutto non va confuso con il c.d. “danno-conseguenza” risarcibile ai sensi degli artt. 185, cod. pen., e 2043 e 2059, cod. civ.. Come bene ed articolatamente spiegato da Sez. 3, n. 23798 del 2012, cit., il “nocumento” assolve alla funzione di dare “effettività” alla tutela della riservatezza dei dati personali ed ha un suo nucleo di dannosità che è certamente meno ampio di quello civilistico e non può essere confuso con esso.
5.3. La “trasformazione” del “nocumento” da circostanza aggravante del reato a condizione obiettiva “intrinseca” di punibilità è tesi pressoché unanimemente accolta dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 28680 del 26/03/2004, Modena, Rv. 229465; Sez. 3, n. 30134 del 28/05/2004, Barone, Rv. 229472; Sez. 3, n. 16145 del 05/03/2008, Amorosi, Rv. 239898; Sez. 5, n. 44940 del 28/09/2011, Rv. 251448; Sez. 2, n. 36365 del 07/05/2013, Braccini; cfr., però, Sez. 3, n. 38406 del 09/07/2008, Falliani, Rv. 241381, che qualifica il “nocumento” come elemento essenziale del reato), ma è contrastata in dottrina, parte della quale ritiene, per converso, trattarsi di vero e proprio elemento costitutivo del reato.
5.4. Sez. 3, n. 30134 del 2004, cit., che si è posta espressamente il problema, lo ha risolto a favore della qualificazione del “nocumento” come condizione obiettiva di punibilità, rilevando come, altrimenti ragionando, sarebbe contraddittorio qualificare come elemento costitutivo del reato un elemento che il dolo specifico di danno colloca al di fuori della fattispecie. Si tratterebbe, in ogni caso, di condizione “intrinseca” di punibilità che individua il momento nel quale la progressione criminosa con l’interesse tutelato con la norma incriminatrice rende non più tollerabile l’iniziale offesa al medesimo bene (nello stesso senso anche Sez. 3, n. 28680 del 2004, cit., secondo la quale, trattandosi di condizione intrinseca di punibilità, deve essere “coperta quantomeno dalla colpa”).
5.5. Le condizioni obiettive di punibilità di cui all’art. 44, cod. pen., il cui avverarsi prescinde dalla volontà del colpevole, assolvono, sul piano storico, al compito di tipizzare i fatti ai quali il legislatore subordina la punibilità di un reato già perfetto in ogni suo aspetto. Si deve trattare, dunque, di un fatto estraneo all’offesa, che non ha alcuna relazione causale e/o psicologica con la condotta dell’autore del reato.
5.6. La Corte Costituzionale ricorda che “il fatto offensivo costituente reato è, in quanto tale, meritevole di pena, nel senso che sono in esso presenti i requisiti sufficienti per tracciare il confine tra la sfera del lecito e quella dell’illecito e per giustificare il ricorso alla sanzione criminale. La previsione normativa deve essere, pertanto, espressa e resa in forma determinata, per assicurare, attraverso la certezza dell’incriminazione, la libertà dei cittadini. Non in tutti i fatti meritevoli di pena è però rinvenibile anche un’esigenza effettiva di pena: la punibilità del reato può (allora) essere subordinata ad elementi di varia natura, nei quali si cristallizza una valutazione d’opportunità politica, estranea al contenuto dell’offesa e dipendente dal modo con cui è apprezzata la sua rilevanza in concreto per l’ordinamento. Tali elementi condizionanti fungono, in pratica, come si è più volte notato, da filtro selettivo nel ricorso alla sanzione criminale per fatti pur meritevoli di pena; ma, non concorrendo a definire il discrimine fra lecito ed illecito, non devono sottostare ad un’esigenza di determinatezza in funzione di garanzia della libertà (assicurata con la previsione di un’offesa dal contenuto tipico tassativamente definito) bensì in funzione della parità di trattamento tra gli autori del fatto illecito, la cui selezione repressiva non può porsi in contrasto