Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 16 giugno 2014, n. 13654

Svolgimento del processo

l. P.F., in proprio e nella qualità di rappresentante del proprio figlio minore R.C., citò a giudizio, davanti al Tribunale di Milano, P.R., G.A., I.S., O.C. e B.C. e, sul presupposto di essere stata convivente del noto stilista M.G., chiese che tutti i convenuti, condannati in sede penale per il delitto di omicidio premeditato del medesimo, fossero condannati in suo favore al risarcimento dei danni conseguenti.
Si costituì in giudizio la sola R., chiedendo il rigetto della domanda, mentre gli altri convenuti rimasero contumaci.
Il Tribunale accolse la domanda e condannò tutti i convenuti, in solido, al pagamento in favore dell’attrice della somma di euro 692.758,30 in moneta attuale, di cui euro 200.000 per danni non patrimoniali ed euro 492.758,30 per danni patrimoniali, oltre interessi e con il carico delle spese; respinse l’analoga domanda risarcitoria proposta dalla F. nella qualità di legale rappresentante del figlio.
2. Proposto appello da S.B., nella qualità di tutrice e legale rappresentante della R., la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 17 marzo 2008, ha rigettato l’appello, ha confermato la pronuncia di primo grado ed ha posto a carico dell’appellante le ulteriori spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale che la sentenza di primo grado meritava conferma sia in ordine al riconoscimento, in astratto, del diritto del convivente more uxorio al risarcimento dei danni conseguenti all’uccisione del partner sia in ordine alla dimostrazione, da parte della F., che il suo regime di convivenza con M.G. fosse in tutto rispondente ai requisiti individuati dalla giurisprudenza come indicatori di una convivenza di tipo paraconiugale.
Allo stesso modo, la sentenza meritava conferma in ordine alla sussistenza della piena capacità di intendere e di volere della R. nel momento dell’omicidio, e ciò sulla base della copiosa consulenza tecnica espletata in sede di processo penale; nonché sotto il profilo dell’entità del danno risarcibile, dovendosi riconoscere alla F. il diritto al risarcimento del danno sia patrimoniale che non patrimoniale.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Milano propone ricorso S.B., nella qualità di tutrice e legale rappresentante della R., con atto affidato a due motivi.
P.F. non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

l. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., per avere erroneamente la Corte territoriale qualificato il rapporto tra il G. e la F. come convivenza more uxorio, con conseguente diritto al risarcimento del danno in favore della F.; nonché per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e per omessa o insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, non avendo il giudice d’appello pronunciato sulla richiesta di prova contraria al fatto che si intendeva dimostrare.
La ricorrente premette di non avere intenzione di confutare le considerazioni di carattere generale con le quali la Corte milanese ha riconosciuto l’astratta legittimazione della convivente more uxorio ad agire per il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’uccisione del proprio partner; tale questione deve intendersi come rinunciata, atteso l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza in ordine al riconoscimento di tale diritto.
Lamenta la ricorrente, invece, l’errato utilizzo della prova presuntiva, essendo la Corte d’appello in tal modo pervenuta ad un risultato ritenuto aberrante, poiché le prove raccolte non sarebbero dotate del requisito della gravità, precisione e concordanza che la legge richiede. Si rileva, inoltre, che la Corte di merito non avrebbe fornito alcuna risposta in ordine alle richieste istruttorie presentate con l’atto di appello.
1.1. Nell’esame di questo motivo occorre prendere le mosse da una prima constatazione generale, e cioè che la stessa ricorrente ha espressamente rinunciato, come si è detto, alla contestazione di quella parte della motivazione della sentenza nella quale la Corte d’appello ha dichiarato di riconoscere, in astratto, la legittimazione dei conviventi more uxorio al risarcimento dei danni conseguenti all’uccisione del partner. Si tratta, come la stessa ricorrente riconosce, di una legittimazione «ormai pacificamente ammessa dalla giurisprudenza di legittimità»; infatti, oltre alle pronunce richiamate dalla Corte milanese, sono da citare le più recenti sentenze di questa Corte con le quali si è riconosciuto che il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non solo ai membri della famiglia legittima, ma anche a quelli della c.d. famiglia naturale, a condizione che si dimostri l’esistenza di uno stabile e duraturo legame affettivo che, per la significativa comunanza di vita e di affetti, sia equiparabile al rapporto coniugale (così, più di recente, le sentenze 16 settembre 2008, n. 23725, 7 giugno 2011, n. 12278, e 21 marzo 2013, n. 7128).
