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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  31 luglio 2013,  n. 18332

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 24 giugno 1986, M.F. ha convenuto davanti al Tribunale di Venezia la s.a.s. Pensione Campiello di B.N. & C., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per le lesioni riportate a seguito di una caduta sulla scala interna della Pensione, che assumeva essere pericolosa per la mancanza di un corrimano, in corrispondenza del muro adiacente. La convenuta ha resistito alla domanda, che il Tribunale ha accolto, quantificando i danni in oltre lire 121 milioni.
Proposto appello dalla società soccombente, si è costituito in luogo della F., deceduta nel frattempo, il suo erede, E.P.
Nel contraddittorio con l’appellata la Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, ha integralmente rigettato la domanda attrice, con la motivazione che la mancanza del corrimano non aveva influito sulla sicurezza della scala, “data la presenza sull’altro lato di una solida e comoda balaustra”.
4. Proposto ricorso per cassazione da E.P., con sentenza 30 luglio 2002 n. 11268 la Corte di cassazione ha annullato la sentenza di appello, con rinvio alla Corte di Venezia, enunciando il seguente principio di diritto: “nella gestione di un albergo il titolare deve adottare tutte le misure idonee a rendere innocua l’uso di una scala di collegamento tra i vari piani, vigilando costantemente la cosa non in forme generali, ma tenendo conto della possibile inesperienza, immaturità o diminuita abilità delle persone che sono costrette ad usare le scale in uso nell’albergo”.
Con la sentenza impugnata in questa sede – depositata il 18 aprile 2007 – la Corte di rinvio ha respinto la domanda attrice.
Il P. propone due motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.
Resiste l’intimata con controricorso.