con il principio d’uguaglianza. La precisazione sembra corrispondere al significato assunto dalle condizioni obiettive di punibilità nella prospettiva storica. Com’è noto, l’apprezzamento discrezionale della punibilità dei reati rappresentava una costante nel diritto penale dell’antico regime, con forme svariate ed in dipendenza di molteplici fattori d’ordine personale, sociale e politico. Il diritto penale moderno, in nome di un’esigenza ugualitaria, ha sancito, invece, il principio del nesso indefettibile tra reato e punibilità; ma la consapevolezza che, in alcuni casi, tale nesso indefettibile contrastava con ragioni di opportunità obiettivamente rilevanti, ha indotto a mantenere, in tali casi, la presenza, in forma tipica, di elementi condizionanti la punibilità, perequando l’efficacia degli stessi elementi sul piano dell’uguaglianza e togliendo loro il carattere di privilegio arbitrario” (Sent. n. 247 del 15-16 maggio 1989). Le condizioni di punibilità si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, primo comma, Cost. perché estranee alla materia del precetto violato con la condotta del colpevole (Corte Cost.le, sentenza n. 1085 del 13 dicembre 1988).
5.7.Sez. U, n. 13954 del 06/07/1990, De Candia, ha condivisibilmente affermato che “la condizione di punibilità, in senso proprio, è tale solo se è al di fuori di ogni relazione causale, sia di carattere materiale che psicologico, con l’azione del colpevole e, quindi, non è sussumibile nel fatto o nell’obiettività giuridica che lo caratterizza, ma è riconducibile a circostanze estrinseche, benché comprese nel quadro dei valori o degli interessi assunti a giustificazione dell’intervento repressivo della legge penale” (nello stesso senso anche Sez. U, n. 2 del 25/01/2008, Mezzo, secondo cui la condizione obiettiva di punibilità, quali che siano le incertezze in ordine alla esatta nozione della stessa, risponde alla caratteristica di non fare parte dell’insieme degli elementi necessari per la esistenza del reato, questo inteso come fatto lesivo di un interesse penalmente protetto; si veda, altresì, Sez. 6, n. 44396 del 07/12/2005, Scuteri, secondo la quale l’inottemperanza all’ingiunzione non costituisce condizione obiettiva di punibilità del reato di cui all’art. 388, comma 1, cod. pen.: “Se infatti ci si riporta alla costruzione dogmatica largamente prevalente, secondo cui la condizione di punibilità è un elemento futuro e incerto il cui verificarsi non dipende dalla volontà dell’imputato, non si vede come possa sfuggirsi alla conclusione che, mentre condizione di punibilità è l’ingiunzione ad adempiere, che ricade nella sfera degli atti riconducibili alla volontà della persona danneggiata dal reato – ed estranea quindi alla volontà dell’imputato – l’inottemperanza in sé è avvenimento risalente alla volontà del debitore e che entra a far parte della fattispecie criminosa, e di essa è elemento costitutivo”).
5.8. La dottrina, ma anche la giurisprudenza di questa Suprema Corte, suole distinguere – come visto – le condizioni obiettive estrinseche (o “proprie”, disciplinate dall’art. 44, cod. pen.) da quelle intrinseche (o “improprie”) che, si afferma, attualizzano l’offesa di un interesse che è già potenzialmente realizzata dal fatto tipico o rendono comunque irreversibile la lesione degli interessi già offesi dalla condotta tipica. Non si tratta solo di una questione terminologica; tale distinzione risponde all’insopprimibile esigenza, costituzionalmente imposta, di ricondurre nell’alveo della responsabilità colpevole di cui all’art. 27, Cost., le conseguenze della condotta che attengono agli elementi più significativi della fattispecie tipica e dunque al nucleo essenziale del precetto (e dell’offesa) (Corte Cost.le, sentenza n. 364 del 23/03/1988).
