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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 17 febbraio 2015, n. 6844

Ritenuto in fatto

1. V.F. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano di conferma della sentenza del Tribunale di Monza di condanna per il reato di cui agli artt. 40 e art. 609 quater c.p. in relazione ad atti sessuali posti in essere da M.E. nei confronti della figlia minore di quattordici anni C.A..
2. Con un unico motivo lamenta la mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza del reato contestato posto che, nonostante elementi indicativi unicamente di un atteggiamento negligente e superficiale, i giudici di merito hanno invece concluso per la sussistenza del dolo. Infatti, dopo avere immediatamente appreso dalla figlia che questa aveva in corso una relazione sentimentale con il sig. M. , la allontanò immediatamente facendola trasferire da parenti ed altrettanto fece con l’uomo; in contrasto con ciò i giudici hanno invece ritenuto che la madre fosse già a conoscenza in precedenza di tale circostanza. Né si sarebbe tenuto conto della ridotta capacità di giudizio dell’imputata, essendo ella affetta, all’epoca dei fatti, da patologie psichiatriche e da deficit cognitivo.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è infondato.
Va premesso che in più occasioni questa Corte ha affermato che risponde del reato sessuale in danno del figlio minore il genitore che, consapevole del fatto e nella possibilità di porvi fine, non si attivi per impedirlo ma tenga una condotta passiva, ricoprendo egli una posizione di garanzia a tutela dell’intangibilità sessuale del figlio stesso che rende operante la clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, c.p. (Sez. 3, n. 36824 del 08/07/2009, N. e altro, Rv. 244931; Sez.3, n. 26369 del 09/06/2011, S., Rv. 250624); si è poi aggiunto che tale responsabilità a titolo di causalità omissiva ricorre allorquando sussistano le condizioni rappresentate: a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento; b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul “garante”; c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento (Sez. 3, n. 4730 del 14/12/2007, B., Rv. 238698).
Nella specie la motivazione della sentenza impugnata da conto della corretta applicazione di tali principi in particolare con riguardo alla prima delle condizioni appena ricordate, contestata in ricorso.
Già la sentenza di primo grado, ripresa nelle argomentazioni da quella impugnata, aveva posto in risalto, tra l’altro, che l’imputata, per sue stesse dichiarazioni: 1) sapeva che la figlia era “perdutamente innamorata di E. “, che la stessa si baciava con tale uomo (più grande di lei di venti anni) e che la figlia “voleva stare con lui”; 2) ad aprile del XXXX aveva visto A. seduta sulle gambe dell’uomo mentre questi le accarezzava i capelli ed il viso “in un modo troppo strano”; 3) in alcune occasioni ebbe a condurre seco la figlia in un capannone ove ella si incontrava con tale Ad. , con cui aveva una relazione all’insaputa del proprio compagno, e A. si appartava invece con E. nella camera da letto di questi.
Da tali dati oggettivi la Corte ha dunque correttamente tratto, quanto alla prima delle condizioni riportate, e contrariamente appunto a quanto invocato in ricorso, una situazione di ragionevole conoscibilità della circostanza che, anche a non volere considerare il fatto che già tra la figlia e l’uomo erano intervenuti atti sessuali (tali essendo i baci che con lo stesso A. si scambiava), rapporti di carattere sessuale, ben più invasivi, erano evidentemente in essere (come poi ampiamente raccontato dalla persona offesa soffermatasi sulle penetrazioni anali subite e sugli atti di masturbazione compiuti); la sentenza ha anzi logicamente e, dunque, insindacabilmente, tratto dalla necessità, per la donna, di condurre con sé la figlia nel luogo ove ella si incontrava con Ad. al fine di avere una “copertura” per i suoi incontri clandestini (si veda in proposito, oltre a pag. 6 della sentenza impugnata, anche pag. 19 della sentenza di primo grado), un ulteriore elemento indicativo della deliberata omessa considerazione di una situazione la cui evidenza avrebbe imposto un immediato intervento (posto in essere invece solo successivamente mediante l’allontanamento di A. , peraltro tale da meritare all’imputata il riconoscimento della circostanza attenuante ex art. 62 n. 6 c.p.).
Da tutto ciò deriva dunque l’infondatezza dell’assunto secondo cui la condotta dell’imputata sarebbe stata caratterizzata non già da dolo, bensì da mera negligenza e superficialità; e ciò tanto più ricordando che, come già affermato da questa Corte proprio in relazione ad una condotta di omesso impedimento di reiterate condotte di abuso sessuale, la responsabilità penale ex art. 40 cpv. c.p. può qualificarsi anche per il solo dolo eventuale, a condizione che sussista, e sia percepibile dal soggetto, la presenza di segnali perspicui e peculiari dell’evento illecito caratterizzati da un elevato grado di anormalità (Sez. 3, n. 28701 del 12/05/2010, P.G. in proc. A. e altri, Rv. 248067); e che, nella specie, tali segnali sussistessero, è cosa che la sentenza impugnata ha, come appena visto sopra, bene messo in evidenza.
4. L’infondatezza del ricorso ne comporta il rigetto con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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