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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 23 maggio 2014, n. 11529

Svolgimento del processo

p.1. Z.S. ha proposto ricorso per cassazione contro F.E. e F. avverso la sentenza del 15 luglio 2010, con la quale la Corte di Appello di Milano ha rigettato il suo appello principale ed accolto quello incidentale dei F. conto la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Milano nel novembre del 2006.
p.2. Con tale sentenza, per quanto ancora interessa, era stato dichiarato nullo l’intero contratto, intercorso tra lo Z. ed il F. , documentato da una scrittura privata del 15 marzo 2001, e la Corte territoriale, nel rigettare l’appello principale ha confermato la statuizione di nullità, mentre, nell’accogliere l’appello incidentale, ne ha ravvisato, peraltro, l’effetto nella conseguenza di doversi motivare la dichiarazione di nullità anche sotto un ulteriore profilo, che non era stato invece ravvisato dal Tribunale.
p.3. Con detto contratto F.E. si impegnava a trasferire, a favore di Z.S. , il proprio diritto di proprietà su di un affresco di mt. 2,7 x 6 ca. e sui frammenti su tavola dell’artista H.K. , a fronte dell’impegno dello Z. di finanziare il restauro delle opere suddette, di concordare con F.E. il coordinamento delle operazioni di restauro e delle modalità di esposizione dell’affresco in occasione della inaugurazione del nuovo negozio F. a (…), nonché di rendere disponibile, successivamente, l’affresco per la vendita a musei, gallerie o privati che ne fossero interessati, ripartendosi così il ricavato della vendita – in relazione al quale si faceva riferimento al dover essere “concordato un importo congruo” – nelle seguenti misure: a Z.S. e ad F.E. il 45% a testa, a M.G. (colei che aveva messo in contatto F.E. con Z.S. ) il 10%.
p.4. Mentre l’ing. Z.S. dava inizio agli impegni presi, F.E. faceva ritirare l’affresco dallo studio della Za. (la restauratrice), chiedendo all’ingegnere la restituzione dei 17 pannelli perché di proprietà di sua sorella F.F. .
Così l’ing. Z.S. , dopo aver richiesto e ottenuto il sequestro giudiziario dell’affresco, ai sensi dell’art. 670 c.p.c., promuoveva dinanzi al Tribunale di Milano un giudizio di merito diretto all’accertamento della proprietà delle opere.
Il Tribunale di Milano dichiarava nullo il contratto e disponeva la restituzione ad F.E. e F.F. di tutte le opere oggetto dell’accordo del 15.03.2001.
p.5. Avverso la sentenza proponeva appello Z.S. , chiedendo l’integrale riforma della sentenza di primo grado.
La Corte di Appello di Milano confermava la dichiarazione di nullità del contratto, poiché: a) condivideva l’assunto della natura unitaria ed inscindibile del contenuto dell’accordo, riscontrata dal Tribunale di Milano, e considerava così la fattispecie controversa riconducibile all’ambito applicativo della deroga prevista dall’art. 1419, comma 1 c.c., poiché nessuna delle parti contraenti aveva prospettato una ipotesi di nullità parziale estendibile all’intero contratto (argomento deducibile, secondo il giudice di secondo grado, dalle conclusioni formulate dalle parti in primo grado e reiterate in sede di gravame); b) dichiarava di accogliere parzialmente l’appello incidentale, là dove la nullità dell’intero rapporto era stata sostenuta dai F. sotto il profilo che, essendo stato rimesso ad un futuro accordo tra le parti la valutazione di congruità del prezzo della rivendita l’intero contratto risultava nullo per un’ulteriore indeterminatezza e/o indeterminabilità dell’oggetto, “posto che l’utilità di tale contratto, in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, veniva assicurata solo con la prevista finale vendita dell’affresco”.
p.5. Al ricorso hanno resistito con controricorso gli intimati.
p.6. Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. per violazione degli artt. 101, co. 2, c.p.c. e degli artt. 111 e 24 Cost. in relazione alla asserita unitarietà ed inscindibilità del contenuto del contratto del 15.03.2001”.
Vi si censura l’avviso con cui la Corte territoriale avrebbe condiviso la valutazione di nullità dell’intero contratto, reputando la fattispecie dedotta in giudizio disciplinata dal principio di cui all’art. 1419, primo comma, c.c., in quanto esso avrebbe avuto un “contenuto unitario ed inscindibile”, così condividendo lo stesso avviso espresso dal primo giudice e disattendendo il primo motivo di appello principale dello Z. .
