cassazione 9

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 10 novembre 2015, n. 22890

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza del 17 maggio 2012 la Corte d’Appello di Genova, pronunciando nel giudizio di rinvio riassunto a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. 23841/2008, ha confermato le statuizioni di condanna contenute nella sentenza della Corte d’Appello di Genova n. 62/2004. Con quest’ultima sentenza la Corte d’Appello aveva accolto l’appello principale proposto dalla Ahlia Building Materials Company, società di costruzioni statale di nazionalità libica, avverso la sentenza del Tribunale di Genova del 27 gennaio 2000, con cui era stata rigettata la domanda avanzata dalla società nei confronti della Camera di Commercio di Genova per il risarcimento dei danni, quantificati nel controvalore in lire italiane di 570.000 dollari USA. La Corte d’Appello aveva ritenuto la responsabilità per negligenza della C.C.I.A.A. di Genova per aver rilasciato un certificato di origine in duplice copia. Con questo era stata comprovata l’origine italiana di merce (2000 tonnellate di tondini di ferro), della quale la Ahalia Building aveva pagato il prezzo di 570.000 dollari USA alla società fornitrice, Consulcom di Genova, senza ottenere mai la fornitura, in quanto oggetto di una truffa accertata in sede penale.
2.- Impugnata per cassazione la sentenza n. 62/2004 da parte della Camera di Commercio, questa Corte accoglieva gli ultimi due dei quattro motivi di ricorso. Dopo aver premesso che la colpa della Camera di Commercio era stata ravvisata nella violazione degli artt. 9 e 10 del Regolamento CEE n. 802/68 del 27 giugno 1968 e che tali disposizioni fanno riferimento alla provenienza della merce e non alla sua esistenza, mentre dalla sentenza non emergeva con chiarezza se la Corte d’Appello avesse esteso oppure no il suo accertamento sulla negligenza dell’ente anche all’aspetto relativo all’esistenza dei beni compravenduti, la Corte cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello di Genova, in diversa composizione.
2.1.- Il giudizio di rinvio è stato riassunto dall’Avvocatura di Stato della Repubblica di Libia, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro-tempore, in rappresentanza del Comitato Popolare Generale di Finanza e per esso del Segretario di Finanza Libico, quest’ultimo sostituto della Ahlia Building Materials Company ed a questa succeduto in tutti i diritti in forza delle norme in vigore presso lo Stato libico.
Si è costituita la Camera di Commercio di Genova, eccependo preliminarmente la carenza di legittimazione dell’autorità riassumente e la nullità della procura rilasciata ai difensori e ribadendo, nel merito, come non fosse ravvisabile un rapporto di causalità tra la sua condotta ed il danno per cui la controparte chiedeva di essere risarcita.
La Corte d’Appello ha rigettato le eccezioni preliminari sollevate dalla Camera di Commercio ed ha confermato il giudizio di responsabilità di quest’ultima e la condanna al risarcimento dei danni quantificati nell’equivalente in Euro di 570.000,00 dollari USA, oltre accessori; ha condannato la C.C.I.A.A. al pagamento delle spese del precedente giudizio di legittimità e del giudizio di rinvio.
3.- La Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Genova ricorre contro questa sentenza con tre motivi.
L’Avvocatura di Stato dello Stato Libico, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro-tempore, si difende con controricorso.
Tutte e due le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo di ricorso si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 383 e seg. cod. proc. civ. e anche agli artt. 15, 83 e, quindi, 99, 100, 110 e 125 cod. proc. civ., in combinato disposto con gli artt. 12, 16 e 60 della legge 31 maggio 1995 n. 218 in relazione agli artt. 1392, 1393f 1103, 1104, 1108 del cod. civ.; inesistenza e comunque invalidità della procura alle liti; assoluta carenza di ius postulandi”.
La ricorrente ripropone in questa sede l’eccezione di nullità dell’atto riassuntivo del giudizio di rinvio per carenza assoluta di legittimazione sostanziale e processuale per l’esercizio dello ius postulandi della controparte, che il giudice di rinvio ha rigettato.
