Corte di Cassazione bis

suprema CASSAZIONE CIVILE

SEZIONE III

Sentenza 14 gennaio 2014, n. 531

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso …./2008 proposto da:

L.N. (OMISSIS) titolare dell’omonima impresa individuale, P.V. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA NIZZA 53, presso lo studio dell’avvocato EFRATI CARLA VIRGILIA, rappresentati e difesi dagli avvocati NARRACCI VITO, DE PALO ANTONIO giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

M.E. (OMISSIS), T.N. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA L. MANTEGAZZA 24, presso lo studio dell’avvocato GARDIN, rappresentati e difesi dall’avvocato COLARUSSO ROMANO giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

MA.NI., m.c., SOCIETA’ REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI;

– intimati –

avverso la sentenza n. …/2007 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 20/02/2007, R.G.N. …/2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/11/2013 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La presente controversia trae origine da un grave incidente sul lavoro occorso a T.S. in data (OMISSIS) a seguito del cedimento di una piattaforma su cui lo stesso aveva preso posto, mentre partecipava, in qualità di dipendente della ditta Ma., alle operazioni preliminari al montaggio di ascensori presso il palazzo dell’Intendenza di Finanza di (OMISSIS).

T.N. e M.E., genitori di T.S., agirono innanzi al Tribunale di Taranto nei confronti dell’ing. L.N., di m.c. e dell’ing. P.V. per il risarcimento dei danni da essi subiti in dipendenza dell’evento dannoso causativo dell’invalidità totale del figlio, esponendo che la ditta Ma. operava su commissione dell’Impresa L. e precisando che, in sede penale, era stato accertato che la caduta dell’impalcato era ascrivibile alle manomissioni degli elementi portanti operate dalla ditta m., nonchè alla carenza di controlli e al comportamento gravemente omissivo dell’Impresa L. e del suo direttore tecnico P.V..

Chiamati in causa ad istanza del L. e del P., la ditta Ma.Ni., la V.O.E.M. s.r.l., di cui la Ma. era concessionaria, To.Vi. e Lo.Lo., questi ultimi in proprio e quali incaricati delle Opere Pubbliche, il Ministero delle Opere Pubbliche, nonchè La Reale Mutua di Assicurazioni, che prestava garanzia assicurativa in favore dell’impresa L., la causa venne rimessa innanzi al foro erariale di Lecce; quindi riassunta dagli attori innanzi al Tribunale di Lecce e, infine, decisa con sentenza n. 2433/2004 con la quale il Tribunale, sez. stralcio accertò la responsabilità nella causazione del sinistro occorso a T.S., ascrivendola nella misura del 40% a carico della ditta Ma.Ni. e nella misura del 20%, per ciascuno, a carico del L., del P. e del m.;

condannò ognuno di costoro al pagamento, in misura proporzionale al proprio grado di responsabilità, della complessiva somma di Euro 150.000,00 (di cui Euro 50.000,00 per ciascuno dei genitori a titolo di danno morale ed Euro 25.000,00 per ciascuno dei genitori a titolo di danno esistenziale) e quindi, al pagamento, rispettivamente, il Ma., di Euro 60.000,00 e, gli altri tre, di Euro 30.000,00 ciascuno, il tutto oltre accessori; con diritto di rivalsa del L. nei confronti della Reale Mutuo; rigettò, invece, la domanda nei confronti della VOEM s.r.l., del Lo., del To. e del Ministero.

La decisione venne gravata da impugnazione in via principale da parte di L.N. e P.V., i quali contestavano la propria responsabilità nel sinistro e la quantificazione dei danni, evidenziando, segnatamente, il primo anche l’avvenuta archiviazione della propria posizione in sede penale e la non ascrivibilità della responsabilità ex art. 2087 cod. civ. ravvisata a suo carico dal Tribunale, quale mero committente dell’opera, in difetto di un comportamento colposo.

In via incidentale proposero altresì appello: Ma.Ni., il quale lamentava il mancato accoglimento della propria domanda riconvenzionale; T.N. e M.E., che si dolevano del riconoscimento della responsabilità del Ma., esclusa in sede penale, nonchè m.c., il quale chiedeva di escludere o almeno attenuare la responsabilità a suo carico; non era, invece, impugnata la statuizione di rigetto della domanda nei confronti della VOEM s.r.l., del Lo., del To. e del Ministero.

