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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 5 marzo 2015, n. 9633

Ritenuto in fatto

Con ordinanza del 10 ottobre 2014 il Tribunale di Torino ha rigettato la richiesta di riesame formulata dal M.S. avverso il provvedimento di sequestro preventivo disposto nei confronti dell’esercizio pubblico da quello gestito, denominato (omissis) , con decreto del Gip di Ivrea del 23 settembre 2014.
Nel disattendere la richiesta di riesame il Tribunale subalpino ha rilevato che il M. è indagato in relazione al reato di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen., in quanto nella qualità di gestore del predetto esercizio commerciale avrebbe diffuso musica ad alto volume che, attraverso le porte lasciate aperte, si sarebbe diffusa sulla pubblica via e perché avrebbe favorito lo stazionamento sulla strada e nel cortile retrostante il locale dei clienti i quali avrebbero ivi assunto bevande schiamazzando anche in ore notturne.
Ha proposto ricorso per cassazione avverso il predetto provvedimento il M. deducendo la assenza degli elementi giustificativi per la adozione del provvedimento cautelare.
In particolare egli ha evidenziato di avere fatto quanto era in suo potere per limitare la invadenza acustica derivante dalla presenza degli avventori del suo locale nell’ambiente ad esso circostante.
Il ricorrente ha, altresì, evidenziato la omessa motivazione in ordine alla derivazione delle immissioni sonore in ipotesi moleste dal locale da lui gestito e non dagli altri locali pur presenti in zona, nonché in ordine alla esclusa adeguatezza a salvaguardare gli interessi tutelati con il provvedimento impugnato di fronte al Tribunale di Torino del solo sequestro dell’apparato utilizzato all’interno di esso per la diffusione della musica.