La Corte territoriale avrebbe errato in tale condivisione, perché, non diversamente dal Tribunale, avrebbe rilevato d’ufficio una questione – quella della sussistenza di un’ipotesi nella quale emergeva che i contraenti non avrebbero concluso il contrato nella sua interezza senza la parte colpita dalla nullità – in violazione della norma dell’art. 101, secondo comma, c.p.c.. Norma che – si sostiene – pur essendo stata introdotta con efficacia diretta solo per i giudizi iniziati dopo il 4 luglio 2009, ex lege n. 69 del 2009, avrebbe avuto, in realtà, natura di norma di interpretazione autentica, essendo espressione dei principi costituzionali del giusto processo e trovando già riscontro in altre norme del processo, cioè l’art. 183, comma quarto, e l’art. 384, terzo comma, c.p.c. come sostituito dall’art. 12 del d.lgs. n. 40 del 2006.
p.1.1. Il motivo è inammissibile, in quanto, anche a voler condividere l’idea che il principio introdotto dall’art. 101, secondo comma, fosse presente nell’ordinamento ed in particolate trovasse espressione nell’art. 183, quarto comma, nel testo vigente prima della sua introduzione, di modo che in pratica – sembra questo il senso della prospettazione – connotasse il potere di rilevazione d’ufficio del giudice anche al di là del momento della prima udienza di trattazione, nella specie, poiché la denunciata violazione di norma del procedimento così configurata sarebbe stata commessa già dal primo giudice e sarebbe stata soltanto reiterata dal giudice d’appello, non è dato comprendere come e perché il ricorrente ritenga di prospettarla come motivo di ricorso per cassazione contro la sentenza del giudice di appello senza avere allegato e dimostrato di avere dedotto la questione come motivo di appello ed anzi in una situazione nella quale egli stesso – a pagina nove del ricorso, nel riferire sommariamente i motivi di appello, non fa alcun riferimento alla presenza in essi della denuncia di violazione del principio di cui all’art. 183, quarto comma, ma soltanto “alla violazione del disposto degli artt. 1418 e 1419 c.c. e […] del generale principio di conservazione del contratto con riferimento alla statuita nullità dell’intero contratto”, oltre che all’errata interpretazione del regolamento negoziale e, dunque, a vizi di violazione di norme sostanziali.
È palese, infatti, che, se la violazione di norma del procedimento, di cui si lamenta il motivo, fosse stata commessa dal primo giudice, avrebbe dovuto, ai sensi dell’art. 161 c.p.c., dedursi come motivo di appello.
Non essendo stata dedotta e dimostrata tale deduzione ed anzi risultando smentita dalla sommaria evocazione dei motivi di appello e non trattandosi, del resto, di una nullità sottratta al regime del primo comma dell’art. 161, è evidente che, se anche si fosse verificata la prospettata nullità per inosservanza dell’indicato principio asseritamente connotante l’ordinamento prima della novella dell’art. 101, la relativa questione sarebbe rimasta preclusa in appello e non potrebbe ora “recuperarsi” in questa sede di legittimità, non essendo appartenuta all’oggetto della devoluzione nell’appello.
p.1.2. Ove mai, poi, a voler superare – lo si rileva in ipotesi denegata – quanto emerge in senso contrario dal descritto contenuto dei motivi, la devoluzione in appello fosse avvenuta, si dovrebbe constatare in ogni caso che il motivo in proposito quantomeno difetterebbe sul punto del requisito della c.d. indicazione specifica dell’atto processuale su cui si fonda, prescritto dall’art. 366 n. 6 c.p.c..
La previsione di cui a tale norma, infatti, imponeva:
a) di indicare nel ricorso a pena di inammissibilità del motivo se e dove l’atto processuale in cui la questione era stata proposta al giudice d’appello, cioè l’atto di appello, era stata prodotto in questo giudizio di legittimità, mentre non è stata fornita indicazione in proposito: indicazione che sarebbe stata necessaria anche ove si fosse inteso fare riferimento alla presenza nel fascicolo d’ufficio del giudice della sentenza impugnata (come consente Cass. sez. n. n. 22726 del 2011, ma sempre fermo l’onere di indicazione specifica di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c., cioè l’espressa precisazione del voler fare riferimento a detta presenza);
b) la riproduzione diretta del contenuto dell’atto di appello quanto alla deduzione dell’ipotetico motivo di appello in questione, oppure la riproduzione indiretta con l’indicazione della parte dell’atto di appello in cui l’indiretta riproduzione trovava riscontro.
