Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 11 maggio 2015, n. 19334

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIALE Aldo – Presidente

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

– (OMISSIS), n. (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di TORINO in data 5/05/2014;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;

udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FIMIANI Pasquale, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di TORINO emessa in data 5/05/2014, depositata in data 12/05/2014, con cui veniva parzialmente riformata la sentenza del tribunale di TORINO del 9/04/2013, assolvendolo dal reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, e rideterminando la pena per il residuo reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, nella misura di mesi 8 di reclusione, ferme restando le attenuanti generiche gia’ riconosciute e i doppi benefici di legge, riducendo l’importo della confisca fino alla concorrenza di euro 102.210,82, somma contestata per il reato di omesso versamento di ritenute certificate (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, contestato come commesso in data (OMISSIS), secondo le modalita’ esecutive e spazio temporali meglio descritte nell’imputazione sub b); l’impugnata sentenza, confermava, nel resto, le statuizioni del primo giudice quanto alle pene accessorie inflitte Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 12, ed alla pubblicazione della sentenza sul sito web del Ministero della Giustizia.

2. Con il ricorso, proposto dal difensore fiduciario cassazionista Avv. (OMISSIS), vengono dedotti due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), per violazione della norma processuale di cui all’articolo 649 c.p.p..

La censura (piu’ correttamente da qualificarsi come evocante il vizio dell’articolo 606 c.p.p., lettera c)) investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello confermato la responsabilita’ del ricorrente per il delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, nonostante in data antecedente all’instaurazione del procedimento penale questi fosse gia’ stato sanzionato in via amministrativa dall’Agenzia delle Entrate per la medesima violazione, come emergerebbe dalla copia della cartella di pagamento allegata al ricorso, da cui si evincerebbe che la sanzione applicata in relazione all’imposta evasa e’ pari al 30% dell’importo evaso e, dunque, pari ad euro 30.663,246 su un’omissione di euro 102.210,82 oltre interessi e sanzioni, per un importo complessivo pari ad euro 132.874,066; vi sarebbe, dunque, una sostanziale identita’ di oggetto tra il procedimento amministrativo e quello penale pendente a carico del ricorrente, con conseguente violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’articolo 649 c.p.p., come delineato dalle decisioni della Corte e.d.u. Grande Stevens c. Italia 4/03/2014 e Nikanen c. Finlandia 20/05/2014; non sembrerebbe esservi dubbio, secondo il ricorrente, sulla natura sostanzialmente penalistica della sanzione amministrativa comminata all’ (OMISSIS), atteso che la sanzione prevista dal Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, e’ pari al 30% dell’importo evaso; quanto, ancora, all’identita’ di condotta oggetto dei due procedimenti a suo carico, non sembra al ricorrente potersi ravvisare una sostanziale ed effettiva differenza tra l’omesso versamento del tutto e l’omesso versamento delle porzioni del tutto; per una corretta applicazione del principio del ne bis in idem, dovrebbe operarsi non un confronto in astratto tra le due fattispecie (come ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte di cui viene richiamata la sentenza n. 20266/2014), ma un confronto in concreto, criterio adottato dalla Corte e.d.u.; incombendo sul legislatore nazionale ex articolo 117 Cost., l’obbligo di adeguarsi ai principi posti dalla Convenzione e.d.u. nell’interpretazione giudiziale della Corte e.d.u. (obbligo incombente sul giudice comune, come affermato dalla Corte Cost. n. 317 del 2009), il ricorrente chiede pertanto annullarsi l’impugnata sentenza in quanto la condanna del medesimo per il reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, gia’ amministrativamente sanzionato, e’ lesivo dell’articolo 649 c.p.p., e articoli 4 e 7 della Convenzione e.d.u..

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), per mancanza e/o manifesta illogicita’ della motivazione dell’impugnata sentenza in ordine alla determinazione della pena sicuramente eccessiva.