Con la sentenza qui impugnata, n. 121 in data 20.02.2007 la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato che l’infortunio sul lavoro subito da T.S. va ascritto per il 20% a carico di m.c., per il 40% a carico di Ma.Ni. e per il 40% a carico di P.V. e di L.N. e, per l’effetto, ha condannato, in favore di T.N. e di M.E., al pagamento delle seguenti somme: il m. di Euro 30.000,00, il Ma. di Euro 60.000,00; il L. e il P., in solido tra loro, di Euro 60.000,00 oltre accessori; con rivalsa del L. nei confronti della Reale Mutua e conferma nel resto.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione L. N., svolgendo dieci motivi.

Hanno resistito T.N. ed M.E., depositando controricorso.

Nessuna attività difensiva è stata svolta da parte degli altri intimati.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In ordine alla responsabilità dell’evento la Corte di appello ha ritenuto che la rovinosa caduta dall’impalcatura di T.S. e le conseguenti gravissime lesioni dallo stesso riportate nell’incidente siano state determinate dalla concorrente condotta, commissiva e omissiva, di m.c., dell’ing. P.V. e di Ma.Ni. e, precisamente: dal m., quale titolare dell’omonima ditta, per le manomissioni operate sull’impalcatura, senza poi provvedere al ripristino a regola d’arte (in particolare aggiungendo due monconi, anzichè sostituire in toto i due traversi tagliati) al termine dei lavori ad essa affidati;

dall’ing. P., quale direttore e responsabile del cantiere della ditta L., per avere omesso di controllare alla ripresa dei lavori lo stato dell’impalcatura con la dovuta diligenza ed eventualmente ordinarne il ripristino nell’originaria configurazione;

dal Ma., quale titolare dell’omonima ditta, contrattualmente tenuta a dare indicazione sui ponteggi necessari per l’installazione, per avere, con negligenza e imperizia, impartito ordini e disposizioni concernenti anche lo spostamento dei puntelli sull’impalcatura, senza accorgersi o, comunque, senza tenere conto del nuovo assetto creato dalla ditta m..

In ordine alla gravità delle rispettive colpe, costituente lo specifico oggetto dei gravami, la Corte territoriale ha ritenuto che il contributo causale del m. fosse inferiore, in ragione del 20%, rispetto a quello del P. e del Ma., atteso che il primo, dopo la rimozione di parte dell’impalcatura, aveva riconsegnato il cantiere all’appaltatore e al direttore dei lavori, facendo (colpevolmente) affidamento sulla diligenza di quanti avrebbero poi utilizzato l’impalcatura, sicchè la negligenza di questi ultimi ( P. e Ma.), intervenuti successivamente, appariva senz’altro maggiore rispetto a quella della ditta m. e pari al 40% per ciascuno di essi.

Con più specifico riferimento alla posizione dell’odierna ricorrente l’affermazione di responsabilità risulta fondata ex art. 2049 cod. civ. in ragione del rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto illecito del suo dipendente e le mansioni affidate al P.;

donde l’affermazione di solidale responsabilità di L.N., in solido con il proprio dipendente, nella percentuale del 40% riconosciuta a carico di costui.

2. Il ricorso – avuto riguardo alla data della pronuncia della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e antecedente al 4 luglio 2009) – è soggetto, in forza del combinato disposto di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2 e della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, alla disciplina di cui agli artt. 360 cod. proc. civ. e segg. come risultanti per effetto del cit. D.Lgs. n. 40 del 2006.

2.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. di dire “se il giudice può interferire nel potere dispositivo delle parti, sostituendo l’azione proposta (nella specie: azione per responsabilità diretta nella causazione di un infortunio) con una diversa, fondata su fatti diversi o su una diversa causa petendi (nella specie: azione per responsabilità indiretta o per fatto altrui”.

2.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 343, 345 e 346 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. di dire “se sussiste il vizio di ultrapetizione qualora il giudice di appello accolga la domanda dell’attore per una ragione (responsabilità ex art. 2049 c.c.) rilevata d’ufficio e completamente estranea al dibattito svoltosi tra le parti in secondo grado, pronunciando oltre l’ambito del giudizio di appello, quale definito dalle domande principali e incidentali delle parti, violando i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello”.

2.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio sancito dall’art. 111 Cost. e del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. di dire “se sussiste nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa per il fatto che il Giudice di appello abbia deciso sulla base di una questione (nella specie: responsabilità indiretta o per fatto altrui ex art. 2049 c.c.) rilevata d’ufficio non sottoposta al contraddittorio delle parti, con violazione del diritto ad ampliare l’area della cognizione di merito a seguito del rilievo d’ufficio”.