Nessuna di tali contenuti dell’art. 366 n. 6 c.p.c. appare rispettato nell’esposizione del motivo e nemmeno, si badi, nell’intero ricorso (particolarmente alla pagina nove già evocata sopra).
p.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce “omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. relativo alla presunta unitarietà ed inscindibilità del contenuto del contratto del 15.03.2001”.
Il motivo, a stare alla scelta del paradigma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., dovrebbe enunciare un vizio della motivazione della sentenza relativo alla ricostruzione della quaestio facti oggetto del dibattito processuale nelle fasi di merito. Vizio che sarebbe stato incidente ai fini di ritenere l’unitarietà ed inscindibilità del regolamento contrattuale.
p.2.1. Senonché, l’illustrazione del motivo presenta la seguente struttura:
a) non vi viene in alcun modo evocato quale sia il “fatto controverso”, ma, non solo si discetta di un non meglio identificato contrasto della sentenza impugnata con quella del giudice di primo grado, della quale si riporta, peraltro, un passo motivazionale esprimente soltanto considerazioni in iure in punto di operazione di determinazione dell’oggetto contrattuale, e, dunque, del tutto irrilevanti in funzione del sollecitato sindacato sulla quaestio facti;
b) di seguito si ragiona di “fatto decisivo”, ma si individua il preteso fatto nella “unitarietà ed inscindibilità del contenuto dell’accordo contrattuale” e, dunque, in una qualificazione giuridica e non già in un “fatto” (qualificazione che nell’economia della norma dell’art. 360 n. 5 nel testo applicabile al ricorso dovrebbe essere accompagnata dall’aggettivo controverso, con ciò che ne segue ai fini della dimostrazione dell’effettività dell’aggettivazione);
c) ancora in prosieguo si assume che sarebbe manifesta l’inosservanza dell’art. 132 n. 4, così evocandosi un vizio di violazione di una norma del procedimento che avrebbe richiesto l’indicazione del paradigma del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. e che nulla ha a che vedere con quello di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., e si riportano, quindi, una serie di massime di questa Corte pertinenti alla detta norma;
d) si dice, poi, che la prospettazione del carattere unitario del contratto, sarebbe in contrasto con quanto era stato sostenuto nella memoria contenente l’appello incidentale delle controparti nel quale si era sostenuto che oggetto unico del contratto era l’affresco di H.K. e non anche i 17 pannelli;
e) si evoca, poi, un passo della sentenza di primo grado, nel quale si allude ad un astratto criterio esegetico contrattuale e si lamenta che la Corte territoriale avrebbe desunto l’unitarietà della pattuizione contrattuale dalle conclusioni processuali rassegnate dalle parti.
Dopo tale articolazione nel motivo si assume, quindi, conclusivamente, che, avendo la sentenza impugnata motivato “per relationem la nullità dell’intero contratto, facendo propria la motivazione della sentenza di primo grado, è di tutta evidenza che la motivazione delle due pronunce, quanto meno per la parte in cui la Corte espressamente rinvia, va intesa come un iter logico argomentativo unitario che, se affetto da contraddizioni interne (come quelle innanzi evidenziate) vizia la sentenza emessa in sede di gravame”.
Dopo di che si evocano due righe della motivazione di Cass. n. 4916 del 2000, nelle quali si era sostenuto che il vizio di motivazione ricorrerebbe anche nel caso “esista insanabile contrasto tra le argomentazioni, complessivamente adottate, tali da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione”.
p.2.2. Stante l’articolazione dell’illustrazione del motivo si evidenzia che essa non ha la sostanza della censura ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., cioè non prospetta e non individua vizio motivazionale su una o più quaestiones facti.
p.2.3. Ove, poi, il motivo si apprezzasse, stante l’evocazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., come vizio ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. (nel solco di quanto ora avallata da Cass. sez. un. n. 17931 del 2013), si dovrebbe rilevare che “In materia di contenuto della sentenza, affinché sia integrato il vizio di mancanza della motivazione agli effetti di cui all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., occorre che la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum”. (Cass. n. 20112 del 2009): ne seguirebbe che si dovrebbe constatare che l’illustrazione non evidenzia in alcun modo una fattispecie siffatta, a tacer d’altro perché non è dato comprendere come essa si possa conciliare con il riferimento ad una motivazione per relationem.