La censura (piu’ correttamente da qualificarsi come evocante il vizio dell’articolo 606 c.p.p., lettera e)) investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello apparentemente motivato in ordine all’incidenza della comprovata crisi economica dell’azienda di cui il ricorrente e’ legale rappresentante nella rideterminazione della pena inflitta dal primo giudice; in sostanza, pur avendo la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza della crisi economica della societa’, ha ritenuto quest’ultima inidonea ad influire sulla riduzione della pena, senza fornire tuttavia alcuna spiegazione specifica sull’asserita inidoneita’, non potendo valere come giustificazione il riferimento al “notevole importo delle somme evase”; ed invero, si sostiene in ricorso, una volta riconosciute la comprovate difficolta’ economiche, la Corte territoriale avrebbe dovuto fornire un’argomentazione che prescindesse dall’entita’ delle somme evase, atteso che la crisi economica non puo’ che ripercuotersi in maniera direttamente proporzionale sui debiti della societa’ stessa.

3. Il difensore di fiducia del ricorrente formula, infine, in forza della procura speciale allegata al ricorso, istanza di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova, previsto dal nuovo articolo 168 bis c.p.p., sollevando, in subordine, questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 464 bis c.p.p., per violazione dell’articolo 3 Cost..

Premette il ricorrente che, alla data dell’udienza svoltasi davanti alla Corte territoriale, non era ancora entrata in vigore la Legge n. 67 del 2014, che ha introdotto il nuovo istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova ex articolo 168 bis c.p.p.; si pone quindi la questione se, in base alla formulazione dell’articolo 464 bis c.p.p., comma 2, detto istituto possa trovare applicazione – in assenza di norme transitorie per i processi pendenti alla data del 17 maggio 2014 che si trovino nella fase processuale successiva a quella indicata dal comma secondo della citata norma – anche nella fase dei giudizio di legittimita’; sostiene il ricorrente che una interpretazione costituzionalmente orientata della nuova disciplina processuale, ai sensi dell’articolo 3 Cost., dovrebbe consentire al ricorrente di proporre la richiesta di sospensione anche davanti a questa Corte.

In difetto, ove si ritenga di dover escludere l’accesso all’istituto della sospensione nella fasi successive a quelle indicate dall’articolo 464 bis c.p.p., tale ultima disposizione si porrebbe in contrasto con l’articolo 3 Cost., avendo il legislatore irragionevolmente operato una disparita’ di trattamento fra gli imputati il cui processo risulta pendente in primo grado nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento e gli imputati il cui processo si trova in fase avanzata rispetto a quella individuata dal legislatore; si formula, pertanto, in subordine, la eccezione di incostituzionalita’ dell’articolo 464 bis c.p.p., per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, evidenziando come la questione sarebbe rilevante, attesi gli effetti che l’ammissione alla sospensione del procedimento per la messa alla prova comporterebbe a vantaggio del ricorrente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso e’ infondato e dev’essere pertanto rigettato.

4. Seguendo l’ordine sistematico imposto dalla struttura dell’impugnazione di legittimita’ dev’essere, anzitutto, esaminato il primo motivo di ricorso, con cui il ricorrente eccepisce la violazione del principio del ne bis in idem, sostenendo di essere gia’ stato amministrativamente sanzionato ai sensi del Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, (sanzione pari al 30% della somma di cui era contestato l’omesso versamento pari ad euro 102.210,82). A sostegno dell’assunto, il ricorrente allega al ricorso una copia del ruolo (OMISSIS) (cartella di pagamento n. (OMISSIS) dell’importo di euro 311.419,51 da versarsi entro 60 giorni dalla notifica). Come anticipato, il ricorrente sostiene che, in base alla giurisprudenza della Corte e.d.u. (in particolare il riferimento e’ alla sentenza Grande Stevens e. Italia), si verserebbe in un caso di ne bis in idem, avendo gia’ subito la sanzione amministrativa pecuniaria, donde la pena inflitta si risolverebbe in un’illegittima duplicazione. Il motivo e’ infondato per un duplice ordine di ragioni.