Motivi della decisione

1. – La Corte di appello ha rilevato che la scala presenta caratteristiche di assoluta normalità, per quanto riguarda l’ampiezza della pedata ed il livello di alzata; che il CTU l’ha ritenuta non conforme alle disposizioni di legge anti-incendio, ma che tali disposizioni sono irrilevanti nel caso in esame; che la F., all’epoca ultrasessantenne, aveva affrontato la discesa dalla scala con modalità imprevedibili per la loro sconsideratezza, cioè indossando scarpe con il tacco alto, recando sul volto una maschera di carnevale, che limitava la visibilità, e con entrambe le mani impegnate l’una dalla borsa e l’altra dalla sigaretta, donde l’impossibilità di avvalersi dell’appoggio al manocorrente della balaustra della scala.
Sulla base di tali rilievi ha escluso che il gestore dell’albergo potesse adottare una qualche misura per prevenire od evitare il rischio di caduta.
2. – Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli art. 384 e 394 cod. proc. civ., assumendo che la Corte di rinvio non si è attenuta al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, poiché non ha accertato se il gestore dell’albergo avesse vigilato, in relazione alla possibile inesperienza, immaturità o diminuita abilità degli utenti.
Assume che presupposto della decisione della Corte di cassazione è la convinzione che la scala fosse pericolosa e che a tale premessa la Corte di appello si doveva attenere.
Con il secondo motivo denuncia violazione degli art. 2043 e 2051 cod. civ., nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione, nella parte in cui la Corte di appello ha escluso la pericolosità della scala e la responsabilità dell’albergo.
Con il terzo motivo denuncia violazione degli art. 115-116 cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione nella valutazione delle prove, sul rilievo che la Corte non ha tenuto conto delle dichiarazioni rese dal figlio e dalla nuora dell’infortunata, sentiti come testimoni, i quali hanno dichiarato che essa indossava una tuta e scarpe con il tacco basso.
3. – I tre motivi sono inammissibili sia ai sensi dell’art. 366bis cod. proc. civ., per l’inidonea formulazione dei quesiti di diritto e per la mancanza di ogni quesito in ordine alle censure di vizio di motivazione; sia ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., poiché sollecitano il riesame nel merito degli  accertamenti in fatto e della valutazione delle prove ad opera della Corte di appello.
3.1. – Va premesso, quanto al primo motivo, che il principio enunciato dalla Corte di cassazione imponeva alla Corte di rinvio di valutare se – tenuto conto della situazione dei luoghi – il dovere di vigilanza dell’albergatore fosse stato correttamente esercitato, anche in relazione ad eventuali comportamenti imprudenti o immaturi degli ospiti.
La Corte di cassazione non ha emesso alcun giudizio, né ha dato atto di alcunché, quanto all’asserita pericolosità della scala.
Ha solo demandato al giudice di rinvio una più ampia motivazione circa i presupposti del giudizio di responsabilità, specificando che l’eventuale non pericolosità della scala, o la sua conformità alle prescrizioni delle leggi e della tecnica costruttiva, non esoneravano l’albergatore dall’obbligo di vigilare sul relativo uso, in considerazione di peculiari condizioni di inesperienza, immaturità o inabilità di taluno degli ospiti.
A tale compito la Corte di appello ha adempiuto, con motivazione che non appare suscettibile di censura, considerato che il ricorrente non ha dimostrato né che la conformazione della scala fosse pericolosa; né che l’infortunata rientrasse fra i soggetti particolarmente “vulnerabili”, in relazione ai quali l’albergatore avrebbe dovuto prestare particolare vigilanza.
La denunciata violazione dei principi enunciati dalla Corte di cassazione non trova quindi fondamento alcuno.
3.2. – Va soggiunto che i quesiti formulati in relazione ad ognuno dei motivi sono generici e astratti, e tutti danno per dimostrato ciò che sarebbe da dimostrare: “Se il giudice del rinvio poteva riesaminare, rielaborare in senso contrario i fatti già accertati e non attenersi al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione” (quesito sul primo motivo).
“Se le previsioni degli art. 2043 e 2051 c.c. possono escludere, con la provata insussistenza del caso fortuito, l’applicabilità del principio di responsabilità ed il risarcimento del danno…” (quesito sul secondo motivo).
“Se l’omesso esame della prova su un punto decisivo della controversia, costituendo errore di fatto e vizio del ragionamento giustifichi il vizio di motivazione…” (quesito sul terzo motivo).
I quesiti non fanno che sintetizzare le conclusioni a cui il ricorrente vorrebbe che la Corte di cassazione pervenisse. Ma nulla esprimono quanto ai principi di diritto che si assumono erroneamente affermati ed alle ragioni per cui la motivazione sarebbe insufficiente o contraddittoria.
Si ricorda che il quesito di diritto deve contenere una sintesi logico giuridica della questione, sì da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di applicazione anche in casi ulteriori, rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata.
Esso deve sintetizzare, in particolare: a) l’esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito e da questo ritenuti per veri, mancando, altrimenti, la critica di pertinenza alla ratio decidendi della sentenza impugnata); b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata da quel giudice; c) la diversa regola di diritto che – ad avviso del ricorrente – si sarebbe dovuta applicare.
Il quesito – quindi – non deve risolversi in una enunciazione di carattere generico e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente. Né è consentito desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, se non a prezzo della sostanziale abrogazione della norma (cfr., fra le tante, Cass. Civ. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 11 marzo 2008 n. 6420; Cass. Civ. Sez. III, 30 settembre 2008 n. 24339 e 9 maggio 2008 n. 11535; Cass. Civ. Sez. 3, 14 marzo 2013 n. 6549.
Quanto ai vizi di motivazione, il ricorrente è tenuto ad indicare chiaramente, in modo sintetico, evidente ed autonomo – in uno specifico passaggio del ricorso a ciò destinato – il fatto controverso rispetto al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, così come le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (Cass. civ. Sez. Un. 1° ottobre 2007 n. 20603 e 18 giugno 2008 n. 16258; Cass. Civ. Sez. 3, 4 febbraio 2008 n. 2652; Cass. Civ. Sez. III, 7 aprile 2008 n. 8897, n. 4646/2008 e n. 4719/2008, fra le tante).
Tale requisito non si può ritenere rispettato quando solo la completa lettura dell’illustrazione del motivo – all’esito di una interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto e il significato delle censure (Cass. civ., Sez. III, ord. 16 luglio 2007 n. 16002, n. 4309/2008 e n. 4311/2008 e da ultimo 14 marzo 2013 n. 6549).
4. – Il quarto motivo, che censura la condanna alle spese, risulta assorbito, considerato che il ricorrente è risultato interamente soccombente.
5. – Il ricorso deve essere respinto.
6. – Le spese del presente giudizio, liquidate nel dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in € 2.700,00, di cui e 200,00 per esborsi ed € 2.500,00 per compensi; oltre agli accessori previdenziali e fiscali di legge.

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