p.2.4. Il motivo, in definitiva, si profila soltanto caratterizzato da una vera e propria inidoneità ad articolare una effettiva censura alla sentenza impugnata, data l’intrinseca contraddittorietà della sua esposizione e considerato che – come s’è rilevato sopra – i passaggi in cui essa si articola sono anche di contenuto generico (il che renderebbe il motivo inammissibile alla stregua del consolidato principio di diritto di cui a Cass. n. 4741 del 2005 e nel contempo non consentirebbe nemmeno – sempre sulla falsariga dell’evocata decisione della SS.UU. – di intendere il motivo come evidenziante la sostanza di una censura di erroneità della sussunzione – vizio ex n. 3 dell’art. 360 c.p.c. – della fattispecie concreta sotto quella astratta di un negozio unitario ed inscindibile).
p.3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1316 e 1322 c.c.) ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. con riferimento alla presunta unitarietà ed inscindibilità del contenuto del contratto del 15.03.2001”.
Vi viene evocata una pretesa violazione dell’art. 1316 c.c. che la Corte territoriale avrebbe commesso nel ritenere che il contratto avesse un contenuto unitario ed inscindibile, prospettando che l’oggetto del contratto era divisibile, dato che sarebbero stati materialmente diversi l’affresco ed i 17 frammenti, i quali ultimi erano stati anzi venduti nel corso del giudizio dai F. , e considerato che non risultava “dagli atti di causa o dalle allegazioni fattuali” che vi fosse un accordo di infrazionabilità della prestazione.
p.3.1. Il Collegio ritiene che il motivo sia privo di fondamento, dato che non spiega come, sul piano giuridico, l’essere oggetto di un unico contratto prestazioni aventi ad oggetto obbligazioni divisibili ridonderebbe sulla diversa problematica dell’essenzialità della pattuizione relativa ad una obbligazione rispetto all’altra, atteso che non è dato comprendere come questa problematica si ponga in rapporto con la natura della prestazione, tanto se intesa come indivisibile in rerum natura quanto se intesa tale per come convenzionalmente sia stata, in ipotesi, considerata: invero, il profilo normativo di cui all’art. 1316 concerne solo l’aspetto per così dire dinamico dello svolgimento del rapporto obbligatorio e non il carattere unitario o meno delle pattuizioni che prevedono le obbligazioni. Si vuoi dire cioè che l’art. 1316 c.c. si occupa del problema del modo di esecuzione dell’obbligazione dedotta nel rapporto obbligatorio, cioè stabilisce che se l’oggetto dell’obbligazione è per sua natura indivisibile o lo è perché è stato considerato tale dall’accordo delle parti, l’adempimento deve avvenire rispettando detta natura o la convenzione. Nessuna interferenza la norma ha con riferimento ad una problematica come quella discussa in causa e relativa al se il contratto sarebbe stato concluso oppure no senza che tutte le attribuzioni patrimoniali previste fossero giuridicamente possibili. Tale aspetto concerne il profilo statico della conclusione del rapporto contrattuale, cioè il piano della stessa causa del negozio.
p.4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce “omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un altro fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. relativo alla asserita estendibilità della nullità parziale in deroga al principio di conservazione del contratto”.
p.4.1. Il motivo denuncia in realtà non già una vizio della sentenza relativo ad un aspetto della ricostruzione della quaestio facti, come dovrebbe essere in relazione all’evocazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., bensì una pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., che la Corte territoriale avrebbe commesso, in quanto avrebbe dichiarato nullo l’intero contratto ai sensi dell’art. 1419, primo comma, c.c., ancorché in difetto di proposizione, da parte dei F. , di “alcuna istanza/domanda di estensione della eventuale nullità parziale all’intero contratto”, nonché senza che i medesimi avessero “allegato i fatti determinanti la circostanza della essenzialità dell’accordo sui frammenti rispetto a quello dell’affresco”.
Il presupposto che sottende la censura, almeno per quello che suggeriscono le ora riportate espressioni, è che i F. avessero chiesto la declaratoria di nullità parziale del contratto ed il giudice di merito abbia esteso d’ufficio la nullità a tutto il contratto. Il motivo, quindi, suppone che la prospettazione dei F. fosse stata nel senso della invocazione di una nullità parziale.
