Esclusa la particolare tenuità del fatto per chi si impossessa di beni di natura archeologica, anche se di valore commerciale modesto
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 6 dicembre 2016, n. 51901
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARCANO Domenico – Presidente
Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere
Dott. ACETO Aldo – Consigliere
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere
Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 05-11-2015 della Corte di appello di Catania;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Vito Di Nicola;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Antonio Balsamo che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. (OMISSIS) ricorre personalmente per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Catania ha riformato la sentenza del tribunale di Ragusa, dichiarando non doversi procedere per il reato di cui al Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, articolo 175 in quanto estinto per prescrizione e rideterminando in mesi sei di reclusione ed Euro 100,00 di multa la pena per il reato di cui al Decreto Legislativo n. 42 del 2004, articolo 176 per essersi impossessato di beni di natura archeologica, indicati nel capo di imputazione.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza il ricorrente solleva cinque motivi di gravame, qui enunciati ai sensi dell’articolo 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Con essi il ricorrente lamenta l’erronea applicazione della legge processuale per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza sul rilievo che il tribunale si sarebbe pronunciato su un capo di imputazione ulteriore mai contestato all’imputato, confezionando una nullita’ di ordine generale della quale la Corte di appello non si sarebbe avveduta (primo motivo); deduce, ancora, l’erronea applicazione della legge penale avendo la Corte di appello disatteso il principio secondo il quale spetta all’accusa la dimostrazione dell’illegittimita’ del possesso dei beni trovati nella disponibilita’ dell’imputato, con la conseguenza che, anche in materia di possesso di beni archeologici, vigono le normali regole processuali secondo le quali l’onere della prova incombe sull’accusa ed il detentore non e’ tenuto a dare la prova contraria della legittimita’ della provenienza degli oggetti detenuti. Peraltro, ai fini della configurabilita’ del reato ed a differenza delle disposizioni previgenti, e’ necessario che i beni oggetto materiale del reato siano qualificati come beni di interesse archeologico in un formale provvedimento dell’autorita’ amministrativa (secondo motivo); denuncia, inoltre, l’erronea applicazione della legge penale con riferimento alla violazione dell’articolo 131-bis c.p., posto che la Corte di appello non ritenuto applicabile la causa di non punibilita’ reclamata sul presupposto dell’ingente quantita’ e valore economico dei reperti rinvenuti nella disponibilita’ dell’imputato, nonostante che il perito nominato dalla Procura della Repubblica nulla ha saputo dire circa l’eventuale valore commerciale degli oggetti, ritenendoli di modesto valore commerciale ed economico, ne’ circa il valore archeologico di essi (terzo motivo); si duole infine della manifesta illogicita’ della motivazione e per la violazione del divieto di reformatio in peius sul rilievo che, quanto al reato per il quale ha riportato condanna, la Corte di appello non ha operato alcuna riduzione di pena, nonostante l’assoluzione per un capo e la declaratoria di prescrizione per un altro, limitandosi a confermare la sentenza del tribunale di Ragusa (quarto motivo); eccepisce infine intervenuta prescrizione sul rilievo che al momento dell’udienza del 5 novembre 2015 erano abbondantemente decorsi i termini previsti per la pronuncia della causa estintiva del reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ inammissibile.
2. Quanto al primo motivo, la doglianza, che ripete la censura mossa nei confronti della sentenza di primo grado, e’ stata motivatamente respinta dalla Corte d’appello ed il ricorrente non si e’ minimamente confrontato con le ragioni della decisione, confezionando un motivo che, oltre ad essere manifestamente infondato, e’ anche generico.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perche’, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione e’ del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
La Corte territoriale si e’ adeguata a tale insegnamento, in base al quale si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di diversita’ o di inconciliabilita’ sostanziale tale da comportare un effettivo pregiudizio ai diritti della difesa, precisando che, riguardo all’oggetto dell’imputazione, alcuna incertezza sussiste perche’, nel caso di specie, il fatto da cui sono scaturiti gli addebiti (consistente nell’introduzione all’interno della zona archeologica all’evidente fine di svolgervi, anche attraverso l’immutazione dei luoghi, ricerche archeologiche non autorizzate) non e’ stato modificato nei suoi elementi essenziali, con la conseguenza che non si e’ verificata alcuna violazione dell’articolo 521 c.p.p. che riguarda un accadimento assolutamente difforme da quello contestato e l’emergere in dibattimento di accuse in alcun modo rintracciabili nel decreto di rinvio o di citazione a giudizio.