3. I suddetti motivi, per l’evidente connessione logico-giuridica, sono suscettibili di esame unitario, giacchè, sotto vario profilo, sono prospettati, tutti, sulla base del medesimo assunto e, cioè, che la Corte territoriale, riconoscendo la responsabilità del L. ex art. 2049 cod. civ., per il fatto del proprio dipendente P., abbia accolto altra e diversa domanda rispetto a quella, per fatto proprio, che sarebbe stata proposta nell’atto introduttivo del giudizio nei confronti dell’odierno ricorrente. Ciò avrebbe comportato la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, nonchè l’inammissibile mutamento del thema decidendum in appello e, in ultima analisi, una decisione “a sorpresa”, per non essere stata previamente sottoposta la questione al contraddittorio delle parti.

3.1. I suddetti motivi di ricorso non meritano accoglimento.

Innanzitutto si osserva che le censure non risultano proposte in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito ed oggi in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 2, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non avendo il ricorrente precisamente indicato, sulla base di quali atti processuali, la domanda originaria risulterebbe circoscritta, esclusivamente, al profilo di responsabilità diretta (tanto più che, nella specie, trattandosi di causa di “vecchio rito”, non erano applicabili le odierne preclusioni in punto di precisazione del thema decidendum). Invero il requisito di specificità dei motivi di impugnazione risulta ora tradotto nelle più puntuali e definitive disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 le quali richiedono la specificazione dell’avvenuta produzione in sede di legittimità, accompagnata dalla doverosa puntualizzazione del luogo all’interno di tali fascicoli, in cui gli atti o documenti evocati sono rinvenibili (cfr. SS.UU. 2 dicembre 2008, n. 28547; SS.UU. 25 marzo 2010, n. 7161).

Merita puntualizzare che le SS. UU. (sentenza 3 novembre 2011 n. 22726), intervenendo sull’esegesi del diverso onere di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, hanno confermato, anche per gli atti processuali, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, del contenuto degli stessi atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari al loro reperimento. Invero il tenore della disposizione non lascia adito a dubbi sull’estensione dell’onere di “specifica indicazione” di cui al n. 6 della norma a tutti gli atti e documenti (negoziali e non) necessari alla decisione sul ricorso, espressamente ricomprendendo nel relativo ambito oggettivo gli “atti processuali” generalmente intesi. E siffatto principio è stato confermato anche con riferimento alla denuncia di errores in procedendo, come quelli in cui si discute, in relazione ai quali la Cassazione è giudice del fatto, occorrendo a tali effetti che la censura venga svolta nei termini di specificità sopra enunciati (cfr. Cass. Sez. Unite, 22 maggio 2012, n. 8077).

D’altra parte l’esigenza di specifica indicazione degli atti sui quali il ricorso si fonda, lungi dal rispondere a vuoto formalismo, non può che positivamente circoscrivere l’ambito d’inevitabile soggettività della correlativa valutazione (cfr. Cass. 11 febbraio 2011 n. 3522 in motivazione).

3.2. Soprattutto i suddetti motivi di ricorso prescindono totalmente dall’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui il principio – in base al quale sussiste vizio di “ultra” o “extra” petizione ex art. 112 cod. proc. civ. quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato – va posto in immediata correlazione con il principio iura novit curia di cui all’art. 113 cod. proc. civ., comma 1, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (cfr. ex multis, Cass. 19 aprile 2013, n. 9590). Inoltre nell’esercizio del potere di interpretazione o qualificazione della domanda, il giudice di merito non è in alcun modo condizionato dalle formule adottate dalla parte, non deve attenersi alla mera lettera degli atti in cui le domande risultino articolate, ma deve aver riguardo, piuttosto, al contenuto sostanziale delle pretese, desumibile dalla natura delle situazioni dedotte in giudizio; tenendo conto anche delle eventuali precisazioni effettuate nel corso del giudizio medesimo (principio pacifico: cfr. Cass. 14 marzo 2006, n. 5442; Cass. 15 gennaio 1999, n. 383). In particolare l’accertamento del tipo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall’attore, anche attraverso il richiamo strumentale a singole norme di legge, quali l’art. 2087 o l’art. 2043 cod. civ., mentre assume rilievo decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito come enunciato dalla parte entro i limiti fissati per la precisazione del thema decidendum et probandum. E ciò può avvenire anche in sede di gravame, giacchè l’attore, totalmente vittorioso in primo grado, non ha l’onere di proporre appello incidentale al fine di far valere la possibilità che la responsabilità del danneggiante, accertata in primo grado sul piano fattuale, sia riconducibile a una diversa fonte, mentre rientra nel potere ufficioso del giudice di merito, in qualsiasi fase del procedimento, il compito di qualificare giuridicamente la domanda e di individuare conseguentemente la norma applicabile (cfr. Cass. 18 luglio 2011, n. 15724). Inoltre, se è vero che il giudice del merito incontra, comunque, il limite di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, con divieto di sostituire d’ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta (onde esorbita dall’ambito della mera interpretazione e qualificazione della domanda quando sostituisca la causa petendi dedotta in giudizio con una diversa basata su fatti diversi da quelli allegati dalla parte), è anche vero che per causa petendi, idonea ad identificare la domanda, debbono intendersi non solo e non tanto le ragioni giuridiche addotte a fondamento della pretesa avanzata, quanto e soprattutto l’insieme delle circostanze di fatto che la parte pone a base della propria richiesta.