p.4.2. Il motivo, una volta inteso, al di là della sua intestazione, per quello che nella illustrazione denuncia (Cass. sez. un. n. 17931 del 2013) e, dunque, apprezzato come vizio di violazione della norma del procedimento, di cui all’art. 112 c.p.c., risulta inammissibile, in quanto, non fornisce l’indicazione specifica dell’atto processuale su cui si fonda, richiesta dall’art. 366 n. 6 c.p.c.: infatti, non si precisa in alcun modo da quale atto si sarebbe evinto il sostrato della censura che prospetta, cioè da quale atto sarebbe emerso che i F. avevano chiesto la declaratoria della nullità parziale. Infatti, non si indica da che cosa ciò si sarebbe evinto. Sicché, la Corte non è messa in grado di verificare le risultanze dello svolgimento del giudizio di merito dalle quali si dovrebbe evincere la prospettata violazione dell’art. 112, dato che esse non sono nemmeno identificate, siccome imponeva l’onere di cui all’art. 366 n. 6. La Corte dovrebbe procedere alla ricerca negli atti di quello che ipoteticamente potrebbe sorreggere la censura e ciò con inammissibile rilevazione della parte ricorrente da quello che era l’onere di formulare ed evidenziare i fatti giustificativi della “domanda” espressa con il motivo di ricorso in esame, nonché con il rischio di non pervenire all’esito della ricerca ad un esito positivo per parte ricorrente non ricercando dove in mente sua si sarebbe dovuto ricercare.
p.5. Il quinto motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. con riferimento alla asserita estendibilità della nullità parziale in deroga al principio di conservazione del contratto, sancito dagli artt. 1418, 1419, 1424 c.c.; nullità della sentenza”.
p.5.1. Il motivo, questa volta evocando il paradigma normativo corretto, cioè il n. 4 dell’art. 360 c.p.c., prospetta sostanzialmente – ma, come si vedrà immediatamente di seguito, non solo – la stessa questione prospettata sostanzialmente con il motivo precedente, cioè che, avendo i F. chiesto una declaratoria di nullità parziale del contratto, la Corte territoriale, una volta ravvisata appunto “un’ipotesi di nullità parziale”, l’avrebbe “estesa d’ufficio all’intero regolamento contratale, senza alcuna istanza/domanda, allegazione, eccezione e senza alcuna prova della parte che vi aveva interesse (i sigg.ri F. )”.
Ebbene, mentre il riferimento alla declaratoria della nullità dell’intero contratto d’ufficio senza alcuna istanza o domanda o allegazione o eccezione appare pertinente e corrispondente alla denuncia di violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., quello ulteriore alla “prova” risulta evidentemente del tutto estraneo alla intestazione del motivo ed a simile denuncia.
p.5.2. L’illustrazione del profilo pertinente avrebbe dovuto comportare lo svolgimento di un’attività dimostrativa del fatto che i F. avevano chiesto la declaratoria di nullità del contratto solo pro parte, ma anche in questo caso la lettura delle pagine 37, 38, 39 e 40 del ricorso, in cui l’illustrazione del motivo si articola, non rivela alcunché che, prima ancora di dimostrare, naturalmente con i necessari riferimenti individuatori agli atti processuali, quella limitazione, la enunci. A pagina 37 v’è un riferimento alla “domanda di declaratoria di nullità del contratto, formulata in via riconvenzionale dai F. ”, ma nulla in punto di identificazione del suo contenuto e segnatamene della sua limitazione si coglie.
p.5.3. Di seguito si evocano risultanze istruttorie, le quali, peraltro, in alcun modo si riferiscono alla detta limitazione e concernono considerazioni che esprimono dissenso dalla valutazione della Corte territoriale di ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 1419, primo comma, c.c., e ciò anche sul piano probatorio, ma, peraltro, con argomentazioni generiche e comunque del tutto al di fuori della logica del motivo.
p.5.4. A pagina 39 si torna, quindi, nell’ambito della censura, enunciando che “in mancanza di una istanza e/o eccezione e/o domanda e della allegazione, da parte dei convenuti F. , della essenzialità, i Giudici milanesi avrebbero dovuto dichiarare, al più, solo parzialmente nullo il contratto, limitando la declaratoria di nullità al patto relativo ai frammenti in quanto ritenuti beni inesistenti o, comunque, indeterminati ed indeterminabili, non essendo sorto dubbio alcuno circa la validità del patto relativo all’affresco e non avendo i sigg.ri F. allegato la essenzialità del patto sui frammenti né chiesto la estensione della nullità parziale all’intero contratto”.
Anche questo “ritorno” alla logica del motivo risulta, però, del tutto carente dell’indicazione di come e dove quanto avevano chiesto i F. fosse stato espresso nel senso di una invocazione della nullità parziale del contratto, alla quale i giudici di merito avrebbero, in violazione del principio della domanda, sovrapposto una valutazione di nullità dell’intero contratto. Sicché, prima ancora che di un motivo che non indica specificamente gli atti processuali dai quali si dovrebbe desumere la dedotta ultrapetizione, si è in presenza di un motivo che è addirittura carente della stessa attività assertiva dell’ultrapetizione e, quindi, del tutto generico.