4.1. Anzitutto, per un motivo processuale.

Ritiene il Collegio di dover aderire all’orientamento giurisprudenziale piu’ avveduto secondo cui non e’ deducibile dinanzi alla Corte di cassazione la violazione del divieto del “ne bis in idem”, in quanto e’ precluso, in sede di legittimita’, l’accertamento del fatto, necessario per verificare la preclusione derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione e’ rimessa esclusivamente al giudice di merito (Sez. 2, n. 2662 del 15/10/2013 – dep. 21/01/2014, Galiano, Rv. 258593).

Il Collegio e’ consapevole dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto (v., da ultimo, in senso difforme dall’orientamento qui seguito: Sez. 5, n. 44854 del 23/09/2014 – dep. 27/10/2014, Gentile e altro, Rv. 261311; Sez. 2, n. 33720 del 08/07/2014 – dep. 30/07/2014, Nerini, Rv. 260346; Sez. 6, n. 44632 del 31/10/2013 – dep. 05/11/2013, Pironti, Rv. 257809), il quale ritiene che la violazione del divieto del “bis in idem” si risolve in un “error in procedendo” che, in quanto tale, consente al giudice di legittimita’ l’accertamento di fatto dei relativi presupposti, ma ritiene tuttavia piu’ rispondente alla ratio del giudizio di legittimita’ e correlato ai limitati poteri cognitivi della Suprema Corte, che sia preferibile il primo orientamento.

4.2. Ed invero, il principio del ne bis in idem sostanziale di cui all’articolo 649 c.p.p. (che non va confuso con il principio del ne bis in idem processuale previsto dall’articolo 669 c.p.p.) non trova una copertura testuale nella Costituzione italiana, bensi’ nelle fonti internazionali di tutela dei diritti e delle liberta’ fondamentali dell’uomo (in particolare: articolo 4 1, VII Protocollo, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e l’articolo 14, 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici). Infatti, due sono le principali e piu’ dirette conseguenze della irrevocabilita’ della sentenza: 1) una negativa, ed e’ il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona e’ stata, in relazione ad esso, gia’ condannata o prosciolta; 2) l’altra, positiva, e’ la forza esecutiva della decisione. Il disposto di cui all’articolo 649 c.p.p., ha un’efficacia preclusiva, impedisce cioe’ la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto che sia gia’ oggetto di una decisione irrevocabile ed impone al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex articolo 129 c.p.p..

E’ evidente, dunque, che al fine di poter dichiarare come esistente un divieto di secondo giudizio e’ necessario il soddisfacimento di ambedue i requisiti sopra descritti. Ed e’ altrettanto evidente che, soprattutto al fine di accertare la esistenza del primo di essi (ossia che si tratti del “medesimo fatto”), e’ necessario lo svolgimento di apprezzamenti fattuali che esulano dalle possibilita’ di accertamento “fattuale” consentite alla Suprema Corte di Cassazione nei casi indicati dall’articolo 606 c.p.p., lettera c).

Il principio, sostenuto dall’orientamento disatteso da questo Collegio, per cui il divieto del ne bis in idem puo’ essere rilevato anche in sede di legittimita’, infatti, deve essere raccordato alla norma che limita la cognizione della Corte di cassazione, oltre i confini del devolutum, alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto (articolo 609 c.p.p., comma 2. Nel giudizio di legittimita’, infatti, e’ consentito, ex articolo 609 c.p.p., comma 2, superare i limiti del devolutum e della ordinaria progressione dell’impugnazione, oltre che di quelli di ammissibilita’ dei motivi nuovi da proporre nel ristretto ambito dei capi e dei punti oggetto del gravame, soltanto per violazioni di legge che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello e per questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento del fatto, rilevabili in ogni stato e grado del giudizio.