La ricorrente censura questo rigetto con un unico articolato motivo nella cui illustrazione si confondono le tre seguenti distinte questioni: l’identificazione del soggetto che è succeduto alla Ahlia Building Materials Company nel rapporto giuridico per cui è processo; l’individuazione del rappresentante legale del soggetto successore; la regolarità del mandato alle liti rilasciato da questo rappresentante legale ai procuratori costituiti nel giudizio di rinvio. A prescindere dal profilo di inammissibilità che consegue alla mancanza di specificità del motivo, per la sovrapposizione di questioni diverse, esso va comunque respinto.
1.1.- La prima questione attiene alla c.d. legittimazione sostanziale, vale a dire all’individuazione del soggetto attuale titolare del diritto rivendicato in giudizio, nella specie il diritto al risarcimento dei danni.
La Corte d’Appello di Genova ha ritenuto che la questione concernente la legittimazione sostanziale fosse coperta dal giudicato formatosi sulla sentenza del Tribunale di Genova n. 1531 del 2006, non impugnata, che decise su un’opposizione all’esecuzione proposta dalla Camera di Commercio. Con questa sentenza si ebbe ad affermare che la condanna al risarcimento dei danni pronunciata dalla Corte d’Appello di Genova (con la sentenza n. 62 del 2004, solo successivamente cassata con la sentenza di questa Corte n. 23841 del 2008) in favore della società Ahlia Building Materials Company, frattanto disciolta, potesse essere portata ad esecuzione da parte degli enti che agivano come suoi successori secondo il diritto libico. Dopo aver accertato che la Ahlia Building, società a partecipazione statale della Repubblica di Libia, era stata posta in liquidazione e quindi cancellata dal registro commerciale di Tripoli, con consegna, in data 31 dicembre 2003 (nella pendenza della presente controversia), di tutti gli assetti attivi e passivi del patrimonio al Comitato Popolare Generale di Finanza, ha individuato in quest’ultimo il successore della società e nel Segretariato di Finanza il suo organo collegiale a carattere esecutivo (nel quale opera il Segretario), con attribuzione, secondo la legge libica, all’Avvocatura di Stato della Repubblica di Libia, non solo della rappresentanza processuale, ma anche di quella sostanziale, nelle cause in cui sono parte le istituzioni pubbliche. Si tratta dei medesimi enti che, nelle rispettive qualità, così come accertate dal Tribunale, ebbero a riassumere il giudizio di rinvio.
La ricorrente sostiene che l’accertamento contenuto in detta cosa giudicata formale sia rimasto “esterno al giudizio nel cui ambito si è generato il titolo azionato in executivis” e che perciò non potrebbe avere alcun effetto vincolante in quest’ultimo giudizio.
L’assunto è infondato.
Il giudizio di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. si conclude con una sentenza di accertamento sul diritto di procedere ad esecuzione forzata.
La causa petendi può attenere anche al profilo soggettivo relativo alla titolarità attiva del diritto di credito così come consacrato nel titolo esecutivo, cioè, non solo all’identificazione del soggetto che vi è indicato come creditore, ma anche all’identificazione del suo successore.
Se nel giudizio di opposizione all’esecuzione sia in contestazione proprio la successione nel diritto di credito, la sentenza passata in giudicato che abbia accertato che colui che procede esecutivamente ha diritto di farlo perché, pur non essendo indicato nel titolo esecutivo come creditore, è un suo successore, a titolo particolare od universale, fa stato ad ogni effetto tra le parti, ai sensi dell’art. 2909 cod. civ.. Quando le medesime siano parti anche del giudizio nel quale il titolo esecutivo si è formato esse soggiacciono al giudicato esterno in punto di individuazione del soggetto attivo che sia succeduto nel diritto controverso, senza che rilevi che il titolo esecutivo, avendo carattere provvisorio, sia ancora sub iudice, e quindi il relativo giudizio sia in corso. La statuizione oramai irrevocabile in merito alla successione nel diritto potrebbe essere superata, nel giudizio di merito ancora pendente, soltanto da eventi idonei alla modificazione del diritto sotto il profilo soggettivo che siano sopravvenuti alla formazione di quel giudicato.
Nel caso di specie, quest’ultima eventualità non è stata nemmeno prospettata.
Il primo profilo di censura del primo motivo va perciò rigettato.