5.9. Ma proprio per questo la necessità di tale distinzione, volta a ribadire che, per le condizioni intrinseche di punibilità, è necessaria quantomeno la colpa, desta più di qualche perplessità: la soglia della penale rilevanza è unica, al di sotto di essa esiste solo la irrilevanza penale del fatto. Questo concetto è stato ben espresso da questa stessa Corte di cassazione allorquando, nell’affermare che la sentenza dichiarativa di fallimento non costituisce condizione di punibilità del reato di bancarotta fraudolenta, ha spiegato che tale sentenza non produce l’effetto di rendere possibile l’esercizio dell’azione penale in relazione a fatti che ancor prima della sua pronuncia costituivano reato, ma attribuisce il carattere di illecito penalmente perseguito a fatti che prima della sua pronuncia erano penalmente indifferenti (Sez. U, n. 2 del 25/01/1958, Mezzo, Rv. 98004; si veda altresì, Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585; Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv. 249668. La Corte Costituzionale ha a sua volta spiegato che la sentenza dichiarativa di fallimento rende effettiva ed attuale la messa in pericolo del bene protetto; cfr, Corte Cost.le, sentenza n. 110 del 27/06/1972).
5.10. A ciò si aggiunga che nei limiti in cui, come detto, tale definizione assolve al compito di esigere il collegamento del fatto dal quale deriva la punibilità del reato ad un atteggiamento quantomeno colposo dell’autore della condotta, si espone all’obiezione: a) della sua sostanziale inutilità nei delitti colposi e nelle contravvenzioni; b) della punizione a titolo di colpa di elementi che qualificano la penale rilevanza di condotte punite a titolo di dolo.
5.11. Nel caso specifico, la difficoltà di qualificare il nocumento come condizione (ancorché intrinseca) di punibilità (che ne giustificherebbe l’imputazione all’autore della condotta anche a titolo di colpa), deriva dal fatto che, sul piano strutturale, esso costituisce l’evento che giustifica la punibilità del reato, cui cioè è attribuito il compito di selezionare le condotte offensive da quelle che non lo sono. Sicché è a dir poco anomalo che: a) la condotta di illecito o comunque irregolare trattamento dei dati personali deve essere voluta mentre la conseguenza che ne deriva (che segna il superamento della soglia della penale rilevanza) possa essere imputata indifferentemente anche a titolo di colpa (e dunque non voluta); b) l’elemento soggettivo doloso è cioè necessario per condotte che non rendono attuale l’offesa e che dunque sono penalmente irrilevanti, ma se ne possa prescindere per le conseguenze (il nocumento) che, come detto, rendono concreto e attuale il danno (o il pericolo di danno) e penalmente rilevante la condotta.
5.12. L’obiezione che sarebbe contraddittorio qualificare come elemento costitutivo del reato un elemento che il dolo specifico di danno colloca al di fuori della fattispecie non è convincente e vuoi provare troppo, sia perché non prende in considerazione il dolo specifico di profitto (eterogeneo rispetto al nocumento); sia perché non necessariamente la persona che ha subito il nocumento si identifica con quella alla quella alla quale l’autore del reato intende recar danno; sia perché si tratta di evenienza tutt’altro che infrequente nell’ordinamento penale. Anche nei delitti in materia di dichiarazione di cui agli artt. 3, 4 e 5, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per fare un esempio, al dolo specifico di evasione delle imposte si accompagna, come elemento costitutivo del reato, l’effettiva evasione di imposta per importi superiori ad una certa soglia.
5.13. Lo spostamento del nocumento da circostanza aggravante di un reato già perfetto (attribuibile al colpevole anche a titolo di colpa) a fatto selettivo di condotte penalmente rilevanti, non giustifica pertanto la sua qualificazione come condizione obiettiva di punibilità (ancorché intrinseca). La sua omogeneità rispetto all’interesso leso o concretamente messo in pericolo e la sua diretta derivazione causale dalla condotta tipica costituiscono, anche secondo la dottrina più accreditata, indici di qualificazione come elemento costitutivo reato, piuttosto che estraneo ad esso.