Ne consegue, dunque, a differenza della possibilita’ di apprezzamento “fattuale” richiesta per il sindacato del ne bis in idem processuale di cui all’articolo 669 c.p.p., non possono diversamente essere proposte, nel giudizio di legittimita’, questioni attinenti al sindacato della violazione del divieto del ne bis in idem sostanziale dettato dall’articolo 649 c.p.p., la cui valutazione richiede accertamenti di merito (ossia l’apprezzamento che si tratti del medesimo “fatto”, inteso in senso non processuale, ma sostanziale, ossia come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, facendo riferimento tale espressione all'”identita’ storico-naturalistica del reato, in tutti i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta, nell’evento e nel rapporto di causalita’, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona”: Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 – dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799) che, come tali, devono essere necessariamente svolti nel giudizio di merito, salva la possibilita’ di sindacare i relativi provvedimenti, mediante un successivo ricorso per cassazione, nei limiti segnati dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e).

4.3. Si noti, in ogni caso, che quand’anche si fosse ritenuto preferibile il secondo orientamento, il motivo di ricorso sarebbe stato comunque da rigettare, non avendo provveduto il ricorrente ad allegare al ricorso la prova della definitivita’ dell’accertamento tributario, ossia quella dell’avvenuto pagamento (oltre che della somma di cui era stato omesso il versamento all’Erario) della sanzione amministrativa irrogata dall’Amministrazione finanziaria, condizione questa imprescindibile e che sarebbe idonea a determinare la preclusione, costituendo cio’ un onere che anche le decisioni a sostegno dell’opposto orientamento richiedono debba essere soddisfatto dall’interessato (si afferma, infatti, che “E’ deducibile nel giudizio di cassazione la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, fermo restando l’onere del ricorrente di allegare la sentenza irrevocabile che la determina, atteso che la violazione del divieto del “bis in idem” si risolve in un “error in procedendo”, che, in quanto tale, consente al giudice di legittimita’ l’accertamento di fatto dei relativi presupposti”: Sez. 6, n. 44484 del 30/09/2009 – dep. 19/11/2009, P., Rv. 244856).

4.4. V’e’ poi un motivo di ordine sostanziale.

Deve, infatti, essere ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui il reato di omesso versamento di ritenute certificate (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis), che si consuma con il mancato versamento per un ammontare superiore ad euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale, non si pone in rapporto di specialita’ ma di progressione illecita con il Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, comma 1, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013 – dep. 12/09/2013, Favellato, Rv. 255759). Peraltro, questa Stessa Corte, anche se in data antecedente alla sentenza Grande Stevens e. Italia, si era pronunciata nel senso di ritenere che l’azione penale non e’ preclusa ai sensi dell’articolo 649 c.p.p., in seguito alla irrogazione definitiva di una sanzione amministrativa per il medesimo fatto per il quale si procede (Sez. 1, n. 19915 del 17/12/2013 – dep. 14/05/2014, P.C. in proc. Gabetti e altro, Rv. 260686).

Orbene, ritiene il Collegio che proprio la mancanza di qualsiasi prova della definitivita’ dell’irrogazione della sanzione amministrativa preclude la possibilita’ di valutazione dell’invocata richiesta di applicazione del principio del ne bis in idem “convenzionale”, pur dovendosi riconoscere che, in subiecta materia, il tema sia indubbiamente rilevante, emergendo invero non irrilevanti dubbi di compatibilita’ con la normativa Eurounitaria (v. da ultimo, anche C. eur. dir. uomo, Quarta Sezione, sentenza 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia), che l’illecito amministrativo di cui al citato articolo 13 e quello penale possano avere ad oggetto sostanzialmente il medesimo fatto, rendendo ingiustificata la duplicita’ di sanzioni in caso di ritenute che superino la soglia.