In buona sostanza, chi legge l’illustrazione del motivo, non solo non è messo in grado di percepire il tenore delle domande dei F. , e segnatamente come e perché esse si fossero indirizzate solo alla consecuzione della nullità parziale, ma non vi rinviene neppure una specifica attività assertiva dell’ultrapetizione, che resta enunciata in modo del tutto apodittico.
p.5.5. Il motivo è, pertanto, inammissibile per difetto di specificità, giusta il consolidato principio di diritto che ritiene che il motivo di ricorso per cassazione debba essere specifico (ex multis, Cass. n. 4741 del 2005, già citata, seguita da numerose conformi: “Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorché la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156, secondo comma, cod. proc. civ.). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 cod. proc. civ., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorché la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo. In riferimento alla deduzione di un “error in procedendo” e, particolarmente, con riguardo alla deduzione della violazione di una norma afferente allo svolgimento del processo nelle fasi di merito, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., il rispetto dell’esigenza di specificità non cessa di essere necessario per il fatto che, com’è noto, la Corte di Cassazione, essendo sollecitata a verificare se vi è stato errore nell’attività di conduzione del processo da parte del giudice del merito, abbia la possibilità di esaminare direttamente l’oggetto in cui detta attività trovasi estrinsecata, cioè gli atti processuali, giacché per poter essere utilmente esercitata tale attività della Corte presuppone che la denuncia del vizio processuale sia stata enunciata con l’indicazione del (o dei) singoli passaggi dello sviluppo processuale nel corso del quale sarebbe stato commesso l’errore di applicazione della norma sul processo, di cui si denunci la violazione, in modo che la Corte venga posta nella condizione di procedere ad un controllo mirato sugli atti processuali in funzione di quella verifica. L’onere di specificazione in tal caso deve essere assolto tenendo conto delle regole processuali che presiedono alla rilevazione dell’errore ed alla sua deducibilità come motivo di impugnazione”).
p.5.6. Si deve, poi, aggiungere che al rilevato difetto di specificità, che nei sensi indicati contraddistingue l’attività illustrativa del motivo si accompagna anche, là dove non è stata fornita l’indicazione specifica delle risultanza istruttorie e degli atti processuali ai quali l’illustrazione si riferisce, la violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. e, quindi, anche la causa di inammissibilità da detta norma prevista.
p.6. Il sesto motivo denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1418, 1419, 1424 e 1322 c.c.) ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. con riferimento alla asserita estendibilità della nullità parziale in deroga al principio di conservazione del contratto”.
p.6.1. Si tratta di motivo del tutto dipendente dai due che lo precedono e carente di autonomia rispetto ad essi.
L’esordio della sua breve illustrazione lo rivela, dato che suona nel senso che “quanto dedotto nei due precedenti motivi pone anche in evidenza, età”.
Esso segue la sorte del precedente.
p.7. Il settimo motivo denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1418, 1346, 1322, 1473 e 1474 c.c.) ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. con riferimento alla asserita mancata specificazione di alcun criterio di determinazione o di determinabilità del corrispettivo dell’affresco”.
p.7.1. Vi si censura la sentenza impugnata riguardo alla valutazione con cui ha ritenuto nulla per indeterminatezza la pattuizione relativa all’affresco, reputando che la previsione contrattuale in cui si alludeva al dover essere successivamente concordato “un importo congruo per la vendita” fosse tale da ridondare nella “mancata specificazione di alcun criterio di determinazione o di determinabilità del corrispettivo della vendita dell’affresco”.
La prospettazione è nel senso che il riferimento allo “importo congruo”, cioè ad un “prezzo congruo” avrebbe dovuto essere considerato riconducibile dalla Corte territoriale alla fattispecie di cui all’art. 1474, terzo comma, c.c., cioè alla nozione di “giusto prezzo”, con la conseguenza che non si sarebbe dovuta ravvisare l’indeterminatezza e, quindi, la nullità della pattuizione, con le conseguenti ricadute sul contratto, bensì dar corso al procedimento di cui al secondo comma dell’art. 1473 c.c, giusta il rinvio disposto dal terzo comma dell’art. 1474 c.c.
p.7.2. Il motivo prospetta una questione che la Corte territoriale non ha esaminato e non dimostra che essa le fosse stata posta. Tuttavia, trattandosi di una quaestio iuris afferente al profilo della sussunzione della pattuizione contrattale sotto la figura del terzo comma dell’art. 1474 c.c. e non supponendo essa l’accertamento di situazioni di fatto, ma solo l’esegesi della clausola contrattuale, essa non risulta questione nuova preclusa in questa sede di legittimità. La si può, dunque, esaminare.
p.7.3. Il motivo, tuttavia, è privo di fondamento.