Poiché questa Corte, quindi, non è chiamata ad affrontare il problema della legittimazione astratta della F., ciò comporta l’evidente inammissibilità della prima parte del quesito di diritto formulato alle pp. 30-31 del ricorso a sostegno del motivo ora in esame (dica la Corte cosa si debba intendere per famiglia di fatto e quali caratteri tale formazione sociale debba presentare per poter considerare il convivente more uxorio meritevole di tutela giuridica verso i terzi autori di reati a danno dell’altro convivente). L’accertamento che ivi si sollecita, infatti, per la parte in cui non implica profili di carattere sociologico estranei all’argomentare giuridico, è stato già compiuto più volte da questa Corte, la quale è pervenuta alle menzionate conclusioni, che sono qui da richiamare integralmente.
1.2. Il problema che si pone, quindi, è quello di decidere se, nella specie, vi fosse la prova della sussistenza dei requisiti di una stabile convivenza; sicché lo scrutinio del motivo in esame si risolve nello stabilire (seconda parte del quesito di diritto) se ci sia stato o meno, da parte della Corte territoriale, un uso corretto della prova presuntiva, in relazione alla ricostruzione della qualità del rapporto esistente tra P.F. ed il defunto stilista M.G..
A questo proposito, questa Corte ha affermato che la prova presuntiva è frutto di una valutazione complessiva delle prove da parte del giudice di merito, il quale è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi (sentenze 13 ottobre 2005, n. 19894, e 6 giugno 2012, n. 9108). La prova presuntiva esige, per la sua stessa natura, una valutazione globale dei fatti noti emersi nel corso dell’istruzione (sentenza 9 marzo 2012, n. 3703); valutazione che, se sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici, è incensurabile in sede di legittimità (sentenza 5 dicembre 2011, n. 26022).
1.3. Alla luce di tali premesse, è evidente che il motivo di ricorso in esame è privo di fondamento.
La Corte d’appello di Milano, con una pronuncia assai bene argomentata e supportata da logica impeccabile, ha ricostruito – richiamando, ove del caso, la sentenza di primo grado – la natura e l’intensità del rapporto intercorso tra la F. ed il G. ed è pervenuta alla conclusione di ritenere dimostrati i requisiti necessari per riconoscere l’esistenza di un rapporto more uxorio tra i due ed il conseguente diritto al risarcimento in capo alla convivente. Ha richiamato, al riguardo, il fatto che la convivenza fosse «frutto di una comune scelta di vita»; che i conviventi, pur essendo andati a vivere insieme solo pochi mesi prima dell’omicidio dello stilista, avevano da molto tempo prima un rapporto serio e stabile, non limitato alle sole «frequenti occasioni mondane», tanto che «avevano coinvolto nel loro progetto anche i rispettivi figli, nati dai loro precedenti matrimoni». La sentenza in esame, poi, ha avuto cura di precisare come i caratteri di detta convivenza non potessero essere indeboliti dal fatto che il G. «avesse dichiarato e dimostrato nei fatti di non volere ingerenze della F. nella gestione del proprio patrimonio ed in genere dei propri rapporti economici», essendo ben comprensibile che questi – titolare di un patrimonio di notevolissime dimensioni – desiderasse tutelare le figlie avute proprio dal matrimonio con la R.. E la sentenza ha pure dimostrato di aver valutato la presunta infedeltà della F. – desumibile, a quanto pare, da una telefonata intercettata tra la suddetta ed un altro uomo – non ritenendo simile dato idoneo a modificare in modo significativo il quadro probatorio.
Si tratta, com’è evidente, di una valutazione di merito corretta e completa, fondata anche su elementi presuntivi valutati nella loro globalità; né, d’altra parte, può acquisire importanza il fatto che la materiale convivenza sia durata pochi mesi, poiché è pacifico che essa si interruppe per l’uccisione del G., sicché non può trarsi alcuna conclusione favorevole alla ricorrente da un elemento del genere.