1.2.- La questione concernente l’individuazione dei soggetti abilitati a rappresentare gli enti succeduti alla disciolta Ahlia Building Materials Company, vale a dire delle persone fisiche munite di poteri di rappresentanza esterna e quindi abilitati al rilascio del mandato alle liti (e che effettivamente lo sottoscrissero), non risulta affrontata nella sentenza ed il ricorso non chiarisce se e per quali ragioni sarebbe stata posta nel giudizio di rinvio.
Per questo profilo, di cui vi è cenno anche nella memoria depositata dalla ricorrente ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., il motivo è inammissibile.
1.3.- La questione concernente la regolarità del mandato alle liti per la riassunzione del giudizio di rinvio è invece posta espressamente in ricorso sotto altri differenti profili.
Il primo attiene al fatto che le procure alle liti richiamate nell’atto di citazione in riassunzione ex art. 392 cod. proc. civ. del 27 gennaio 2009 (procura “Allegato A” datata 30 marzo 2005 e procura “Allegato B” datata 20 aprile 2004) non sarebbero state idonee a conferire lo ius postulandi per il giudizio di rinvio perché limitate, la prima, al grado di legittimità e, la seconda, all’esecuzione della sentenza n. 62/2004.
L’assunto è infondato.
La procura rilasciata il 31 marzo 2005/5 aprile 2005, per quanto riportato in ricorso, attribuiva ai difensori il potere di “… stare in giudizio dinanzi alla Suprema Corte al fine di impugnare e/o resistere all’impugnazione della sentenza n. 62/2004 emessa dalla Corte d’Appello di Genova con i correlati più ampi poteri di agire e di resistere in giudizio in qualsivoglia controversia comunque connessa e/o dipendente dalla soprannunziata sentenza n. 62/2004…”. La lettera del mandato è esplicita nel conferire al difensore lo ius postulandi non solo per il giudizio di legittimità, come sostiene la ricorrente, ma anche per la controversia “dipendente” dalla sentenza n. 64/2004, che era impugnata in sede di legittimità. Il concetto di “dipendenza”, pur se non in senso tecnico-giuridico, ben si attaglia al giudizio di rinvio, che costituisce la prosecuzione del giudizio di primo o di secondo grado, per come costantemente affermato da questa Corte (cfr., da ultimo, Cass. n. 7983/10).
3.1.1.- Sotto ogni altro profilo, le censure del primo motivo concernenti l’esistenza e la validità della procura alle liti sono inammissibili:
A) in primo luogo, perché, a fronte della denuncia della violazione degli artt. 16, 17 e 20 della legge 4 gennaio 1968 n.15, contenuta nell’epigrafe del motivo, questo non illustra le ragioni per le quali sarebbe mancata o sarebbe invalida la legalizzazione delle firme apposte sull’una e/o sull’altra delle due procure. A ciò si aggiunga che le norme indicate sono state abrogate dall’art. 77 del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 e sostituite dall’art. 33 di quest’ultimo provvedimento normativo (quanto alla legalizzazione di firme di atti dall’estero).
L’unico accenno rinvenibile in ricorso è fatto alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 (“Convenzione che sopprime la legalizzazione degli atti pubblici esteri”), alla quale si dice che lo Stato libico non ha aderito. Orbene, a questa affermazione, che corrisponde al vero, consegue soltanto che gli atti provenienti da quello Stato necessitavano di legalizzazione, non applicandosi il regime dell’apostille introdotto dalla Convenzione. Ed infatti, l’epigrafe della sentenza impugnata indica, per ciascuna delle due procure esibite in giudizio, la data e la modalità della rispettiva legalizzazione (mediante il richiamo sia dell’art. 33 del D.P.R. n. 445 del 2000 sia della legge n. 15 del 1968, già abrogata).
Sarebbe stato onere della ricorrente non solo produrre, unitamente al ricorso (così come ha fatto), le due procure, ma anche esporre le ragioni per le quali le legalizzazioni recate in calce non sarebbero conformi al disposto del su richiamato art. 33 del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, unica norma applicabile all’una ed all’altra, nonché le ragioni per le quali avrebbe errato il giudice del rinvio a ritenere valide dette legalizzazioni;
B) in secondo luogo perché, a fronte della denuncia della violazione degli artt. 12, 16 e 60 della legge 31 maggio 1995 n. 218, contenuta nell’epigrafe del motivo, la ricorrente sostiene soltanto che la Corte di merito non si sarebbe pronunciata sulla mancanza di autenticazione della sottoscrizione del mandante di ciascuna delle due procure in atti e richiama, a sostegno, i precedenti di questa Corte n. 12309/2007 e Cass. S.U. ord. n. 3410/2008.