3.3. Orbene, nella specie, per quanto è dato desumere dall’atto introduttivo del giudizio e dalla stessa sentenza impugnata (in difetto di specifiche e diverse indicazioni di parte ricorrente), la domanda è stata concepita in termini tali da abbracciare ogni titolo idoneo ad ottenere la reintegrazione del proprio patrimonio, posto che risulta evidenziato che tutti i convenuti erano “ciascuno per quanto di competenza e ragione nei loro rapporti, comunque, solidalmente responsabili” e sottolineato, con specifico riferimento all’odierno ricorrente, “il comportamento gravemente omissivo dell’Impresa L. e del suo direttore tecnico, l’altro convenuto P.”, in tal modo alludendo, in modo sufficientemente chiaro, a situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata dall’art. 2049 cod. civ..

In sostanza i motivi all’esame, anche a cagione del difetto di autosufficienza nei termini evidenziati sub 3.1., non offrono elementi per ritenere che la cognizione del giudice fosse circoscritta esclusivamente a far valere le conseguenze del fatto proprio dell’Impresa L.; al contrario l’insieme delle circostanze di fatto indicate valevano a proporre sia una domanda di risarcimento ex art. 2043 cod. civ. per illecito omissivo che quella di responsabilità ex art. 2049 cod. civ. per il comportamento omissivo del proprio dipendente, a nulla rilevando che tale norma non sia stata espressamente richiamata nell’atto introduttivo del giudizio.

I suddetti motivi vanno, dunque, tutti rigettati.

4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2049 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per avere la Corte territoriale erroneamente affermato la responsabilità del L. ai sensi dell’art. 2049 cod. civ.. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. di dire “se, ove taluno (nella specie, il Ma.Ni.), per eseguire un determinato lavoro (nella specie: la posa in opera degli ascensori) impartisca direttive a persona non alle proprie dipendenze, debba essere considerato committente, ai fini della responsabilità ex art. 2049 c.c., solo colui che ha fatto eseguire il lavoro (nella specie: il Ma.Ni.)”.

4.1. Il motivo non merita accoglimento.

In punto di diritto si rammenta che il contenuto precettivo dell’art. 2049 cod. civ. viene sintetizzato nella locuzione per cui la responsabilità indiretta del committente per il fatto dannoso del dipendente postula l’esistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra l’illecito e il rapporto che lega i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno (Cass. 31 agosto 2009, n. 18926), a nulla rilevando che tale comportamento si sia posto in modo autonomo nell’ambito dell’incarico o abbia addirittura ecceduto dai limiti di esso, magari in trasgressione degli ordini ricevuti, sempre che il dipendente abbia perseguito finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate e non finalità proprie, cui il datore di lavoro non sia, neppure mediamente, interessato o compartecipe (cfr. Cass. 9984/96 e 7331/97).

Per altro verso – trattandosi, nella specie, di lavori in subappalto – rileva anche l’autonomia organizzativa o meno del subappaltatore, giacchè la previsione, in via di principio, della responsabilità di quest’ultimo per danni arrecati a terzi non esclude quella del committente che abbia esercitato una concreta ingerenza sull’attività del subappaltatore al punto da ridurlo al ruolo di mero esecutore ovvero agendo in modo tale da comprimerne parzialmente l’autonomia organizzativa, incidendo anche sull’utilizzazione dei relativi mezzi. (Cass. 19 aprile 2006, n. 9065).

