Corte di Cassazione , sez. III, sentenza 20 ottobre 2011, n. 21696. Le affermazione contenute negli scritti difensivi dirette a mettere in dubbio le caratteristiche di terzietà proprie del giudicante, sono diffamatorie e l’autore dovrà risponderne

 

Il testo integrale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 20 ottobre 2011, n. 21696

Svolgimento del processo

Il Giudice Onorario Aggregato C. T. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Perugia l’Avv. A. P. deducendo di essere stato diffamato da quest’ultimo, nell’esercizio delle sue funzioni di magistrato, a causa delle affermazioni contenute nella memoria dì replica sottoscritta dal convenuto nell’ambito del procedimento civile n. (omissis).

L’attore reputava la condotta del P. di particolare gravità e le frasi riportate false ed offensive in quanto dirette a mettere in dubbio le caratteristiche di terzietà proprie del giudicante, integranti il reato di diffamazione, aggravato dall’attribuzione di un fatto determinato.

A causa del danno ingiusto provocato da dette frasi l’attore chiedeva un risarcimento di L 50.000.000.

Sosteneva invece il P.: a) che il giudice aveva adottato “un provvedimento di favore per i colleghi”, un “trattamento privilegiato” che “non trova riscontro in un precedente… dello stesso magistrato”; b) che le suddette frasi erano espressione del suo diritto di critica.

Con sentenza del 18 marzo 2003 il Tribunale accoglieva integralmente la domanda attrice Proponeva appello A. P. chiedendo il rigetto della domanda del T. e la condanna dello stesso alla restituzione delle somme a lui pagate.

L’appellato chiedeva il rigetto dell’appello e proponeva appello incidentale per ottenere la rivalutazione monetaria.

La Corte d’Appello di Perugia respingeva l’appello proposto da A. P. e l’appello incidentale proposto da C. T.

Propone ricorso per cassazione A. P. con tre motivi.

Resiste con controricorso C. T.

Le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso A. P. denuncia «Violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 83 ed 89 C.p.c.».

Sostiene il ricorrente che, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., gli atti compiuti dal difensore sono direttamente riferibili alla parte da lui assistita e che lo stesso difensore non può assumere nel processo la veste di parte. Pertanto, delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la stessa parte, anche quando le offese provengano dal difensore: destinataria della domanda di risarcimento del danno ex art. 89 c.p.c. è dunque solo la parte.. Autonoma ed eventuale é invece la rivalsa del cliente verso il suo difensore, ove questi abbia effettivamente usato espressioni lesive dell’onore e della reputazione del danneggiato, esorbitando dai limiti propri dell’attività tecnica.

Secondo il ricorrente i suddetti criteri sono operativi anche quando il soggetto leso sia non una parte, ma un terzo, ed in specie, come nel caso in esame, il magistrato.

Il motivo è infondato.

Competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ., è di norma lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni. A tale competenza, tuttavia, è necessario derogare quando il giudice non possa, o non possa più, provvedere con sentenza sulla domanda di. risarcimento, il che accade, in particolare, nei seguenti casi: A) quando le espressioni offensive siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per tale sua natura non può avere per oggetto un’azione di cognizione e quindi destinata ad essere decisa con sentenza; B) quando siano contenute in atti del processo di cognizione che però, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo); C) quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado); D) quando la domanda di risarcimento sia proposta nei confronti non della parte ma del suo difensore (Cass., 9 luglio 2009, n. 15121; Cass., 7 agosto 2001, n. 10916).

In altri termini, l’art. 39 c.p.c., nella parte in cui prevede il risarcimento del danno, è applicabile quando l’offensore e l’offeso siano parti in causa nel medesimo giudizio, mentre nella fattispecie de qua l’offeso è un terzo, ossia il magistrato che ha deciso la controversia.

Né quest’ultimo potrebbe condannare una parte al risarcimento in favore di se stesso, potendo solo promuovere un diverso procedimento civile (o penale) nei confronti dell’autore dell’illecito.

Va peraltro rilevato che le frasi incriminate non potevano essere riferite alla parte in quanto implicano considerazioni relative all’attività del giudice di cui la parte stessa, personalmente, non poteva avere conoscenza.

Con il secondo motivo si denuncia «Violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 2043 c_c. 21 Cost. e 595 c.p.».

Il motivo si conclude con il seguente quesito « Accerti la Corte se l’espressione ritenuta lesiva dalla impugnata sentenza sia da considerarsi tale valutando comparativamente sia la metodologia operativa del Dott. T. nelle due fattispecie pendenti avanti al Tribunale di Latina sia la natura, fondatezza e verità dei rilievi mossi nell’ inciso contenuto nell’atto difensivo redatto dal professionista.

E quindi .se sia ipotizzabile una espressione lesiva dell’onore contenuta in uno scritto difensivo che si sostanzi in una critica fondata su error in procedendo del Magistrato effettivamente esistente».

Il quesito è inadeguato in quanto dalla sola lettura dello stesso, inteso come sintesi: logico-giuridica della questione, non emerge l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito né quale sia secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass., 7 aprile 2009, n. 8463).

Il motivo è altresì inammissibile in quanto critica la valutazione effettuata da parte del giudice di merito circa il carattere sconveniente od offensivo di espressioni contenute nelle difese delle parti. Tale valutazione integra infatti l’esercizio di un potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità.

Si deve poi osservare che, secondo la Corte d’Appello, le due fattispecie concrete, che ad avviso di parte ricorrente sarebbero state decise in modo diverso dal Giudice T., non erano affatto sovrapponibili, bensi nettamente distinte. In un caso infatti si trattava della mancata produzione della procura da parte dei difensori costituiti; nell’altro mancava l’intero fascicolo di parte attrice.

Infine, quand’anche il giudice T. avesse deciso in modo diverso fattispecie identiche, tale circostanza non consentirebbe comunque le ingiurie nei confronti del medesimo giudice.

Con il terzo motivo si denuncia «Insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Sostiene in particolare il ricorrente che la motivazione è carente in ordine alla determinazione del danno per la totale assenza di parametri relativi alla valutazione dello stesso.

Il motivo è infondato.

Il Giudice può fare infatti ricorso alla valutazione equitativa non soltanto quando è impossibile stimare con precisione l’entità del danno, ma anche quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione di esso sia difficoltosa. Nell’operare tale valutazione egli non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata della corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata.

Nel caso di specie la Corte d’Appello ha comunque tenuto conto che il contenuto della memoria era destinato alla conoscenza delle parti, nonchè degli eventuali giudici di gravame e di cancellieri, con diffusione non limitata, ma anzi realizzata in un ambiente che costituiva quello proprio del giudicante e nell’ambito del quale erano concretamente possibili giudizi di valore sulla sua capacità, E’ soprattutto sulla sua correttezza, con innegabili riflessi negativi sulla considerazione di sé e da parte di terzi.

Per tutte le ragioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi € 1.500,00 di cui € 1.300,00 per onorari, oltre rimborso forfettario delle spese generali ed accessori come per legge.

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