Questi precedenti esprimono il principio di diritto per il quale “Per il disposto dell’art. 12 della legge 31 maggio 1995, n. 218, la procura alle liti utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché in tali evenienze la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci, occorrendo, però, che il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore”.
La questione non ha nulla a che vedere con quella della legalizzazione delle firme delle procure estere, malgrado il ricorso sembri confondere i due piani. Essa attiene piuttosto alla fase che precede la legalizzazione e riguarda l’autenticazione della firma della procura contenuta in una scrittura privata ovvero il rispetto delle formalità della procura per atto pubblico, ove l’una o l’altra modalità sia stata seguita nello Stato estero (o presso la rappresentanza diplomatica in Italia di uno Stato estero) in cui la procura alle liti è stata rilasciata.
La ricorrente limita la censura all’affermazione apodittica che mancherebbe l’autenticazione delle sottoscrizioni e che il giudice di merito non si sarebbe pronunciato sulla corrispondente eccezione sollevata in sede di rinvio. Non riproduce tuttavia le argomentazioni difensive spese per sostenere questa eccezione, né illustra altrimenti le ragioni per le quali le autenticazioni delle sottoscrizioni delle procure, di cui vi è cenno nell’epigrafe della sentenza impugnata, non sarebbero valide: non è certo utile il generico richiamo del contenuto della comparsa di costituzione e risposta nel giudizio di rinvio del 20 maggio 2009.
Per entrambi i profili da ultimo esposti l’inammissibilità consegue alla violazione dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., secondo cui il ricorso deve esplicitare i motivi per i quali si chiede la cassazione. Ed invero per l’ammissibilità non basta l’enunciazione delle norme di legge violate, ma è necessaria l’esposizione delle ragioni che sorreggono le censure proposte, non essendo a questo scopo sufficiente il mero rinvio agli atti del giudizio di merito (cfr. Cass. n. 5024/02, n. 13071/04, n. 5353/07, n. 11984/11, ord. n. 187/14).
In conclusione, il primo motivo di ricorso va rigettato.
2.- Col secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 383, 384 cod. proc. civ. perché il giudice di rinvio avrebbe disapplicato o comunque non si sarebbe uniformato alle statuizioni rese dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23841/08; si denuncia comunque la violazione degli artt. 1176, 1223, 1527, 1528, 1530, 2 comma, 1703, 1842, 2043, 2055, 2056 cod. civ., anche in relazione agli artt. 9 e 10 del Regolamento CEE n. 802 del 27 giugno 1968, perché il giudice ha individuato la condotta colpevole della C.C.I.A.A. nella mancanza di accertamenti in merito all’esistenza della merce, malgrado questa non vi fosse tenuta ai sensi del Regolamento. Così giudicando, il giudice di rinvio, secondo la ricorrente, oltre ad aver disatteso le prescrizioni della sentenza di cassazione e ad aver violato le norme indicate, non avrebbe neanche considerato il “giudicato sostanziale interno” che si sarebbe formato sull’affermazione, contenuta nella sentenza cassata, secondo cui la verifica circa l’esistenza della merce non competeva alla Camera di Commercio.
2.1.- Col terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1223, 1527, 1528, 1530, 2 comma, 1703, 1842, 2043, 2055, 2056 cod. civ., anche in relazione agli artt. 9 e 10 del Regolamento CEE n. 802/1968, nonché vizio di motivazione, perché, in conseguenza delle violazioni già denunciate col primo motivo, e di un “desolante vuoto motivazionale” non sarebbe percepibile la ratio decidendi della sentenza impugnata, specificamente in punto di comportamento negligente della Camera di Commercio. La motivazione sarebbe inoltre illogica laddove avrebbe collegato al fatto che lo smarrimento del certificato d’origine debba essere denunciato la sua qualificazione in termini di documento rappresentativo di merce, con l’ulteriore errore di avere desunto da questa qualificazione obblighi certificativi in capo alla C.C.I.A.A. anche sull’esistenza della merce. Infine, la motivazione sarebbe viziata per aver sostanzialmente equiparato il certificato di origine alla polizza di carico, senza tenere conto della funzione di quest’ultima e della sua esistenza (pur se falsificata) nel caso di specie, nonché senza considerare la natura meramente documentale del controllo rimesso alla Camera di Commercio.
