Cassazione 15

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 23 settembre 2015, n. 18808

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 27 maggio 2011 la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato il gravame proposto dall’avvocato M.A. nei confronti di D.L.C. , avverso la sentenza del Tribunale di Napoli depositata il 12 ottobre 2005.
Con questa sentenza il Tribunale aveva accolto l’opposizione proposta dalla D.L. contro il decreto ingiuntivo col quale le era stato ingiunto di pagare la somma di lire 13.184.382 in favore dell’avv. M. per prestazioni professionali derivanti da attività di studio, consultazioni e redazione di un ricorso al TAR Campania, avente ad oggetto l’annullamento di un concessione edilizia rilasciata per la realizzazione di un fabbricato adiacente la villetta di D.L.V. , dante causa dell’opponente.
2.- Proposto appello da parte dell’avv. M. , la Corte, pur ritenendo la legittimazione attiva di quest’ultimo (che invece il Tribunale aveva escluso), ha tuttavia reputato che il mandato rilasciato in suo favore da parte di D.L.V. si fosse estinto a seguito della morte di quest’ultimo e che, essendo questi deceduto il 4 settembre 1988, la pretesa creditoria del professionista fosse prescritta perché fatta valere per la prima volta con raccomandata indirizzata agli eredi del D.L. il 6 febbraio 2001, quindi dopo oltre dodici anni da detta estinzione. Ha perciò accolto l’eccezione di prescrizione sollevata dalla D.L. già con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo.
Rigettato l’appello dell’avv. M. , l’ha condannato al pagamento delle spese del grado.
3.- L’avv. M.A. ricorre contro questa sentenza con due motivi, dei quali il primo formalmente unico, ma di fatto articolato in tre censure.
D.L.C. si difende con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Nell’epigrafe unica del primo articolato motivo di ricorso è dedotta violazione degli artt. 2943 e 2945 civ. in riferimento all’art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ., nonché “violazione principi generali dell’ordinamento neminem laedere – violazione principio di effettività” ed, ancora, violazione dell’art. 2944 cod. civ..

Con la prima censura il ricorrente sostiene che la D.L. , avendo proposto opposizione a decreto ingiuntivo deducendo di essere tenuta al pagamento del debito ereditario – facente capo al proprio dante causa D.L.V. – soltanto pro-quota e non in solido con gli altri coeredi, avrebbe implicitamente riconosciuto l’esistenza del debito. Perciò, l’eccezione di prescrizione non avrebbe potuto essere accolta.

1.1.- Con la seconda censura il ricorrente sostiene che il termine di prescrizione non sarebbe potuto decorrere dalla morte del cliente, perché egli non ne sarebbe stato a conoscenza e, comunque, che gravava sull’opponente a decreto ingiuntivo dare la prova di questa conoscenza. Peraltro, a detta del ricorrente, sarebbe emerso in sede di merito che egli avrebbe avuto conoscenza della morte del cliente soltanto nel 2001 e quindi soltanto da questa data sarebbe potuto decorrere il termine di prescrizione del diritto a pretendere il pagamento delle competenze professionali di avvocato. Ancora, avendo gli eredi risposto alla missiva inviata loro in data 14 febbraio 2001, con successiva raccomandata del 16 febbraio 2001, avrebbero con questa riconosciuto il rapporto professionale instaurato dal loro genitore.

1.2.- Con la terza censura si contesta il motivo di opposizione a decreto ingiuntivo col quale l’opponente, odierna resistente, ha dedotto di non essere obbligata solidale ma soltanto pro-quota.

2.- Le censure, da trattarsi congiuntamente perché connesse, sono tutte inammissibili.

Sia la prima che la seconda pongono, per la prima volta in sede di legittimità, questioni che non risultano essere state oggetto di dibattito processuale nei pregressi gradi di giudizio.

In merito alla seconda censura, il cui esame è pregiudiziale, va premesso che la sentenza impugnata ha fatto applicazione del principio per il quale la prescrizione del diritto dell’avvocato al pagamento dell’onorario può decorrere non solo dal verificarsi dei fatti previsti dall’art. 2957 cod. civ., ma anche dal momento in cui, per qualsiasi causa, cessi il rapporto col cliente, ivi compresa la morte di quest’ultimo (così, da ultimo, Cass. n. 7281/12, che ha confermato il remoto precedente di cui a Cass. n. 965/64).

E’ un principio che, affermato con riferimento alla prescrizione presuntiva, ben può essere esteso alla prescrizione ordinaria (della quale soltanto si tratta nel presente giudizio).

Esso va qui ribadito anche dopo la pronuncia a Sezioni Unite n. 15295/14, malgrado questa abbia riaffermato la regola della cd. ultrattività del mandato. Ed invero, nella medesima pronuncia si da conto della valenza endoprocessuale di questa regola. La stessa non incide sulla disciplina sostanziale del contratto di patrocinio, regolato dalle norme del mandato di diritto sostanziale (cfr., su quest’ultimo punto, tra le altre Cass. n. 13774/04), per come si evince anche dalla motivazione resa a Sezioni Unite. L’applicazione delle norme del mandato al contratto di patrocinio comporta che la morte del cliente estingua il rapporto e determini quindi l’insorgenza del diritto dell’avvocato al pagamento delle competenze professionali, malgrado la detta estinzione non faccia venire meno, a determinate condizioni, il dovere del difensore di continuare a gestire la lite (cfr. Cass. S.U. n. 15295/14, in motivazione, in specie al n. 7 e seguenti).

