Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 10 marzo 2014, n. 5506

Svolgimento del processo

1. Nel 1998 C.A. , F.R. e A. convennero in giudizio davanti al Tribunale di Milano il geometra G.G. e l’architetto Co.Ca. , chiedendo che gli stessi fossero condannati a risarcire i danni provocati dal non aver eseguito correttamente l’incarico professionale conferito, consistente nello svolgimento di accertamenti presso la Conservatoria dei registri immobiliari e il Catasto Fabbricati sul patrimonio immobiliare di tale B. , nei confronti del quale essi vantavano un credito risarcitorio. In particolare, i C. e F. lamentarono che i professionisti incaricati non avessero correttamente individuato, a mezzo delle indagini loro commissionate in relazione ad un immobile sito in (OMISSIS) , sul quale gli attori avevano intenzione di agire per soddisfarsi del proprio credito, l’effettiva consistenza patrimoniale e la titolarità dell’immobile, inducendo gli attori ad agire esecutivamente su un immobile della cui proprietà il B. si era già spogliato, e precludendo loro la possibilità di esercitare tempestivamente l’azione revocatoria in merito agli atti di disposizione compiuti. Sia il G. che il Co. inizialmente negarono di aver ricevuto alcun incarico professionale dagli attori, e negarono alcuna loro responsabilità extracontrattuale. Chiamarono in causa tale Fa.Ca. , dal quale affermarono di essere stati incaricati di eseguire i sopra indicati controlli.
2. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 13441 del 2004, accoglieva la domanda degli attori nei confronti dei convenuti condannandoli a pagare in solido Euro 150.000,00 a titolo di risarcimento del danno, mentre dichiarava il difetto di legittimazione passiva del Fa. .
3. Sia il Co. che il G. proponevano appello in relazione alla condanna subita, e la Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 2950 del 13 novembre 2007, rigettava l’appello confermando l’esito del giudizio di primo grado. La corte territoriale preliminarmente accertava il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado quanto alla posizione del Fa. . Nel merito, riteneva provata la sussistenza di un rapporto professionale tra i F. – C. e i professionisti, incaricati tramite il Fa. di compiere alcune ricerche atte ad identificare esattamente i beni immobili del B. , sui quali i F. – C. intendevano intraprendere una esecuzione immobiliare, e riteneva altresì provata la colpa professionale dei due professionisti incaricati, che veniva accertata mediante una ctu ed analiticamente descritta nella sentenza: essi compivano la ricerca anagrafica indicando un nome proprio errato, descrivevano erroneamente la consistenza della proprietà oggetto di indagine, non individuavano correttamente il suo reale valore commerciale e non si avvedevano della divisione dei beni tra il B. e la moglie del 1990 (per cui al B. residuava solo la proprietà della metà dell’immobile), né della presenza di una donazione del 1990 con cui il 50 % residuo della proprietà escluso il box veniva trasferito alla figlia del B. né la vendita, nel 1994, del 50% del box alla moglie del B. . La scarsa diligenza dei due professionisti incaricati aveva fatto si che i F. – C. avessero intrapreso inutilmente una esecuzione immobiliare nei confronti di un immobile che già da anni era uscito dal patrimonio del B. e che gli stessi non avessero potuto neppure intraprendere Fazione revocatoria in relazione alla donazione fatta dal B. alla figlia, non avendone appreso l’esistenza per tempo, perdendo sostanzialmente ogni possibilità di recuperare il loro credito nei confronti del B. .
4. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il geometra G. , proponendo tre motivi; F.A. e R. e C.A. resistono con controricorso; Co.Ca. e Fa.Ca. , intimati, non si sono costituiti.
5. Il ricorrente ha presentato memoria difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2232 c.c. e 116 c.p.c., negando che dalle risultanze processuali emerga la prova di un formale conferimento di incarico da parte dei signori C. e F. al geom. G. e all’architetto Co. , e sottopone alla Corte il seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se sia conforme a legge la statuizione che nega che gli ausiliari nominati da un prestatore d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2232 c.c. sono legati da un rapporto contrattuale solo con il professionista e non con il suo committente”.
Il motivo di ricorso è inammissibile, in quanto il quesito di diritto formulato è totalmente astratto dalla fattispecie concreta sottoposta all’esame della corte, sia pure nell’ambito del giudizio di legittimità( nel senso della inammissibilità del motivo di ricorso il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente v. Cass. S.U. n. 6420 del 2008).
Con il secondo motivo di ricorso, il G. lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2236 c.c. e 116 c.p.c. per aver la corte d’appello fondato la propria valutazione in ordine alla responsabilità professionale dei due professionisti esclusivamente sulla consulenza tecnica, senza tener conto della particolari difficoltà incontrate dai professionisti a causa della errata indicazione del nome proprio del B. ricevuta e della impossibilità di ricercare tramite Conservatoria e Catasto gli eventuali omonimi, il che avrebbe dovuto portare all’applicazione dell’esimente prevista dall’art. 2236 c.c. che prevede la limitazione di responsabilità ai soli casi di dolo e colpa grave qualora la prestazione da compiere trascenda la prestazione professionale media.
Il motivo è infondato.
La limitazione di responsabilità prevista per il professionista dall’art. 2236 cod. civ. con riferimento al caso di prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà è prevista per le sole ipotesi di imperizia, che possano essere giustificate dalla particolare complessità o novità dell’opera richiesta, e non si estende alle ipotesi in cui la prestazione del professionista sia stata viziata da negligenza o imprudenza, cioè vi sia stata una violazione del dovere della normale diligenza professionale media esigibile ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, cod. civ., rispetto alla quale rileva anche la colpa lieve (in questo senso, tra le altre, Cass. n. 22398 del 2011).