5.14. Si tratta, dunque, di un elemento costitutivo del reato, punibile, nel caso di specie, a titolo di dolo.
5.15. Ne consegue che il “nocumento” deve essere previsto e voluto come conseguenza della propria azione, indipendentemente dal fatto che costituisca o si identifichi con il fine dell’azione stessa; è sufficiente, quando ciò non accada (quando cioè il fine sia quello di trarre profitto dall’illecito trattamento dei dati o di recare danno a persona diversa da quella oggetto di trattamento), che il nocumento sia anche solo previsto e accettato come conseguenza della condotta. Non è perciò sufficiente che esso costituisca conseguenza non voluta (ancorché prevista o prevedibile) dell’illecito trattamento dei dati personali.
5.16. Erra pertanto la Corte di appello quando afferma che “non è necessario dimostrare che il C. fosse consapevole e volesse provocare nocumento al T. , atteso che la condizione di punibilità non deve essere oggetto di dolo”.
6. Il nocumento che sarebbe derivato dalla diffusione delle fotografie ritraenti il T. ed il Ce. è indicato con chiarezza nel capo di imputazione: “lo scioglimento delle relazioni professionali per le quali le persone offese stavano effettuando le attività indebitamente diffuse”. Il richiamo allo specifico oggetto dell’illecita diffusione, contestualizza la rottura delle relazioni professionali allo specifico rapporto il cui oggetto (si ipotizza) era proprio lo “scoop” dell’incontro con il Ce. .
6.1. Si tratta di pregiudizio che di per sé può costituire “nocumento” ai fini del reato per il quale si procede (c.d. “danno-evento”) per la cui sussistenza, pertanto, non è necessario, se non a fini risarcitori, accertare quali ulteriori danni (patrimoniali o non patrimoniali) siano derivati alla persona i cui dati sono stati trattati senza il consenso.
6.2. Quel che è necessario (e sufficiente) è stabilire perciò se la risoluzione del contratto con la rivista v’è stata, se la condotta dell’imputato vi ha dato causa, se questi l’ha prevista e voluta (o anche solo consapevolmente accettata) come conseguenza della condotta finalizzata a trarre profitto dalla divulgazione delle fotografie.
6.3. Il Tribunale non aveva ritenuto provato che dall’azione dell’imputato fosse derivata la definitiva rottura dei rapporti con la rivista (OMISSIS) e ciò sul rilievo che non v’è prova che oggetto dell’accordo con la rivista fosse proprio l’incontro con il Ce. .
6.4. La Corte di appello, che si concentra in buona parte sull’accertamento delle conseguenze patrimoniali e non patrimoniali (in termini di perdita di immagine e di credibilità) subite dal T. in conseguenza dell’iniziativa del C. , allargando il concetto di “nocumento” al c.d. “danno-conseguenza” ma, sopratutto, espandendolo oltre i confini della contestazione specifica, assume un atteggiamento chiaro sul punto perché, partendo dal presupposto che oggetto dello “scoop” giornalistico fosse invece proprio l’incontro con il Ce. , da un lato afferma che non v’è prova che il T. abbia interrotto i rapporti con la rivista, dall’altro che lo specifico rapporto contrattuale era stato tuttavia risolto.
6.5. Le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, sul punto, sono del tutto coerenti con le premesse fattuali del ragionamento che a loro volta si basano sulle prove testimoniali e documentali specificamente indicate nella motivazione delle quali l’imputato non eccepisce il travisamento e che certamente non possono essere rivalutate in questa sede di legittimità. Le eccezioni difensive sono sul punto deboli e decisamente inammissibili nella misura in cui spingono questa Corte a estendere il proprio esame a fatti estranei al testo del provvedimento impugnato.
6.6. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello (art. 622, cod. proc. pen.) che provvederà a liquidare, se del caso, le spese relative al presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

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