Considerato in diritto

Il ricorso, risultato fondato nei termini che saranno di seguito chiariti, deve pertanto essere accolto come da motivazione che segue.
Deve, preliminarmente, ricordarsi che il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti cautelari reali è consentito nei soli limiti derivanti dalla deduzione della violazione di legge, secondo l’espresso dettato dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen..
Va, d’altra parte, precisato che, per costante orientamento giurisprudenziale, disponendo l’art. 125, comma 3, cod. proc. pen. che le sentenze e le ordinanze emesse dal giudice debbano essere motivate a pena di nullità, laddove il lamentato vizio della motivazione del provvedimento cautelare reale si traduca in una censura talmente radicale di essa tale da condurre alla affermazione che la stessa, stante la impossibilità di ricostruire l’iter logico seguito dal giudicante, sia meramente apparente, la doglianza effettivamente dedotta consiste in una violazione di legge come tale astrattamente ammissibile anche in caso di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen. (in tal senso da ultimo: Corte di cassazione, Sezione IV, 17 ottobre 2014, n. 43480).
Sempre in via preliminare va ricordato, preso atto della circostanza che nei confronti dell’indagato sì procede in ordine alla violazione dell’art. 659, primo comma, cod. pen., che la detta disposizione codicistica prevede due distinte fattispecie di reato; l’una, sanzionata appunto dal primo comma dell’art. 659, si verifica allorquando l’evento costituivo dell’illecito, cioè il disturbo del riposo o delle occupazioni delle persone, derivi da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; l’altra, prevista dal secondo comma della medesima disposizione, si ha qualora la violazione dei limiti relativi alla liceità delle immissioni sonore riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle direttamente impositive i limiti di immissioni acustica (Corte di cassazione, Sezione III penale, 9 ottobre 2014, n. 42026).
Come detto nel caso che interessa il sequestro di cui si discute è stato adottato nell’ambito di una indagine avente ad oggetto la violazione dell’art. 659, comma 1, cod. pen..
A tale proposito rammenta il Collegio che, ancora di recente, questa stessa Sezione, in una fattispecie assai simile alla presente, ha avuto occasione di ribadire che la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato che il gestore di un esercizio commerciale è responsabile del reato di cui all’art. 659 c.p., comma 1, per i continui schiamazzi e rumori provocati dagli avventori dello stesso, con disturbo delle persone. Infatti la qualità di titolare della gestione dell’esercizio pubblico comporta l’assunzione dell’obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza. Perché, però, l’evento possa essere addebitato al gestore dell’esercizio commerciale è necessario che esso sia riconducibile al mancato esercizio del potere di controllo e sia quindi collegato da nesso di causalità con tale omissione.
Laddove gli schiamazzi o i rumori avvengano all’interno dell’esercizio non c’è dubbio che il gestore abbia la possibilità di assolvere l’obbligo di controllo degli avventori, impedendo loro comportamenti che si pongano in contrasto con le norme di polizia di sicurezza, ricorrendo, ove necessario, al cosiddetto ius excludendi in danno di coloro che, con il loro comportamento, realizzino tale contrasto.
Ma se il disturbo del riposo e delle occupazioni da parte degli avventori dell’esercizio pubblico avvenga, come nell’occasione, all’esterno del locale, per poter configurare la responsabilità del gestore è necessario quanto meno fornire elementi atti a evidenziare che egli non abbia esercitato il potere di controllo e che a tale omissione sia riconducibile la verificazione dell’evento (Corte di cassazione, Sezione III, 5 settembre 2014, n. 37196).
Nel caso ora in esame il Tribunale di Torino, che pur riconosce il fatto che il M. si è concretamente attivato per scongiurare che si verifichino i lamentati disturbi alla quiete pubblica al di fuori del locale da lui gestito, apponendo a tal fine cartelli coi quali si invitano gli avventori a non sostare sul marciapiede ed a non schiamazzare, adibendo persino due suoi collaboratori al controllo del rispetto di quanto sopra, attribuisce, in maniera priva di alcuna motivazione, un potere in capo all’indagato di “sanzionare” le eventuali infrazioni, il cui mancato esercizio si porrebbe quale fattore causale idoneo a fondare la responsabilità del ricorrente in ordine al reato a lui ascritto in sede di imputazione provvisoria.
Siffatto potere, osserva ancora il Tribunale, si sarebbe dovuto realizzare o non somministrando nuove bevande agli avventori ovvero allertando la Forza pubblica.
Rileva la Corte, quanto alla seconda cautela suggerita dal giudice del riesame che lo stesso organo, facendo riferimento ai ripetuti accertamenti condotti dalla polizia giudiziaria, da atto dell’avvenuto intervento di questa, di tal che sarebbe stato inutile da parte del M. a sua volta convocare ulteriormente la Forza pubblica, la quale, d’altra parte, non risulta che abbia, nel corso dei suoi interventi, adottato provvedimenti sanzionatori nei confronti dei pretesi disturbatori; mentre, quanto alla prima misura, in disparte ogni questione in ordine alla, solo postulata dal Tribunale, ricorrenza delle condizioni per la sua astratta possibile attuabilità, attesa la natura di esercizio pubblico del locale gestito dal M. , essa, per essere almeno in parte efficace e non inutilmente discriminatoria, avrebbe presupposto che il M. avesse identificato nei soggetti cui rifiutare la somministrazione di bevande coloro i quali si davano schiamazzi, cosa che, avvenendo tali condotte al di fuori del locale, non si vede come il M. avrebbe potuto fare.
Osserva, altresì, la Corte che, con riferimento al requisito della necessaria proporzionalità ed adeguatezza della misura disposta, questa Corte ha avuto modo di ribadire che i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità – dettati dall’art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali – sono applicabili anche al sequestro preventivo, dovendo il giudice motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva (Corte di cassazione, Sezione III penale, 26 maggio 2014, n. 21271).
Al riguardo, con specifico riferimento alla asserita provenienza di immissioni sonore dall’interno del locale, derivanti dall’uso eccessivo di impianti di amplificazione musicale, il Tribunale, con argomentazione francamente non comprensibile, esclude che il sequestro potesse essere limitato, invece che all’intero locale, al solo impianto di amplificazione atteso che in quel caso il M. avrebbe potuto legittimamente fare uso di altro diverso impianto.
Sul punto osserva la Corte che non si vede la ragione per la quale siffatta circostanza, proprio per la adozione dell’avverbio “legittimamente” da parte del Tribunale, presupponendo essa un uso di mezzi tecnici non in contrasto con gli eventuali interessi generali o specifici di terzi, avrebbe dovuto comportare la frustrazione delle finalità proprie del più contenuto strumento cautelare che, in luogo del sequestro dell’intera azienda, sarebbe stato più opportuno adottare.
La ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio al Tribunale di Torino che, nel considerare nuovamente l’istanza di riesame proposta dal M. avverso il decreto di sequestro preventivo del Gip del Tribunale di Ivrea del 23 settembre 2014, si atterrà ai principi sopraesposti.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Torino

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