E’ ormai noto che la Corte e.d.u. ha pronunciato condanne per la violazione del ne bis in idem in relazione al doppio binario penale-amministrativo previsto in materia tributaria. Si tratta di un orientamento ormai consolidato della Corte EDU v. Nikanen c. Finlandia; Lucky Dev c. Svezia; v. anche Hakka’ c. Finlandia, Glantz c. Finlandia, Pirttimaki c. Finlandia. E cio’ non tanto in relazione alla nozione di materie penale, i cui criteri di identificazione sono i medesimi da quasi quarant’anni, ma in riferimento al concetto di medesimo fatto. A partire dal revirement giurisprudenziale del 2009, con la sentenza Zolotukhin c. Russia, la Corte, per valutare se le due sanzioni di natura penale avessero ad oggetto il medesimo fatto, ha abbandonato ogni riferimento alla fattispecie incriminatrice. Non e’ il tipo legale a guidare il giudizio sul principio del ne bis in idem di cui all’articolo 4 prot. n. 7 della Convenzione, bensi’ l’identicita’ materiale e naturalistica del fatto. Poco importa, dunque, che le fattispecie (penal-amministrativa e penale) si differenzino sul piano della tipicita’. Cio’ che conta, per ritenere violato il divieto, e’ che l’effetto si risolva nella doppia punizione del medesimo fatto concreto.

4.5. Dubita, pero’, questo Collegio che – ostando all’applicabilita’ dell’articolo 649 c.p.p., oltre che la non deducibilita’ davanti a questa Corte del ne bis in idem per le ragioni anzidette, anche la prova, nel caso in esame, della definitivita’ dell’irrogazione della sanzione amministrativa – possa, da un lato, essere seguita la via del ricorso pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia U.E. e, dall’altro, la via della questione di costituzionalita’.

Consta a questa Corte, infatti, che recentemente il Trib. Torino, 4 sez. pen., con ordinanza del 27 ottobre 2014 ha ritenuto fondato il dubbio di conformita’ ai recenti arresti della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di ne bis in idem e ha deciso di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ponendo la seguente questione interpretativa: “se, ai sensi degli articoli 4 Prot. n. 7 CEDI) e 50 CDFUE, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilita’ penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto (omissione versamento delle ritenute), sia gia’ stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui al Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, (con l’applicazione di una sovrattassa)”.

Il caso oggetto dell’ordinanza del Tribunale di Torino e’ quello – sostanzialmente analogo a quello oggetto di esame da parte di questa Corte – dell’illecito di omesso versamento delle ritenute d’imposta, sanzionato sia dal Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, che prevede l’applicazione di una sovrattassa a titolo di sanzione amministrativa, sia dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, che commina invece, per il mancato pagamento del medesimo debito tributario, una pena detentiva (la reclusione da sei mesi a due anni).

Come e’ gia’ stato puntualmente rilevato in dottrina, il sistema sanzionatorio in esame – assestato sul cumulo tra sanzioni tributarie e penali – pone effettivamente piu’ che ragionevoli dubbi di compatibilita’ con la dimensione Europea del principio di ne bis in idem, non solo alla luce della sentenza Grande Stevens, ma anche, piu’ specificamente, della sentenza Nykanen c. Finlandia, che ha riconosciuto la qualifica “sostanzialmente penale” – quale presupposto per l’operativita’ del diritto fondamentale a non essere giudicato e punito due volte per il medesimo fatto – anche al procedimento tributario e alle relative sanzioni (v. Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykanen c. Finlandia).