In conclusione, quindi, il primo motivo di ricorso non è fondato, perché si risolve nella sollecitazione di questa Corte a compiere un nuovo e non consentito esame del merito della vicenda; il che risulta, in modo ancora più evidente, anche dalle richieste istruttorie di cui alle pp. 28-30 del ricorso, sulle quali la Corte d’appello avrebbe immotivatamente disatteso la richiesta.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2056, 1226 e 2059 cod. civ., oltre ad omessa o insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Osserva la ricorrente che in ordine al danno non patrimoniale sarebbe «mancata qualsiasi prova, in concreto, del turbamento psichico e dei patimenti asseritamente subiti» dalla F.; quanto al danno da perdita di chances, la sentenza sarebbe errata per aver ricondotto l’insorgenza del diritto ad una convivenza durata appena quattro mesi; e che, quanto al danno patrimoniale, aver ancorato l’entità del risarcimento all’importo mensile dei costi dell’appartamento della coppia, proiettato nel futuro sulla base dell’età del defunto, sarebbe frutto di una previsione del tutto arbitraria, mancando la prova che il rapporto tra i due si sarebbe realmente protratto nel tempo.
2.1. Il motivo non è fondato.
La Corte osserva, innanzitutto, che il quesito di diritto
formulato alle pp. 39-40 del ricorso, col quale si conclude il motivo in esame, contiene una prima parte che è inammissibile. Si chiede alla Corte, infatti, se sia onere della parte asseritamente danneggiata, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., fornire dimostrazione non soltanto dei presupposti fondanti la richiesta risarcitoria, ma anche degli specifici danni in concreto patiti, con la conseguenza che, in assenza di tale dimostrazione, al giudice non è consentito procedere alla richiesta liquidazione. È palese che il quesito si risolve nella proposizione di una domanda la cui risposta è affermativa, ma del tutto priva di utilità ai fini della decisione; il punto non è, infatti, stabilire quale sia il riparto dell’onere della prova, bensì verificare se la sentenza abbia correttamente proceduto nella liquidazione del danno in favore della F.. Questo aspetto è contenuto nella seconda parte del quesito, che va esaminata nel merito.
Al riguardo, tuttavia, va fatta una prima considerazione, e cioè che le censure proposte sono, almeno in parte, ripetitive di quelle del primo motivo, perché la parte ricorrente torna ad affermare che nel caso in esame non sarebbe stata raggiunta la prova della convivenza tra la F. e il G.. Tali aspetti sono stati già scrutinati; sicché resta il solo profilo quantitativo.
La Corte d’appello, però, anche su questo punto ha fornito una motivazione ampia, convincente e priva di vizi logici. Essa ha evidenziato, da un lato, la sussistenza del danno non patrimoniale, desumibile anche tramite presunzioni, affermandone la risarcibilità in considerazione del forte legame affettivo esistente tra la vittima e la F.; quanto, poi, al danno patrimoniale, la pronuncia ha dato conto che la relativa prova era stata offerta anche sotto il profilo dell’entità delle erogazioni di denaro (definite «ingenti, ma comunque rispondenti all’elevatissimo tenore di vita sociale proprio di una persona ricchissima, quale era il G.»); precisando, quanto alla liquidazione del danno, che si trattava di un danno potenziale, fondato sulla ragionevole aspettativa della prosecuzione del rapporto paraconiugale. Il rischio insito in simile calcolo è stato tenuto in opportuna considerazione dalla Corte d’appello, la quale – facendo proprio il conteggio del Tribunale – dopo aver determinato l’entità del risarcimento, ha ridotto di un terzo la somma concretamente liquidata, proprio per le ragioni ora evidenziate.
A fronte di simile valutazione, si rivelano infondate sia le censure di violazione di legge perché la sentenza ha rispettato le regole in tema di onere della prova e di criteri di liquidazione del danno – sia quelle di vizio di motivazione; è piuttosto il motivo di ricorso ora in esame, come già si è detto a proposito del primo, a tendere verso la sollecitazione di questa Corte ad un nuovo e non consentito esame del merito.
3. In conclusione, il ricorso è rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

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