3. Il secondo motivo e’ affetto dai medesimi vizi che affliggono il primo.
La Corte distrettuale ha spiegato che la fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 42 del 2004, articolo 176 non richiede la previa sottrazione al detentore dei beni archeologici, ma solo quella dell’impossessamento di essi, per la fondamentale ragione che, prima del nuovo ritrovamento, i beni archeologici non sono detenuti da alcuno e, una volta ritrovati, appartengono ipso iure al patrimonio indisponibile dello Stato. Inoltre, l’illegittimita’ del possesso di tali beni puo’ essere affermata anche attraverso la prova logica che, nel caso di specie, e’ stata, con adeguata motivazione, ricavata dalla congiunta valutazione della natura e delle caratteristiche dei beni stessi, oggetto di un indiscutibile dominio da parte dello Stato; della conseguente anormalita’ del loro possesso legittimo da parte dei privati; dall’insussistenza di documentazione attestante tale illegittimita’ o comunque dall’assenza di plausibili spiegazioni fornite da parte del ricorrente.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte di appello si e’ attenuta al principio di diritto secondo il quale, ai fini della configurazione dell’elemento soggettivo del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato di cui al Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, articolo 176, e’ sufficiente il dolo generico, ossia la mera consapevolezza di impossessarsi di beni aventi interesse culturale, la cui prova puo’ essere tratta anche dalla condotta tenuta dal colpevole successivamente alla commissione del fatto (Sez. 3, n. 6202 del 18/12/2014, dep. 2015, Bennardo, Rv. 262366), con la conseguenza che alcuna inversione dell’onere della prova e’, nel caso in esame, ipotizzabile.
Con riferimento infine alla nozione di bene culturale ai fini dell’integrazione del modello legale, non e’ necessario che i beni oggetto materiale del reato di cui all’articolo 176, siano qualificati come tali in un formale provvedimento dell’autorita’ amministrativa, essendo sufficiente che essi abbiano un interesse culturale oggettivo, interesse che puo’ essere desunto dalle caratteristiche della res, non solo per il valore comunicativo spirituale, ma anche per i requisiti peculiari attinenti alla tipologia, alla localizzazione, alla rarita’ e ad altri analoghi criteri (Sez. 3, n. 24344 del 15/05/2014, Rapisarda, Rv. 259305).
4. Anche il terzo motivo e’ inammissibile, avendo la Corte territoriale escluso l’applicabilita’ dell’articolo 131-bis c.p. sul rilievo che il fatto non fosse sussumibile nello schema della particolare tenuita’, essendo addirittura connotato da una indubbia gravita’, desumibile dal non modesto numero dei reperti, il cui interesse archeologico prescinde da quello economico.
Nell’escludere l’applicabilita’ dell’articolo 131-bis c.p., la Corte territoriale ha compiuto una valutazione che si e’ risolta in un giudizio di fatto il quale, siccome adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicita’, non e’ sindacabile nel giudizio di legittimita’.
5. Il quarto motivo e’, all’evidenza, infondato in quanto all’esito del giudizio di appello, la pena inflitta al ricorrente e’ stata ridotta (da nove mesi di reclusione e 250,00 Euro di multa a mesi sei di reclusione ed Euro 100,00 di multa) rispetto alle statuizioni della sentenza di primo grado e, se anche la pena per il reato di cui al Decreto Legislativo n. 42 del 2006, articolo 176, e’ rimasta identica, cio’ non comporta una violazione del principio della reformatio in peius.
6. Anche il quinto motivo e’ manifestamente infondato perche’ alcuna prescrizione risulta maturata, trattandosi di delitto non prescritto alla data della pronuncia della sentenza di appello e persino di cassazione.
7. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi e’ ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende
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