Cio’ che desta perplessita’, come peraltro correttamente sostenuto da certa dottrina, e’ tuttavia la decisione di chiamare in causa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. E’ senz’altro vero che il principio del ne bis in idem trova riconoscimento anche nel diritto dell’Unione Europea, sulla base della espressa previsione dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE); ed e’ parimenti vero che, ai sensi dell’articolo 52 CDFUE, il contenuto del suddetto articolo 50 debba essere ricostruito sulla base del corrispondente principio convenzionale, e quindi anche in forza della giurisprudenza della Corte Europea sull’articolo 4 Prot. 7 CEDU. Puo’ tuttavia convenirsi con chi ragionevolmente dubita che la specifica fattispecie oggetto del giudizio rientri nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione e, conseguentemente, che la Corte di Giustizia sia competente a pronunciarsi sul caso (rammentandosi, infatti, che ai sensi dell’articolo 51 CDFUE, la Carta puo’ trovare applicazione solo quando gli Stati membri “agiscono nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione”: cfr. CGUE, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni). Ad eccezione, infatti, della particolare normativa in materia dell’IVA, che rientra nel campo attuativo del diritto UE – come precisato dalla sentenza Fransson della Corte di Lussemburgo – la materia erariale, alla quale sono ascrivibili gli illeciti tributari oggetto della vicenda in esame, ha infatti una dimensione esclusivamente nazionale, che la sottrae all’applicazione del sistema “Eurounitario” di tutela dei diritti fondamentali.

In merito alla duplicazione sanzionatoria dell’illecito di omesso versamento delle ritenute certificate, pertanto, l’unica via percorribile per dare attuazione al diritto convenzionale di ne bis in idem e’ necessariamente quella che passa attraverso una questione di legittimita’ costituzionale per violazione dell’articolo 117 comma 1 Cost. (in relazione all’articolo 4 Prot. 7 CEDU), analoga a quella recentemente sollevata da questa Corte sia in sede penale che in sede civile per censurare il doppio binario punitivo in materia di abusi di mercato (Sez. 5 penale, ordinanza 10 novembre 2014 – dep. 15 gennaio 2015, n. 1782, Chiaron, non ufficialmente massimata; Sez. 5 civile, ordinanza 6 novembre 2014 – dep. 21 gennaio 2015, n. 950, Garlsson Real Estate SA in liquidazione, Ricucci S., Magiste International SA c. Consob, non ufficialmente massimata), sempre che si ritenga possibile sollevare davanti a questa Corte la violazione del divieto del ne bis in idem (soluzione, come detto, non condivisa da questo Collegio), non essendo allo stato comunque praticabile – per le ragioni implicitamente desumibili dalla richiamata ordinanza della Quinta Sezione penale di questa Corte – un’interpretazione conforme al diritto sovranazionale dell’articolo 649 c.p.p., in modo da estenderne tout court la portata – al di la’ dei suoi limiti letterali – anche all’ipotesi in cui il fatto sia gia’ stato giudicato in via definitiva nell’ambito di un procedimento formalmente qualificato come amministrativo, ma di natura sostanzialmente “punitiva” secondo i noti criteri elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo.

Esclusa, quindi, la possibilita’ di un rinvio pregiudiziale per le ragioni anzidette, e’ peraltro da escludersi anche la possibilita’ di sollevare d’ufficio questione di costituzionalita’, atteso che, non solo la impossibilita’ di valutare in sede di legittimita’ il dedotto ne bis in idem, ma anche la piu’ volte richiamata mancanza di prova della definitivita’ dell’irrogazione della sanzione amministrativa, rendono del tutto priva di rilevanza la questione nel presente giudizio.

5. Puo’, quindi, procedersi all’esame del secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente deduce – come anticipato in sede di illustrazione del motivo – la mancanza e la manifesta illogicita’ della motivazione con riferimento alla determinazione della pena; in sintesi, la Corte territoriale, nel rideterminare il trattamento sanzionatorio si e’ riferita, per graduarlo, al materiale importo delle somme non versate; l’aver, pero’, secondo il ricorrente, riconosciuto i giudici di secondo grado come “comprovata” la crisi della societa’, avrebbe imposto alla Corte d’appello di dover individuare altri argomenti per negare la riparametrazione verso il basso del trattamento sanzionatorio.

Il motivo e’ manifestamente infondato.