Queste le ragioni.
Il terzo comma dell’art. 1474 c.c., nell’alludere alla circostanza che “le parti abbiano inteso riferirsi al giusto prezzo”, con riferimento all’ipotesi che il contratto risulti concluso per atto scritto, come nel caso di specie, suppone, evidentemente, che il riferirsi delle parti al giusto prezzo emerga come tale dal tenore del contratto. Dunque, nel contratto le parti debbono avere fatto riferimento al “giusto prezzo”. È quanto dire che, perché ricorra la figura del terzo comma dell’art. 1474 c.c., il legislatore del Codice ha supposto che la clausola contrattuale scritta abbia usato l’espressione “giusto prezzo”. Parimenti, se il contratto risulti concluso oralmente è necessario che risulti per il tramite dell’attività dimostrativa della sua conclusione che le parti abbiano manifestato l’intenzione di riferirsi proprio al “giusto prezzo”.
Ciò è reso manifesto dal fatto che il legislatore, nella prima parte del terzo comma dell’art. 1474, riconduce la fattispecie di riferimento al giusto prezzo al primo ed al secondo comma della stessa norma, se l’oggetto della vendita ha le caratteristiche da essi indicate: infatti, se nella fattispecie de qua non fosse necessaria una specifica manifestazione di volontà evocativa del “giusto prezzo” se, dunque, il legislatore ad essa non avesse voluto alludere, la riconducibilità alle ipotesi del primo e secondo comma sarebbe stata già imposta direttamente dalle previsioni di tali commi e la norma sarebbe stata inutile.
Si deve, pertanto, ritenere che la fattispecie del terzo comma è fattispecie che ricorre quando le parti abbiano contemplato come criterio di commisurazione del prezzo proprio l’essere esso quello “giusto”.
Occorre, dunque, che le parti si siano rappresentate proprio quel concetto e non altro e la rappresentazione, se il contratto è concluso per iscritto, deve emergere dal tenore del documento.
p.7.4. Ora, nel caso di specie, in cui si è in presenza di contratto concluso per iscritto, la clausola che si vorrebbe riconducibile al terzo comma dell’art. 1474 non fa riferimento al “giusto prezzo” e, dunque, non si può ritenere che ricorra la fattispecie di cui a detto comma.
La pattuizione parlava, infatti, a tutto voler concedere (dato che l’espressione era la seguente: “una volta concordato un importo congruo per la vendita”), di “prezzo congruo” e, se anche questa potesse considerarsi nozione equivalente a quella del “giusto prezzo”, non potrebbe essere assunta come significativa della volontà delle parti di evocare la figura del terzo comma dell’art. 1474.
L’ammissibilità di previsioni contrattuali evocati vedi espressioni equivalenti a quella “giusto prezzo”, infatti, potrebbe concepirsi forse nei casi in cui il riferimento al “prezzo congruo”, o al “prezzo adeguato”, o al “prezzo conveniente”, cioè a nozioni simili secondo il senso comune, ma anche secondo esso non del tutto identiche rispetto a quella del “giusto prezzo”, abbia riguardato, come non è stato nella specie, i due casi di cui al primo e secondo comma della stessa norma. In questi ultimi, infatti, posto che, come s’è già detto, la vendita sarebbe stata, anche in mancanza di evocazione del “giusto prezzo”, riconducibile comunque al primo o al secondo comma dell’art. 1474 c.c., si può giustificare che il riferimento al “giusto prezzo” possa avvenire attraverso espressioni equivalenti come quelle indicate.
p.7.5. Viceversa, nel caso in cui non si tratti di beni riconducibili alle categorie del primo e del secondo comma, per le quali la volontà delle parti è integrata dalla legge anche quando esse nulla dicano sul prezzo e, dunque, appare tollerabile l’uso di espressioni similari, l’impossibilità di considerare lecite perché trovi applicazione il terzo comma dell’art. 1474 formule distinte da quella del “giusto prezzo”, in quanto sostanzialmente sul piano terminologico equivalenti o simili, discende dal fatto che in tal caso l’effetto è quello, importantissimo, di rimettere al terzo, sebbene nominato nel modo di cui all’art. 1473, secondo comma, c.c., la determinazione del prezzo: tanto impone, dunque, di ravvisare nella previsione della norma, per l’importanza delle conseguenze se le parti siano in contesa, l’imposizione di un riferimento esclusivo alla formula indicata dalla legge e non a formule semplicemente equivalenti, dovendo in caso diverso ritenersi che riprendano vigore le regole normali sulla necessità della determinazione del contenuto contrattuale, alle quali la disciplina dell’art. 1474, come quella dell’art. 1473 derogano.
