SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 10 aprile 2014, n. 8410
Ritenuto in fatto
Z.A., dopo aver promosso un accertamento tecnico preventivo ante causam, nel 1989 citava in giudizio dinanzi al Tribunale di Pescara F.A. e la ditta G.R. di Francavilla a Mare, assumendo di aver subito dei danni all’interno del proprio esercizio commerciale adibito alla vendita al minuto di articoli per l’infanzia, in conseguenza dei lavori di ristrutturazione commissionati dalla F. alla ditta G., da eseguirsi nell’appartamento sovrastante il negozio da lui condotto in locazione. Sosteneva che le modalità di esecuzione dei lavori avevano ostacolato l’ingresso della clientela nel locale, e che lo smantellamento del tetto aveva provocato infiltrazioni d’acqua con danni al materiale in vendita e chiedeva il risarcimento dei danni per circa 6.000.000 di lire. La ditta G. chiamava in giudizio la sua compagnia di assicurazioni, Zurigo, che rimaneva contumace.
In primo grado la domanda di risarcimento danni dello Z. veniva rigettata.
Il sig. Z. proponeva appello. Nel giudizio di appello si costituivano sia la signora F. che l’impresa G. che la Zurigo Ass.ni, che negava di aver un contratto di assicurazione con la ditta convenuta in relazione al periodo del sinistro.
La Corte d’Appello de L’Aquila, con la sentenza qui impugnata, riformava in parte la sentenza di primo grado condannando la sola ditta G. a pagare al ricorrente la somma di euro 112,07 da rivalutare annualmente dal 1.4.1989 alla data di pubblicazione della sentenza di appello, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione. Z.A. propone ricorso per cassazione nei confronti di F.A., nonché della ditta G.R. e della Zurigo Ass.ni s.p.a., per la riforma della sentenza n. 621 del 2007 della Corte d’Appello de L’Aquila, articolato in tre motivi.
Resiste con controricorso la sola A.F., gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Le parti non hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il sig. Z. si duole della violazione e falsa applicazione da parte della corte territoriale degli artt. 1662, 2043, 2049 e 2697 c.c. in relazione agli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c. per aver erroneamente la corte ritenuto di non dover estendere la responsabilità oggettiva indiretta prevista dall’art. 2049 c.c. al committente, con inversione dell’onere probatorio e travisamento dei fatti. Sostiene infatti che la F., committente dei lavori di ristrutturazione eseguiti dalla ditta G. nel suo appartamento, avrebbe dovuto rispondere ex art. 2049 c.c. dell’operato della ditta prescelta, a meno che non avesse fornito la prova liberatoria a suo carico, consistente nel dimostrare che l’appaltatore aveva agito in totale autonomia, ponendo in essere un’attività che non poteva essere controllata né impedita dal committente. Sotto il profilo del vizio di insufficiente ed anche contraddittoria motivazione, lamenta che non si fosse dato spazio nell’economia della sentenza alle dichiarazioni del direttore dei lavori nominato dalla F., il quale aveva dichiarato di essere stato presente in cantiere con regolarità e di aver costantemente impartito direttive alla ditta. Contesta la fondatezza in diritto della affermazione netta e ripetuta della corte d’appello, che ha più volte asserito che l’appaltatore è di regola l’unico responsabile dei danni provocati dal cantiere a terzi, per l’autonomia della sua organizzazione, anche quando il committente abbia nominato un direttore dei lavori.
Il motivo è infondato, avendo la corte territoriale correttamente applicato le norme ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza in materia.
L’art. 2049 c.c. prevede una ipotesi di responsabilità indiretta in capo all’imprenditore appaltatore, che organizza il lavoro altrui e subisce i rischi connessi ad una non buona organizzazione; non è escluso che tale responsabilità si possa estendere, in casi particolari, anche al committente, e tuttavia tale estensione costituisce una eccezione alla regola, al verificarsi di determinati presupposti che consistono nella scelta inadeguata della ditta esecutrice da parte del committente, o nell’essersi questi intromesso nella gestione dei lavori, direttamente o tramite tecnici incaricati, fino a far assumere all’appaltatore il ruolo di mero esecutore materiale; la configurabilità di detti presupposti rientra nell’onere probatorio di chi richiede tale applicazione estensiva della norma, e il suo accertamento in fatto è riservato al giudice di merito e sindacabile solo sotto il profilo della completezza e logicità della motivazione. Nel caso di specie, con sentenza motivata, la corte d’appello afferma che tale onere probatorio non è stato soddisfatto dallo Z. Soltanto se dalle risultanze istruttorie fosse emerso che in effetti in questo caso l’art. 2049 c.c. poteva applicarsi anche alla committente, essa a sua volta avrebbe potuto liberarsene solo fornendo a sua volta la prova liberatoria.
