cassazione 7

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 17 marzo 2015, n. 5197

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta dal vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.. Assumono violati gli artt. 1325 e 1882 c.c..

Espongono, al riguardo, che il contratto di assicurazione stipulato da F.R. copriva il rischio di ‘invalidità permanente’, definito nelle condizioni generali come la ‘perdita o diminuzione, definitiva irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia’.

Nel caso di specie l’assicurato, a causa del tumore, perse la capacità di lavoro: e dunque si era avverato il rischio assicurato.

La Corte d’appello invece, aveva – errando – ritenuto che nella specie nessuna ‘invalidità permanente’ fosse insorta, perché quest’ultima è concepibile solo quando, guarita la malattia, questa abbia lasciato postumi permanenti all’ammalato.

1.2. Il motivo è inammissibile.

Ad onta della sua intitolazione formale, infatti, il motivo pone esclusivamente una questione di interpretazione del contratto: ovvero quale dovesse essere il senso da attribuire all’espressione ‘invalidità permanente’ in esso contenuta.

Le norme che i ricorrenti assumono violate (gli artt. 1325 e 1882 c.c.) sono del tutto irrilevanti nel presente giudizio, nel quale mai si è fatta questione né di quali fossero gli elementi essenziali del contratto (art. 1325 c.c.), né del fatto che quello stipulato tra le parti fosse un contratto di assicurazione (art. 1882 c.c.).

Né ovviamente è consentito a questa Corte supplire a carenze motivazionali dei ricorsi, andando a ricercare d’ufficio quali fossero le norme che il ricorrente intendeva assumere come violate.

Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., che la sentenza impugnata abbia violato le regole legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c..

2.1.1. Il criterio di interpretazione letterale sarebbe stato violato a causa del senso attribuito dalla Corte d’appello all’espressione ‘invalidità permanente’. Espongono i ricorrenti che secondo l’interpretazione del giudice di merito una invalidità permanente può concepirsi solo quando la malattia sia esaurita ed il paziente sia guarito con postumi: ma tale interpretazione sarebbe in contrasto con la chiara lettera del contratto, che definiva l’invalidità come la perdita definitiva della capacità di lavoro, perdita che nel caso di specie si è verificata già nel corso della malattia patita dall’assicurato, a nulla rilevando che la malattia stessa fosse inguaribile ed abbia condotto a morte l’assicurato, e quindi che non sia mai avvenuta una guarigione clinica.

2.1.2. La Corte d’appello avrebbe trascurato, poi, di valutare la condotta delle parti successiva alla conclusione del contratto: ed infatti nella fase stragiudiziale la Helvetia aveva rifiutato il pagamento dell’indennizzo assumendo che il diritto all’indennizzo non fosse trasferibile agli eredi, mentre nulla aveva eccepito circa la sussistenza nella specie d’un danno da invalidità temporanea.

2.1.3. La Corte d’appello avrebbe violato altresì il criterio di interpretazione complessiva del contratto (art. 1363 c.c.), là dove ha desunto la nozione di ‘invalidità permanente’ posta a fondamento della decisione dalla clausola contrattuale che impediva l’accertamento della suddetta invalidità prima del decorso d’un anno dalla denuncia della malattia: clausola che, secondo i ricorrenti, disciplinava il quantum dell’indennizzo e non l’indennizzabilità dell’infortunio.

2.1.4. Infine, i ricorrenti lamentano che la decisione del Tribunale abbia violato il criterio di interpretazione del contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.), perché escluderebbe l’indennizzabilità di tutte le malattie ad esito infausto, alterando l’equilibrio contrattuale e ‘l’equo contemperamento degli interessi delle parti’.

2.2. Il motivo è manifestamente infondato in tutti e quattro i profili in cui si articola.

Non vi è stata, in primo luogo, alcuna violazione del criterio di interpretazione letterale.

La Corte d’appello era chiamata infatti ad interpretare un contratto di assicurazione contro le malattie.

L’assicuratore, in forza di tale contratto, si era obbligato al pagamento in favore dell’assicurato d’un indennizzo nel caso in cui la malattia avesse causato una ‘invalidità permanente’.