3.- I motivi, da esaminarsi congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, non meritano accoglimento. Con la sentenza n. 23841/2008 questa Corte cassò la sentenza df appello perché – ravvisata la colpa nella violazione, da parte della ricorrente Camera di Commercio, degli artt. 9 e 10 del Regolamento CEE n. 802/68, e considerato che queste disposizioni fanno riferimento soltanto alla provenienza della merce – la motivazione della Corte d’Appello è stata ritenuta viziata in quanto non faceva emergere “con chiarezza se essa ha esteso oppure no il suo accertamento sulla negligenza dell’attuale ricorrente anche all’aspetto relativo all’esistenza dei beni compravenduti”. Venne perciò demandata al giudice di rinvio l’effettuazione di “tale indagine”.
Risulta smentito per tabulas l’assunto della ricorrente secondo cui la Corte avrebbe invitato il giudice del rinvio a rinvenire la colpa della Camera di Commercio nella violazione di regole di condotta generiche o di norme diverse da quelle degli artt. 9 e 10 del Regolamento, nonché l’assunto secondo cui si sarebbe formato un giudicato interno sul fatto che non sarebbe spettato alla Camera di Commercio verificare l’esistenza della merce.
L’accoglimento del ricorso per cassazione è stato per il vizio di motivazione su punti decisivi della controversia e perciò la corte del rinvio, quale nuovo giudice di merito, avrebbe dovuto riesaminare tutte le circostanze attinenti ai punti decisivi indicati nella sentenza di cassazione, nonché tutte quelle legate ad essi da un nesso di dipendenza logica, valutando nuovamente quei punti della controversia ritenuti, nella sentenza di annullamento, potenzialmente idonei a giustificare una decisione diversa rispetto a quella annullata, salvo il suo potere di un nuovo apprezzamento complessivo della vicenda processuale (cfr. Cass. n. 8244/05, n. 18087/07).
Nella specie, il punto decisivo è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione quello concernente la verifica, da parte della Camera di Commercio, dell’esistenza della merce, dato che proprio su questo punto vi era (e vi è tuttora) contestazione tra le parti e dato che la Corte in sede di cassazione con rinvio ha demandato un nuovo accertamento proprio sull’”aspetto relativo all’esistenza dei beni compravenduti”.
Di modo che si è attribuito al giudice di rinvio il compito di indagare se la C.C.I.A.A. di Genova avesse tenuto una condotta che fosse qualificabile come colposa, nell’esecuzione dell’attività disciplinata dagli artt. 9 e 10 del Regolamento, ed in riferimento alle circostanze del caso concreto, già emerse in corso di causa. Si è chiesto quindi alla Corte d’Appello un nuovo apprezzamento in fatto di queste ultime, specificamente rivolto a verificare se una condotta negligente – anche per violazione della normativa regolamentare – fosse configurabile come causa (o concausa) del danno lamentato dalla società originaria attrice (oggi, dai suoi successori) per non avere fatto risultare l’inesistenza dei beni compravenduti (malgrado quella normativa non fosse dettata a questo scopo, bensì a quello di verifica della provenienza della merce).
3.1.- La sentenza impugnata motiva esaurientemente e logicamente sia sull’individuazione delle regole di condotta violate dalla Camera di Commercio nell’attività alla stessa demandata di rilascio del certificato d’origine sia sull’incidenza causale della violazione nella produzione del danno.