Come emerge chiaramente dalla sentenza impugnata, l’attività che i due professionisti erano stati incaricati di compiere era del tutto ruotinaria, consistendo semplicemente nella stima di un immobile indicato dai committenti e nella verifica della sua esatta intestazione e della sussistenza di inscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli, e come tale non meritevole di alcuna restrizione dei limiti della responsabilità professionale sotto il profilo della particolare difficoltà dell’incarico.
Per contro, dalla sentenza di appello, che riporta e fa propri condividendone il metodo e gli esiti, larghi passi dell’analisi eseguita dal c.t.u., emerge una macroscopica mancanza di diligenza in capo ai professionisti (analiticamente descritta in ben dodici punti, da pag. 8 a pag. 10 della sentenza di appello), tra i quali vale ricordare che i professionisti incaricati non si sono avveduti né del fatto che nella proprietà era presente un box, né del suo ampliamento con conseguente incremento del valore commerciale, né della divisione intervenuta nel 1990 tra i coniugi B. – O. , né della donazione di 1/2 della proprietà, sempre nel 1990, alla figlia del B. , né la vendita nel 1994 di 1/2 del box alla moglie, impedendo di fatto ai contro ricorrenti non solo di intraprendere utilmente l’esecuzione immobiliare, ma anche di poter intraprendere, per intervenuta scadenza dei termini, l’azione revocatoria.
Infine, con il terzo motivo di ricorso il G. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. da parte della corte d’appello, per aver la corte liquidato il risarcimento del danno in Euro 150.000,00, ovvero in misura esorbitante e coincidente con l’intero ammontare del credito dei controricorrenti nei confronti del loro originario debitore, il B. , e ben superiore rispetto a quanto avrebbero potuto recuperare a mezzo di una espropriazione nei suoi confronti, tenuto anche conto del valore dell’immobile come risultante dai precedenti atti traslativi di esso.
Inoltre, con lo stesso motivo il ricorrente lamenta che la corte non abbia preso in considerazione la colpa concorrente dei F. — C. , essendo questi ancora in tempo, quando nel 1998 intrapresero l’azione di risarcimento dei danni nei suoi confronti, a promuovere l’azione revocatoria nei confronti del B. quanto meno in relazione alla vendita del 50% del box ed inoltre per non aver informato i G. e Co. delle “problematiche” legate al nome del B. .
Il motivo proposto, con il quale vengono formulate due diverse censure, va rigettato. Innanzitutto il ricorrente fa valere, all’interno dello stesso motivo, senza neppure indicare quali delle ipotesi tassative di ricorso per cassazione dettate dall’art. 360 c.p.c. intenda promuovere, due censure del tutto autonome.
La prima censura non può essere presa in considerazione, in quanto il quesito di diritto relativo al terzo motivo è esclusivamente il seguente: “Dica la Corte se sia conforme a legge la liquidazione dei danni che non consideri il concorso di colpa nel danno degli evenienti creditori”. Esso fa riferimento soltanto alla seconda censura contenuta nel terzo motivo. Pertanto, sul punto manca un idoneo quesito di diritto, necessario a pena di inammissibilità essendo il ricorso pro tempore soggetto alla disciplina introdotta con il D. Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, ed in particolare alla previsione contenuta nell’art. 366 bis c.p.c..
Inoltre, con essa il ricorrente contesta la misura del risarcimento in quanto troppo elevata, richiamando come norma asseritamente violata una norma non pertinente, ovvero l’art. 1227 c.c.; infine, la censura consiste esclusivamente in una mera recriminazione sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice di merito, rispetto alla quale il giudice di legittimità deve rimanere estraneo.
Con la seconda censura contenuta nel terzo motivo, il ricorrente contesta che non sia stato considerato il concorso di colpa dei C. e F. , che non indicarono con esattezza le generalità complete del soggetto sulle cui proprietà volevano acquisire informazioni funzionalizzate ad una eventuale espropriazione. La possibilità di un concorso di colpa dei committenti era già stata dedotta tra i motivi di appello e considerata dalla corte nella sentenza che l’ha motivatamente esclusa, dopo aver fatto una elencazione delle numerose imprecisioni e dei marchiani errori effettuati dai due professionisti incaricati di una attività semplice e routinaria quale verificare che un determinato bene, sito in un paese di provincia ad un indirizzo esattamente indicato fosse o meno nella disponibilità del soggetto che a loro risultava esserne il proprietario, del quale indicarono esattamente il cognome e quale ne potesse essere orientativamente il valore. Quest’attività, la corte d’appello ha ritenuto correttamente potesse essere portata a termine dai professionisti stessi senza risentire di eventuali indicazioni inesatte fornite dai committenti (e relative al solo fatto che il nome proprio del possibile proprietario fosse stato da essi indicato come Gi. invece che come Gi.Ba. ) e quindi che eventuali imprecisioni da parte dei committenti nell’indicare il nome proprio del presunto titolare del bene non avessero un valore concausale rispetto al negligente lavoro svolto dai professionisti. La decisione impugnata appare esente da vizi. La corte d’appello ha correttamente preso in considerazione il comportamento dei committenti, che nel conferire l’incarico professionale diedero alcune indicazioni in merito al soggetto ed ai beni sui quali erano interessati ad acquisire informazioni, al fine di verificare l’eventuale lacunosità o erroneità delle indicazioni fornite e l’eventuale incidenza concausale delle stesse in ordine al danno loro provocato dalle numerose imprecisioni contenute nell’elaborato, per ritenere sostanzialmente marginale ed irrilevante una mera imprecisione nella indicazione del patronimico del soggetto.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese del presente grado di giudizio sostenute da C.A. , F.R. e F.A. e le liquida in Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.

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