In conclusione, va affermato che la prescrizione del diritto dell’avvocato al pagamento dell’onorario decorre dal momento in cui, per qualsiasi causa, cessi il rapporto col cliente, ivi compresa la morte di quest’ultimo, anche se, in applicazione della regola dell’ultrattività del mandato, l’omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera del difensore costituito in giudizio comporta che questi continui a rappresentare la parte come se l’evento stesso non si fosse verificato (secondo i principi espressi da Cass. S.U. n. 15295/14).

2.1.- Dato tutto quanto sopra, il ricorrente sostiene che, poiché la prescrizione comincia a decorrere, ai sensi dell’art. 2935 cod. civ., dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, ciò sarebbe possibile soltanto dal giorno in cui il difensore abbia avuto conoscenza della morte del cliente.

L’assunto non è conforme al principio ripetutamente affermato da questa Corte per cui l’impossibilità di far valere il diritto, alla quale l’art. 2935 cod. civ. attribuisce rilevanza di fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione, è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende anche gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, per i quali il successivo art. 2941 cod. civ. prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione, nel cui ambito, salva l’ipotesi di dolo prevista dal n. 8, non rientra l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sulla esistenza di tale diritto od il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (così, da ultimo Cass. n. 21026/14; ma cfr. anche Cass. n. 21495/05, n. 3584/12).

Peraltro, ai fini della decisione è sufficiente rilevare che la questione della mancata conoscenza della morte del rappresentato da parte dell’avv. M. non risulta essere stata posta nel corso del giudizio di merito. La sentenza non si occupa affatto dell’impedimento all’esercizio del diritto derivante dalla (asserita) mancata conoscenza della morte del cliente.

Il ricorrente non deduce di aver posto la questione già in sede di merito, salvo ad affermare in ricorso che, a fronte dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla D.L. con l’opposizione a decreto ingiuntivo, egli, in qualità di opposto, poi appellante, “precisava che il suo decorso restava paralizzato dalla pendenza del processo ex artt. 2943 e 2945 c.c. e che mai aveva dichiarato in giudizio l’avvenuta morte del suo rappresentato”. Risulta così implicitamente riscontrata l’estraneità al contraddittorio processuale della questione posta con la seconda censura del primo motivo. In proposito, è corretto il richiamo, fatto dalla resistente, ai principi enunciati da questa Corte in merito all’inammissibilità di questioni nuove, non rappresentate ai giudici di merito e proposte per la prima volta in sede di legittimità (per i quali cfr. Cass. n. 18440/07, secondo cui nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione il ricorrente, il quale introduca temi di indagine non affrontati nei precedenti gradi di giudizio ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione di tali questioni nel giudizio di merito, ma anche di indicare in quali atti sia avvenuta la relativa deduzione; cfr. anche, in motivazione, Cass. n. 11949/13 e 11552/13, richiamati nella memoria della resistente). La seconda censura del primo motivo è perciò inammissibile.

3.- La prima e la terza censura sono inammissibili per difetto di interesse, in ragione del carattere assorbente della dichiarazione di inammissibilità della seconda censura. La questione del riconoscimento del debito da parte dell’opponente, posta con la prima – oltre ad essere, a sua volta, inammissibile perché nuova, non risultando essere mai stato richiamato in sede di merito il disposto dell’art. 2944 cod. civ.- è comunque irrilevante. Invero, siffatto riconoscimento sarebbe intervenuto quando, in ragione del decorso della prescrizione dal decesso del cliente, essa era già maturata.

3.1.- La questione dell’insussistenza della solidarietà, posta con la terza censura, attenendo al merito della pretesa creditoria, è evidentemente assorbita dalla ritenuta estinzione di quest’ultima per prescrizione.

4.- Con il motivo restante si deduce violazione dell’art. 92, comma secondo, cod. proc. civ. perché la Corte d’Appello di Napoli ha condannato l’appellante al pagamento delle spese del grado, con conferma della condanna al pagamento delle spese anche del primo grado. Il ricorrente sostiene che le spese avrebbero dovuto essere compensate per soccombenza reciproca in quanto la Corte ha ritenuto fondato il primo motivo di appello (concernente la sussistenza della legittimazione attiva dell’avv. M. , negata dal Tribunale), pur avendo poi concluso per il rigetto del gravame.

4.1.- La censura non merita di essere accolta.

Il ricorrente è risultato totalmente soccombente all’esito finale della lite. Non si è perciò in presenza di una situazione di soccombenza reciproca che avrebbe consentito di compensare le spese di giudizio.

Peraltro, non è censurabile in sede di legittimità la decisione di mancata compensazione, parziale o totale, delle spese di lite, essendo rimessa al potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di tale compensazione, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca sia nell’ipotesi – prevista dall’art. 92, comma secondo, cod. proc. civ., nel suo testo originario, applicabile al presente giudizio, introdotto con ricorso precedente la prima delle numerose modifiche di questa norma – di giusti motivi (cfr., tra le altre, Cass. n. 406/08 e n. 15317/13). In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida, in favore della resistente, nell’importo complessivo di Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese processuali, IVA e CPA come per legge.

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