La norma del terzo comma dell’art. 1474 c.c. sembra cioè doversi intendere di stretta interpretazione.
Una lontana decisione (Cass. n. 154 del 1971) sembra essersi ispirata proprio a tale principio, quando ha statuito che la fattispecie dell’art. 1474, terzo comma, c.c. suppone “la concorde affermazione delle parti in ordine all’esistenza di una vendita a giusto prezzo”.
Il principio di diritto che viene in rilievo è il seguente: “perché si possa configurare la fattispecie del terzo comma dell’art. 1474 c.c., allorquando l’oggetto della vendita non è riconducibile alle ipotesi di cui al primo e secondo comma della stessa norma, è necessario che le parti si siano riferite al giusto prezzo, cioè abbiano evocato nella pattuizione tale nozione, restando escluso – a differenza di quanto può accadere se l’oggetto della vendita sia riconducibile alle dette ipotesi – che possano assumere rilievo espressioni diverse anche se sostanzialmente equivalenti (come prezzo congruo, adeguato, e simili)”.
p.7.6. Peraltro, nel caso di specie, in disparte l’assorbenza di quanto si è rilevato, si deve comunque considerare che la pattuizione intervenuta fra le parti non sarebbe nemmeno riconducibile ad un concetto equivalente a quello evocato dalla vendita a giusto prezzo.
Nel caso di specie, infatti, le parti non hanno fatto riferimento al “prezzo congruo”, ma hanno previsto qualcosa di diverso, cioè che si sarebbe dovuto concordare un importo congruo.
Hanno fatto, dunque, riferimento esse stesse all’intervento ed alla necessità di un accordo futuro al riguardo.
OraG
Ne segue che, se anche la formulazione del riferimento al “prezzo congruo” si fosse potuta reputare equivalente a quella al “prezzo giusto”, non si sarebbe potuto configurare in alcun modo e comunque il presupposto per l’applicazione della norma, dato che le parti avevano previsto la necessità di un accordo futuro di determinazione del prezzo e non fatto riferimento al prezzo congruo.
p.7.7. Il motivo è, pertanto, rigettato.
p.8. L’ottavo motivo denuncia “omessa, contraddittoria ed insufficiente circa un altro fatto decisivo e controverso ai sensi del’art. 360, co. 1, n. 5) c.p.c. relativo alla asserita mancata specificazione di alcun criterio di determinazione o di determinabilità del corrispettivo dell’affresco”.
p.8.1. Il motivo è infondato, perché ripropone sotto la specie del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. la stessa prospettazione del motivo precedente sul giusto prezzo.
p.9. Il nono motivo denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (violazione degli artt. 1322, 1346, 1362, 1367 e 1371 c.c.) ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c. con riferimento alla pretesa indeterminatezza dell’oggetto “frammenti”.
Nella illustrazione ci si duole che la Corte territoriale avrebbe trascurato nell’esegesi del riferimento del contratto all’oggetto indicato come “frammenti”, la considerazione del comportamento successivo delle parti.
Senonché, non solo non si fornisce l’indicazione di questo comportamento, che viene evocato con un generico rinvio alle “argomentazioni” e ai “rilievi” formulati dal ricorrente, ma nemmeno si fornisce l’indicazione specifica del se e dove le une e gli altri erano stati formulati e del se, come e dove la loro considerazione era stata devoluta al giudice d’appello: viene evocato, in limine dell’esposizione del motivo, il secondo motivo d’appello, ma del tutto genericamente.
Il motivo è, conseguentemente, inammissibile per genericità ed anche per violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c..
Si rileva ancora e comunque che, una volta consolidata la ragione di nullità ritenuta dalla Corte territoriale con riferimento alla pattuizione del prezzo, l’eventuale fondatezza del motivo non avrebbe potuto portare alla cassazione della sentenza impugnata.
p.10. Il ricorso è conclusivamente rigettato.
p.11. Le spese segono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione ai resistenti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro seimilasettecento, di cui duecento per esborsi, oltre accessori come per legge.

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