Rigorosamente attenendosi a siffatti principi, la Corte territoriale, per un verso, ha condiviso il rilievo svolto dal giudice penale circa la sussistenza di un'”azione sinergica della ditta L., che operava per i tagli, e del Ma., che operava per l’impiantistica” (v. pag. 21 della sentenza), in tal modo escludendo una totale autonomia organizzativa del subappaltatore; per altro verso, ha evidenziato che proprio le incombenze di direttore di cantiere, affidate dalla ditta L. al P., avevano reso possibile il negligente comportamento di quest’ultimo, precisando che quest’ultimo aveva perseguito finalità coerenti con l’incarico affidatogli dalla prima, per cui entrambi erano solidalmente responsabili.

Per giungere a tale conclusione, il giudice di merito ha compiuto, come si vede, un’analisi concreta della fattispecie, completamente diversa da quella enunciata nel quesito di diritto che – muovendo da una premessa assertiva che non trova riscontro nella decisione impugnata (quale il non meglio precisato assunto, secondo cui fosse il Ma. a impartire “direttive a persona non alle proprie dipendenze”) – si risolve in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub iudice (Cass. civ. Sez. Unite 02 dicembre 2008, n. 28536).

L’inadeguatezza del quesito altro non è, del resto, che il riflesso dell’inammissibilità del motivo, che, attraverso la surrettizia deduzione del vizio di violazione di legge, tenta di veicolare un’alternativa ricostruzione del fatto; e ciò è incompatibile con i limiti del giudizio di legittimità.

5. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342, 343 e 345 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. di dire “se la decisione del Giudice di appello può dar luogo ad una reformatio in peius in danno dell’appellante principale nonostante il rigetto dell’appello incidentale proposto nei suoi confronti e se l’impugnazione con la quale uno dei soggetti riconosciuti responsabili censuri il fatto del riconoscimento della sua responsabilità possa – per il caso di rigetto di tale doglianza – giustificare una statuizione diversa rispetto alla sentenza di primo grado sulla ripartizione pro quota della sua responsabilità”.

5.1. Anche il presente motivo non merita accoglimento.

Va premesso che, sulla ripartizione dell’obbligazione risarcitoria in misura proporzionale alle responsabilità della colpa (nonostante il principio di cui all’art. 2055 cod. civ.), non vi è stata specifica censura dell’unica parte interessata, e cioè gli odierni resistenti.

Per altro verso si rileva che la liquidazione dei danni, determinati in complessivi Euro 150.000,00 per entrambi i genitori, non è stato modificata dalla Corte di appello.

Ciò di cui si duole parte ricorrente, dunque, è che sia stata aumentata la percentuale di colpa del P. e, di riflesso, anche la propria percentuale di responsabilità (ex art. 2049 cod. civ.), con la conseguenza che, mentre in base alla sentenza di primo grado, il P. e il L. rispondevano, ognuno, per Euro 30.000,00 (oltre accessori), gli stessi, in base alla decisione di secondo grado, sono tenuti, in solido, al pagamento della complessiva somma di Euro 60.000,00.

Al riguardo – precisato che la censura non attinge la determinazione del grado di responsabilità del P., sul quale, anche per quanto si dirà in ordine ai motivi che seguono, vi è ormai giudicato interno – si osserva che, contrariamente a quanto prospettato da parte ricorrente, la questione della gravità delle rispettive colpe, prese in esame dal prime giudice, costituiva espressamente oggetto di gravame, come evidenziato nella stessa decisione impugnata (cfr. pag. 23). Valga in particolare considerare che uno degli appellanti incidentali – il m. – aveva chiesto escludersi o in subordine, attenuarsi la percentuale di responsabilità a suo carico (cfr. pag. 16 della stessa sentenza), legittimando i giudici di appello ad una completa revisione delle percentuali di colpa.

Il motivo va, dunque, rigettato.

6. I motivi sesto, settimo, ottavo e nono sono, tutti, diretti a contestare la responsabilità del P. per mancanza del nesso causale tra la condotta ascrittagli e l’evento lesivo, nonchè per mancanza di colpa.

6.1. Con il sesto motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, sul presupposto che la imprudente condotta del Ma., che effettuò lo spostamento dei puntelli in assenza del P., abbia avuto efficacia interruttiva del nesso causale con la condotta di quest’ultimo.

6.2. Con il settimo motivo di ricorso si denuncia omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, sul presupposto dell’assenza di nesso causale tra il “mancato controllo” del P. e l’evento dannoso.

6.3. Con l’ottavo motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 sul presupposto che la Corte di appello abbia fatto incoerente riferimento ad un diniego di autorizzazione da parte del P. in ordine alle manomissioni operate dalla ditta m..