I dati fondamentali da cui il giudice di merito prende le mosse attengono entrambi alla peculiarità del caso di specie. Evidenzia, infatti, in primo luogo, che l’esportatore non figurava come egli stesso produttore della merce da esportare e che, in ragione di ciò, era tenuto a presentare la fattura d’acquisto in originale contenente tutti i dati della merce richiesti dall’art. 9 del Regolamento n. 802/68 (all’epoca applicabile) e le eventuali ulteriori fatture fino a risalire al produttore della merce, essendo la Camera di Commercio “tenuta non solo a certificare da quale paese provenisse la merce esportata, ma a verificare che di essa esistesse una fattura,, emessa dalla ditta produttrice, nella quale doveva essere riportato il nome del fabbricante, il luogo di fabbricazione, e tutti i dati sopra indicati”.
Data siffatta premessa, sono congruenti le conclusioni che trae sui poteri della C.C.I.A.A. di verificare l’esattezza delle dichiarazioni del richiedente e di chiedere a sua volta informazioni; sull’utilità di queste verifiche non solo al fine di attestare l’origine della merce, ma anche al fine di garantire in ordine alla sua esistenza; sull’affidamento creato dal rilascio del certificato d’origine “da un’autorità o da un organismo che presenti necessarie garanzie” (secondo quanto disposto dal Regolamento), che presuppone l’esecuzione di un controllo da parte di un ente pubblico certificatore accreditato che riguarda non solo la provenienza della merce, ma anche le sue caratteristiche.
Inoltre il giudice valorizza un altro dato idoneo a connotare il caso concreto: la circostanza che l’acquirente avesse subordinato il pagamento del prezzo, non solo alla consegna della polizza di carico, che ha la funzione tipica di rappresentare il diritto a vedersi consegnata la merce in esso indicata, ma anche alla presenza del certificato d’origine. Dato ciò, altrettanto congruenti risultano le conclusioni che trae sulla finalità non soltanto doganale del documento, ma anche di garanzia sull’esistenza e la consistenza della merce, in concreto perseguita dalle parti, senza che risulti alcuna impropria assimilazione del certificato d’origine alla polizza di carico (ed essendo poco significativa la considerazione sulle conseguenze dello smarrimento del primo).
Né rileva che il giudice, come osserva la ricorrente, non abbia considerato che la Camera di Commercio non fosse a conoscenza dell’accordo tra le parti.
Il giudice di merito ha ben motivato sul fatto che la situazione concreta era tale che, comunque, nella specie, l’importatore avrebbe potuto fare affidamento su controlli estesi, quanto meno, alle fatture di acquisto della merce, e che la Camera di Commercio queste fatture avrebbe comunque dovuto richiedere, se avesse osservato, come avrebbe dovuto, le regole di settore.
D’altronde, la Corte di merito ha altresì ampiamente motivato sul fatto che si trattasse di un controllo documentale, che imponeva una serie di verifiche che – se effettuate – avrebbero fatto emergere i presupposti della truffa.
Trattasi, all’evidenza, di accertamenti in fatto, che rispondono alle ragioni della cassazione con rinvio della precedente sentenza di condanna della stessa Corte d’Appello e che rendono infondate le censure della ricorrente, sia quanto alla violazione delle norme del Regolamento che quanto al vizio di motivazione.
Parimenti infondate risultano le altre censure, attinenti alla mancanza di colpa specifica – che il giudice ha correttamente individuato nell’omissione di un comportamento imposto da norme regolamentari – e di efficienza causale di questa omissione -poiché, anche se il comportamento omesso è previsto dalla normativa regolamentare ad altri fini, il giudice ha congruamente valutato come nel caso di specie si fosse posto come concausa del fatto di reato produttivo di danno (mentre la prevedibilità di questo da parte del responsabile non rileva, trattandosi di responsabilità extracontrattuale: cfr. 2056 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 1225 cod. civ.).
Avendo la Corte di merito riscontrato nella fattispecie tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dell’illecito civile, non sono pertinenti i richiami fatti dalla ricorrente al concorso colposo nel reato doloso, mentre è corretta in diritto la conclusione raggiunta dal giudice di rinvio circa la responsabilità solidale dell’odierna ricorrente per i danni prodotti dalla consumazione di quel reato (proprio in applicazione della giurisprudenza richiamata in ricorso secondo cui “per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti, l’art. 2055 comma primo cod. civ. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta, deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate”: cfr. Cass. n. 27713/05 e n. 17475/07, tra le altre).
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le alterne vicende processuali e la peculiarità delle questioni trattate rendono di giustizia la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.

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