Ed invero, e’ sufficiente per valutarne l’inammissibilita’ il mero richiamo alla cornice edittale prevista dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, che il legislatore ha determinato nel minimo di mesi 6 di reclusione e nel massimo di anni 2 di reclusione. Orbene, la pena irrogata, considerato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, e’ di 8 mesi di reclusione. Il giudice di merito e’, quindi, partito dalla pena base di un anno di reclusione, ossia individuando la pena base in misura inferiore al c.d. medio edittale (pari ad 1 anno e 3 mesi di reclusione).

Ne consegue, dunque, che la Corte territoriale non era vincolata, in base alla piu’ recente e condivisibile giurisprudenza di questa Corte, all’obbligo di fornire una motivazione “rafforzata” sul trattamento sanzionatorio. Si e’, infatti, affermato che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed e’ insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor piu’, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equita’ e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’articolo 133 c.p. (v., tra le tante: Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013 – dep. 17/05/2013, Serratore, Rv. 256197).

Peraltro, si aggiunge, nessuna illogicita’ e’ ravvisabile nell’affermazione della Corte territoriale, atteso che, nel negare una rideterminazione “al ribasso” del complessivo trattamento sanzionatorio, i giudici di appello si sono riferiti ad un dato oggettivo e non contestabile, costituito dalla “notevole entita’” della somma di cui si contesta l’omesso versamento, trattandosi di un importo pari al doppio della somma indicata dalla legge quale soglia di punibilita’ del reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis: dato oggettivo che, richiamato dai giudici territoriali a giustificazione del diniego della riduzione della pena, non si pone, nel ragionamento seguito, come incompatibile con la riconosciuta difficolta’ economica dell’impresa, tenuto conto anche del principio che non sussiste alcun diritto dell’imputato a vedersi infliggere il minimo edittale previsto dalla norma la cui violazione e’ accertata (v., tra le tante: Sez. 1, n. 1635 del 08/10/1981 – dep. 18/02/1982, Lacaze, Rv. 152330).

6. Devono, infine, essere esaminate sia la richiesta di applicazione dell’istituto della sospensione per messa alla prova nonche’ la relativa questione di costituzionalita’ c.s. illustrata.

Ambedue le richieste sono prive di pregio.

Ed invero, quanto alla prima, questa Corte ha gia’ avuto piu’ volte modo di pronunciarsi affermando che con la messa alla prova di cui all’articolo 168 bis c.p., ne’ puo’ altrimenti sollecitare l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, perche’ il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un “iter” processuale alternativo alla celebrazione del giudizio (Sez. F, n. 42318 del 09/09/2014 – dep. 10/10/2014, Valmaggi, Rv. 261096, che ha anche evidenziato come, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 263 del 2011, non e’ configurabile alcuna lesione del principio di retroattivita’ della “lex mitior”, che imponga, nonostante la mancanza di disposizioni transitorie, l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore; nello stesso senso, Sez. F, n. 35717 del 31/07/2014 – dep. 13/08/2014, Ceccaroni, Rv. 259935). Quanto, poi, alla questione di costituzionalita’, la stessa e’ gia’ stata negativamente valutata da questa stessa Corte, ritenendo manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 464 bis c.p.p., comma 2, per contrasto all’articolo 3 Cost., nella parte in cui non consente l’applicazione dell’istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore della Legge 28 aprile 2014, n. 67, quando sia gia’ decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalita’ del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile (Sez. 6, n. 47587 del 22/10/2014 – dep. 18/11/2014, Calamo, Rv. 261255).

7. Il ricorso dev’essere, complessivamente, rigettato. Segue, a norma dell’articolo 616 e.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Per completezza, quanto al termine di prescrizione, poiche’ il reato de quo era relativo all’omesso versamento di ritenute certificate in relazione alla dichiarazione del sostituto d’imposta 2008 (dunque riferita al periodo di imposta 2007), il dies a quo e’ individuabile nel 30/09/2008, termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno precedente, donde la prescrizione maturera’ interamente alla data del 30/03/2016, ossia tra piu’ di un anno rispetto alla data della presente decisione.

P.Q.M.

La Corte dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di costituzionalita’.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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