6.4. Con il nono motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 sul presupposto che le manomissioni operate dal m. fossero state “occultate”.

7. Tutti i predetti motivi sono inammissibili per mancanza del necessario momento di sintesi che, ai sensi della seconda parte dell’art. 366 bis cod. proc. civ., deve corredare la censura motivazionale, come quelle all’esame. Invero “la chiara indicazione”, richiesta dalla seconda parte dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, da cui risulti non solo “il fatto controverso” in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ma anche – se non soprattutto – “la decisività” del vizio, e cioè le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (cfr. Sez. Unite, 1 ottobre 2007, n.20603; Cass. ord., 18 luglio 2007, n.16002;

Cass. ord. 7 aprile 2008, n.8897). Tale requisito non può, dunque, ritenersi rispettato quando solo la completa lettura dell’illustrazione del motivo – all’esito di un’interpretazione svolta dal lettore, anzichè su indicazione della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle censure (Cass., ord. 18 luglio 2007, n. 16002).

8. Con il decimo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. di dire “se il danno esistenziale è suscettibile di autonoma valutazione rispetto al danno biologico o se invece va considerato nell’ambito di quest’ultimo come componente di esso”.

8.1. Prima di ogni considerazione si rileva che il quesito di diritto non può essere astratto e avulso dalla fattispecie concreta, come quello a corredo della presente censura, ma deve, imprescindibilmente, attenere al decisum ed essere specificamente riferito al motivo cui accede contrapponendosi direttamente alla regola di diritto – che si ritiene erroneamente applicata – ed indicando sia pure sinteticamente il principio di diritto che dovrebbe essere applicato nella fattispecie.

Peraltro il quesito in oggetto, oltre che astratto, è anche mal posto, non risultando corretta nessuna delle due proposizioni alternativamente formulate. Invero le espressioni “danno esistenziale” e “danno biologico” non esprimono distinte categorie di danno, tantomeno l’uno può ritenersi una sottocategoria dell’altro, trattandosi, piuttosto, di locuzioni meramente descrittive dell’unica categoria di danno, che è quella del danno non patrimoniale, da identificarsi nel danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Per mera completezza si rileva che non vi è alcuna incongruenza logica-giuridica (come sembrerebbe sottendere il quesito) nel fatto che i giudici del merito abbiano riconosciuto, nella specie, il risarcimento del danno esistenziale e non già di quello biologico.

Ribadito il carattere meramente descrittivo di siffatte locuzioni, si rammenta che le Sezioni Unite di questa S.C., nel procedere alla sistemazione della figura del “danno non patrimoniale” con le note sentenze di San Martino, hanno chiaramente affermato che, in tema di danno alla persona, il riconoscimento del carattere “omnicomprensivo” del risarcimento del danno non patrimoniale non può andare a scapito del principio della “integralità” del risarcimento medesimo.

Corollario di detto principio è che il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile “esistenziale”, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane) non costituiscono una conseguenza indefettibile in tema di lesione dei diritti della persona, occorrendo valutare, caso per caso, se il danno non patrimoniale, nella fattispecie concreta, presenti o meno siffatti aspetti. Il compito del giudice consiste, dunque, nell’accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e procedendo alla loro integrale riparazione. Ne consegue che la mancanza di danno biologico (qual è stato ritenuto, nella specie, per i due genitori) non esclude la configurabilità in astratto di un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) e di un danno “dinamico-relazionale”, quale conseguenza, autonoma, della lesione medicalmente accertabile, che si colloca e si dipana nella sfera dinamico-relazionale del soggetto. E allorchè il fatto lesivo abbia profondamente alterato il complessivo assetto dei rapporti personali all’interno della famiglia, provocando, come è stato ritenuto nella specie, una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione, se non annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita del genitore in relazione all’esigenza di provvedere perennemente ai (niente affatto ordinari) bisogni del figlio, sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti, deve senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela ulteriore apprestata dall’art. 2059 cod. civ. in caso di lesione di un interesse della persona costituzionalmente protetto (Cass. 31 maggio 2003, n. 8827; cfr. anche Cass. 20 ottobre 2005, n. 20324; Cass. 12 giugno 2006, n. 13546).

In conclusione il ricorso va rigettato.

Si ravvisano giusti motivi ex art. 92 cod. proc. civ. (qui applicabile nel testo originario, anteriore alla L. n. 263 del 2005) per compensare interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità, avuto riguardo all’oggettiva difficoltà di una parte, almeno, delle questioni trattate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2014.

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