Quest’ultima era contrattualmente definita come la ‘perdita o diminuzione, definitiva e irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia’.

Secondo la Corte d’appello, la suddetta ‘perdita o diminuzione’ non potrebbe che concepirsi una volta esaurita la fase acuta della malattia.

Secondo i ricorrenti, invece, una ‘invalidità permanente’ potrebbe concepirsi anche a malattia in corso, quando questa sia destinata ad avere un esito infausto.

2.3. L’interpretazione letterale propugnata dai ricorrenti è erronea.

Un contratto è un testo giuridico.

Le espressioni in esso contenute, se potenzialmente ambivalenti, vanno interpretate secondo il senso che è loro proprio nel contesto giuridico, non certo secondo il buon senso od il linguaggio comune.

Il lemma ‘invalidità’ è un lemma tecnico. Esso è frutto di una elaborazione ormai quasi secolare in ambito medico legale.

Essa designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente).

L’espressione ‘invalidità temporanea’ designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa.

L’espressione ‘invalidità permanente’ designa lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.

L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea.

2.4. I principi appena esposti sono stati mutuati dal legislatore in numerosissime norme. Per tutte, basterà ricordare:

(a) l’art. 137, comma 1, d.lgs. 7.9.2005 n. 209 (codice delle assicurazioni), il quale distinguendo il danno patrimoniale da inabilità temporanea rispetto a quello da invalidità permanente, implicitamente conferma che quest’ultima presuppone l’avvenuta guarigione, con postumi, della vittima;

(b) l’art. 138, comma 2, d.lgs. 209/05, cit., il quale distingue anch’esso il danno non patrimoniale temporaneo da quello permanente (definito ‘invalidità permanente’), in tal modo dimostrando che l’invalidità permanente non può cominciare a computarsi sinché duri l’invalidità temporanea;

(c) le infinite norme assicurative e previdenziali che, stabilendo la misura della invalidità permanente oltre la quale è dovuto il trattamento indennitario (due terzi, quattro quinti, eco), lasciano anch’esse intendere che in tanto è concepibile e misurabile una ‘invalidità permanente’, in quanto la malattia che l’ha causata sia cessata ed i postumi si siano stabilizzati: sarebbe infatti concepibile misurare i ‘due terzi’ d’una validità instabile ed in divenire (cfr., ex permultis, l’art. 302, comma 2, cod. ass., in tema di danni indennizzabili dal fondo di garanzia vittime della caccia; l’art. 1, comma 1, l. 20.10.1990 n. 302, in tema di provvidenze alle vittime del terrorismo).

2.5. I principi appena esposti, infine, sono già stati affermati da questa Corte, sia pure in fattispecie concrete diverse.

Infatti, chiamata a stabilire se spettasse o meno il risarcimento del danno biologico da invalidità permanente in un caso in cui le lesioni patite dalla vittima avevano causato la morte di questa a distanza di tempo dall’infortunio, questa Corte ha già stabilito che ‘se la morte [della vittima] è stata causata dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. Per l’esattezza l’invalidità permanente si considera insorta allorché, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità.

Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.

Si intende, pertanto, come nell’ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medicolegale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell’individuo’ (sono parole di Sez. 3, Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, p.3.3 dei ‘Motivi della decisione’).

A tale decisione possono, infine, affiancarsi tutte le altre – numerosissime – le quali hanno negato che l’invalidità permanente e quella temporanea possano sovrapporsi (ad es., ai fini del decorso della prescrizione o della quantificazione del risarcimento): in tutte queste decisioni si è costantemente affermato che sino a quando perdura l’invalidità temporanea, non sorge quella permanente; e quando viene ad esistenza quest’ultima, è necessariamente cessata la prima (così, ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 3806 del 25/02/2004, Rv. 570534, secondo cui ‘in tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell’invalidità temporanea e di quella permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno’).