A ciò deve aggiungersi che la circostanza dedotta dal ricorrente a pag. 27 del ricorso sub 3) (la costante presenza in loco del direttore dei lavori che avrebbe controllato costantemente l’andamento dei lavori per conto della committente impartendo ogni opportuna direttiva) non risulta sia stata specificamente dedotta nei precedenti gradi di merito e comunque non è neppure allegato che le direttive imposte dal committente (mai neppure precisate quanto al loro contenuto in relazione al fatto dannoso residuo, ovvero l’allagamento conseguente allo scoperchiamento del tetto), direttamente o a mezzo del direttore dei lavori, siano state così stringenti da ridurre l’appaltatore a mero nudus minister.
Con il secondo motivo di ricorso, lo Z. lamenta la violazione e falsa applicazione, da parte della corte territoriale, degli artt. 2051, 2697 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 e 5 c.p.c. per aver la corte territoriale erroneamente escluso la responsabilità del committente derivante da cose in custodia, anche in questo caso ribaltando l’onere probatorio e fornendo una motivazione contraddittoria. Richiama la giurisprudenza di legittimità secondo la quale in caso di appalto non viene meno la responsabilità per custodia del proprietario del bene per danni dallo stesso provocati, a meno che non provi di non aver potuto esercitare, nella situazione concreta, alcun potere di fatto sull’immobile. Evidenzia che nel caso di specie la F. non si sia neppure offerta di provare di essere stata completamente assente durante i lavori o di aver trasferito il totale possesso dell’appartamento alla ditta esecutrice. Sostiene che la corte territoriale avrebbe dovuto accogliere il suo appello sul punto, avendo accertato che il danno si era verificato in forza del dinamismo dell’azione umana connessa alla cosa di proprietà del committente, senza poter applicare, in favore della F., le presunzioni semplici non da lei invocate, confiscando la possibilità dell’appellante di fornire prova contraria, anche a mezzo della prova testimoniale.
Superando alcuni profili di inammissibilità del quesito, che si presenta plurimo, perché all’interno di esso vengono assemblate questioni diverse relative alla violazione di norme alcune delle quali sostanziali, altre (presunzioni) processuali ed in particolare relative all’alterazione del contraddittorio, il motivo è infondato.
Correttamente la corte d’appello ha fatto ricorso alle presunzioni per ritenere, data la tipologia e la durata dei lavori (fatti non contestati), protrattisi per oltre un anno e comportanti una integrale ristrutturazione dell’immobile, incluso il rifacimento del tetto, che nel suddetto periodo il controllo del cantiere sia rimasto esclusivamente alla ditta appaltatrice, essendo l’appartamento chiaramente inagibile. A ciò deve aggiungersi che il ricorso alle presunzioni deve ritenersi consentito al giudice alla sola condizione che i fatti su cui esse si fondano siano stati allegati e possano ritenersi provati, potendo il giudice avvalersene, in presenza di tale evenienza, senza apposita sollecitazione delle parti e in difetto di contraddittorio tra le stesse ( in questo senso, da ultimo, Cass. n. 12248 del 2013).
Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226, 2043 e 2056 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la corte territoriale quasi integralmente negato il risarcimento del danno, sull’errato presupposto che non sia stata fornita la prova dell’an e del quantum e per difetto di motivazione sulla mancata ammissione della ctu e del giuramento estimatorio. Lamenta che il giudice abbia sottostimato il danno, omettendo di fare ricorso alla valutazione equitativa e di considerare la documentazione prodotta in primo grado dall’appellante. Anche questo motivo deve essere rigettato, perché sollecita questa Corte a una nuova valutazione in fatto delle risultanze istruttorie (peraltro correttamente ed esaustivamente valutate dalla corte di merito che dà conto delle varie testimonianze acquisite ai fini della quantificazione del danno) attività non consentita in sede di legittimità.
A ciò si aggiunga che si procede alla valutazione equitativa qualora il danno, provato nell’an, non sia facilmente quantificabile per la sua tipologia, mentre in questo caso, trattandosi di beni in vendita aventi un loro prezzo al pubblico la quantificazione rientrava nell’onere probatorio a carico della parte. Da ciò discende la mancata ammissione della consulenza ed anche del giuramento, con i quali il ricorrente tendeva a supplire al mancato assolvimento da parte sua dell’onere probatorio.
Quanto alla mancanza di una specifica motivazione in ordine alla mancata ammissione della richiesta consulenza e del giuramento estimatorio, la valutazione in ordine all’ammissibilità e rilevanza del giuramento rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e la omessa motivazione su tale discrezionale decisione non può essere invocata in sede di legittimità (Cass. n. 16157 del 2004) mentre la ctu non costituisce una prova vera e propria, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di lite sostenute dal contro ricorrente e le liquida in complessivi euro 1.500,00, di cui euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.
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