Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 23 marzo 2015, n. 12014

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente

Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere

Dott. RAMACCI Luca – Consigliere

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 2625/2011 CORTE APPELLO di MILANO, del 21/01/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 21/01/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. BALDI Fulvio che ha concluso per: si oppone al rinvio – nel merito conclude per l’annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio. Rigetto nel resto.

Udito il difensore Avv. (OMISSIS).

RITENUTO IN FATTO

La Corte d’Appello di Milano con sentenza 21.1.2014 ha confermato la sentenza del GUP che aveva ritenuto (OMISSIS) colpevole del reato di omesso versamento IVA per gli anni di imposta 2005 e 2006 per l’ammontare complessivo, rispettivamente, di euro 138.697,00 e 128.206,00 (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter). Per giungere a tale conclusione la Corte territoriale ha osservato che la dedotta illiquidita’ involontaria non esime da responsabilita’ penale in considerazione dell’utilizzo per finalita’ diverse da quelle obbligatorie per legge delle somme ricevute.

In ordine al trattamento sanzionatorio, ha ritenuto che l’applicazione dell’articolo 13 del cit. Decreto Legislativo non consente, per il principio di specialita’, di applicare cumulativamente l’attenuante comune prevista dall’articolo 62 c.p., n. 6.

Il difensore dell’imputato ricorre per cassazione denunziando due motivi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Col primo motivo, che si sviluppa in una duplice articolazione, denunzia ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) l’erronea applicazione della legge penale ribadendo innanzitutto la tesi secondo cui lo stato di crisi esclude la punibilita’ per forza maggiore o in ogni caso per mancanza del dolo di evasione. Inoltre, pur riconoscendo che il dolo riguarda il mancato versamento, osserva che ai fini della condanna e’ indispensabile provare anche la volonta’ di “non accantonare” i fondi per provvedere al pagamento alla scadenza, perche’ in caso contrario si riproverebbe a titolo di colpa (imprudenza) un comportamento punito solo se doloso.

Osserva poi che contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello tra l’attenuante di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13 e quella prevista dall’articolo 62 c.p., n. 6 non opera il principio di specialita’ per cui le stesse si possono applicare cumulativamente: di conseguenza, essendosi attivato per saldare il debito complessivo prima di venire a conoscenza della pendenza del procedimento penale, deve essere ritenuto meritevole della concessine di entrambe le attenuanti.

Il motivo e’ manifestamente infondato sotto entrambi i profili.

Come piu’ volte affermato dalla giurisprudenza, il reato omissivo a carattere istantaneo previsto dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 10-ter, consiste nel mancato versamento all’erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilita’ del regime di IVA per cassa, e’ ordinariamente svincolato dall’effettiva riscossione dei corrispettivi relativi alle prestazioni effettuate. Questa Corte ha altresi’ precisato che il reato in esame e’ punibile a titolo di dolo generico essendo sufficiente a integrarlo la coscienza e volonta’ di non versare all’erario le ritenute effettuate nel periodo considerato. Tale coscienza e volonta’ deve investire anche la soglia di euro cinquantamila (prima della recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 80/2014 che l’ha elevata a euro. 103.291,38, ndr), soglia che e’ un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore (sez. un, 28 marzo 2013, n. 37424, rv. 255758; sez. 3, 6 marzo 2013, n. 19099, rv. 255327). La prova del dolo – analogamente a quanto affermato in relazione alla fattispecie di cui al precedente articolo 10-bis – e’ insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto e’ dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di punibilita’, entro il termine previsto.

Non puo’ ovviamente escludersi, in astratto, che siano possibili casi – il cui apprezzamento e’ devoluto al giudice del merito ed e’, come tale, insindacabile in sede di legittimita’ se congruamente motivato – nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilita’ di adempiere all’obbligazione tributaria. E’ tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidita’, dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilita’ al sostituto di imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioe’ la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidita’, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volonta’ e a lui non imputabili (cfr. sez. 3 sentenza 8.1-4.4.2014 n. 15416; sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).

Nel caso in esame la Corte d’Appello, gia’ investita della questione, correttamente ha rigettato la doglianza sulla base del principio della irrilevanza, di regola, della crisi di liquidita’ in relazione al dovere e del dovere di accantonamento che incombe sul soggetto tenuto al versamento: l’inadempimento della obbligazione tributaria penalmente sanzionata deriva non dalla oggettiva impossibilita’ di adempiere ma da una utilizzazione delle somme ricevute per diverse finalita’ da quelle obbligatorie per legge.

La decisione, come si vede, si rivela corretta in diritto e congruamente motivata, e pertanto si sottrae decisamente alla censura mossa dal ricorrente che, peraltro, omette di evidenziare la prova della totale impossibilita’ di reperimento delle risorse necessarie all’adempimento tributario nel senso sopra inteso, soffermandosi invece sulla idoneita’ in generale della crisi di liquidita’ ai fini dell’esclusione dell’elemento psicologico del reato.

Quanto alla questione delle attenuanti, il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13 prevede la diminuzione fino alla meta’ della pena principale e la non applicazione delle pene accessorie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti previsti, appunto, dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, “sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”.

Nel caso di specie, i giudici di merito hanno applicato tale attenuante negando invece quella di cui all’articolo 62, n. 6 che pure era stata invocata, richiamando il principio di specialita’.

Il diniego di tale ultima attenuante si rivela corretto ma per un motivo diverso e assorbente rispetto a quello utilizzato dalla Corte territoriale: ai reati tributari non e’ applicabile l’attenuante di cui all’articolo 62 c.p., n. 6 (risarcimento del danno), trattandosi di reati che non incidono, se non indirettamente, sul patrimonio dello Stato, ma ledono il suo diritto costituzionalmente sancito alla imposizione dei tributi, alla loro riscossione e alla loro successiva distribuzione per le esigenze della collettivita’ (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 3513 del 18/01/1994 Ud. dep. 23/03/1994 Rv. 197104; Sez. 4, Sentenza n. 13843 del 20/02/2002 cc. dep. 11/04/2002 Rv. 221287 non massimata).

2. Col secondo motivo denunzia ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) la mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione sulla richiesta di conversione della pena detentiva in quella pecuniaria, rimproverando alla Corte di merito di avere, per un affrettato “copia e incolla” affermato che il difensore aveva rinunziato alla richiesta.

La censura e’ fondata.

Dal verbale di udienza del 21.1.2014 risulta che il difensore si e’ riportato ai motivi di appello (contenenti, tra l’altro, la richiesta di conversione della pena detentiva) e nessuna rinunzia risulta proposta: l’affermazione contraria della Corte d’Appello deve ritenersi frutto di un travisamento degli atti e pertanto la sentenza deve essere annullata con rinvio limitatamente alla applicabilita’ della sostituzione della pena detentiva.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata – con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano – limitatamente alla applicabilita’ della sostituzione della pena detentiva con la pecuniaria. Rigetta nel resto il ricorso.

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