L’interpretazione del contratto adottata dalla Corte d’appello, in conclusione, lungi dall’essere arbitraria rispetto al testo della polizza, è la sola coerente con quello, alla luce del seguente principio di diritto:

L’espressione ‘invalidità permanente’ designa uno stato menomativo divenuto stabile ed irremissibile, consolidatosi all’esito di un periodo di malattia: pertanto, prima della cessazione di questa, non può esistere alcuna ‘invalidità permanente’. Ne consegue che, ove in un contratto di assicurazione contro i rischi di malattia, sia previsto il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, alcun indennizzo è dovuto nel caso in cui la malattia patita dall’assicurato, senza mai pervenire a guarigione clinica, abbia esito letale.

2.6. Nemmeno sussiste la violazione, da parte della Corte d’appello, del criterio di interpretazione fondato sulla condotta tenuta dalle parti dopo la stipula del contratto.

La circostanza che la Helvetia, nella fase delle trattative stragiudiziali, non abbia ritenuto di sollevare l’eccezione di non indennizzabilità del danno da invalidità permanente, è infatti irrilevante ai fini dell’interpretazione del contratto:

– sia perché tale scelta costituisce frutto di una facoltà del debitore, ovviamente non preclusiva della facoltà di sollevare la suddetta eccezione in giudizio;

– sia perché la ‘condotta delle parti’ cui fa riferimento l’art. 1362 c.c. è quella esecutiva del contratto, non certo quella consistita nel replicare alla pretesa di adempimento formulata ex adverso;

– sia, soprattutto, perché la condotta delle parti quale criterio interpretativo del contratto può venire in rilievo quando il testo non sia sufficientemente chiaro, e come si è visto nel caso di specie il testo contrattuale era chiarissimo.

2.7. Inammissibile, per difetto di concreta rilevanza, è poi l’allegazione secondo cui la Corte avrebbe violato il criterio dell’interpretazione complessiva (art. 1363 c.c.), là dove ha ritenuto di suffragare la propria decisione facendo leva sulla clausola contrattuale che impediva l’accertamento dell’invalidità permanente prima d’un anno dalla denuncia della malattia.

Nella struttura della sentenza impugnata, infatti, tale argomento viene utilizzato dalla Corte d’appello ad abundantiam, e dunque quale che ne fosse la correttezza, l’espunzione di esso dalla motivazione della sentenza, impugnata non renderebbe quest’ultima immotivata.

2.8. Insussistente, infine, è la violazione del criterio di interpretazione secondo buona fede: sia perché anche tale criterio è suppletivo, e non viene in rilievo quando la lettera del contratto sia inequivoca; sia perché è proprio l’interpretazione propugnata dai ricorrente a sovvertire l’equilibrio contrattuale, pretendendo il pagamento dell’indennizzo dovuto per l’invalidità permanente in un caso in cui la malattia dell’assicurato aveva causato la morte dell’assicurato, non la sua invalidità: così trasformando una polizza malattia in una polizza vita.

Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..

Espongono, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe adottato una motivazione lacunosa, non indicando la fonte della nozione di ‘invalidità permanente’ da essa adottata.

3.2. Il motivo è tanto inammissibile quanto infondato.

È inammissibile perché il vizio di motivazione è concepibile solo con riferimento all’accertamento di fatti, e nel presente giudizio non si controverte sull’accertamento del contenuto oggettivo del contratto (il quale soltanto costituirebbe un accertamento di fatto), ma sul senso da attribuire ad una clausola contrattuale il cui terso non è in discussione e sul rispetto, da parte del giudicante, dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.: il che costituisce una questione di diritto, rispetto alla quale non è concepibile il vizio di motivazione, ma solo la violazione di legge.

Il motivo è tuttavia anche infondato, giacché per quanto detto la nozione di ‘invalidità permanente’ fatta propria dalla Corte d’appello è quella condivisa dalla unanime dottrina medico legale, dal legislatore e da questa Corte.

Le spese.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c..

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

-) rigetta il ricorso;

-) condanna F.C. , F.A. e F.G. , in solido, alla rifusione in favore di Helvetia Compagnia Svizzera di Assicurazioni S.A. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A. ed accessori di legge.

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