Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 3 novembre 2016, n. 46169

In materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro si configurano i reati, di cui agli artt. 19, comma 1, lett. f), e 56, comma 1, lett. a), d.lgs. 81 del 2008, per il soggetto, che in qualità di preposto dell’azienda abbia omesso di intervenire sulle modalità pericolose di rimozione e movimentazione delle flange, sulla sospensione della fase lavorativa e sulla immediata comunicazione al datore di lavoro

Suprema Corte di Cassazione

sezione III penale

sentenza 3 novembre 2016, n. 46169

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSI Elisabetta – Presidente
Dott. DI STASI Antonella – Consigliere
Dott. GAI Emanuela – Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
Dott. RICCARDI Giuseppe – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

Avverso la sentenza del 07/04/2015 del Tribunale di Venezia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Giuseppe Riccardi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. BALDI Fulvio, che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 7 aprile 2015 il Tribunale di Venezia ha condannato (OMISSIS) alla pena di Euro 500,00 di ammenda, in ordine al reato di cui al Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 19, comma 1, lettera f), e Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 56, comma 1, lettera a), per aver, in qualita’ di preposto della societa’ ” (OMISSIS)”, omesso di intervenire sulle modalita’ di rimozione e movimentazione delle flange, sospendendo la fase lavorativa e dando immediata comunicazione al datore di lavoro.

2. Avverso tale provvedimento il difensore dell’imputato ha proposto appello.

3. La Corte di Appello di Venezia disponeva la trasmissione dell’appello alla Corte di Cassazione, rilevando trattarsi di sentenza inappellabile, ai sensi dell’articolo 593 c.p.p., comma 3, in conformita’ al principio della conversione in ricorso per cassazione.

4. Il difensore dell’imputato, con l’atto di appello proposto, avanzava richiesta di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 c.p.p., comma 2, ovvero, in subordine, richiesta di riduzione della pena, concentrando le proprie censure sul rilievo che non sarebbe da escludere che i lavoratori avessero deciso autonomamente, nonostante il sopralluogo del 07/07/2011, di movimentare le flange mediante rotolamento e non con l’ausilio di mezzi meccanici, e che comunque il POS dell’impresa non imponeva un fermo dell’attivita’, non specificando le modalita’ di smontaggio e montaggio delle flange.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ inammissibile.

Invero, secondo il principio affermato dalle Sezioni unite di questa Corte, la conversione del mezzo di impugnazione, ai sensi dell’articolo 568 c.p.p., comma 5, e’ ammessa soltanto allorquando esso corrisponda, ad onta dell’erronea indicazione del nomen iuris, alla effettiva volonta’ dell’interessato, e non anche quando quest’ultimo abbia effettivamente voluto ed esattamente denominato il mezzo di impugnazione non consentito dalla legge, dovendo in quest’ultimo caso dichiararsi inammissibile l’impugnazione (Sez. U., n. 16 del 26/11/1997, Nexhi, Rv. 209336: “In tema di impugnazioni, il precetto di cui all’articolo 568 c.p.p., comma 5 secondo cui l’impugnazione e’ ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta, deve essere inteso nel senso che solo l’erronea attribuzione del “nomen juris” non puo’ pregiudicare l’ammissibilita’ di quel mezzo di impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta “etichetta”, abbia effettivamente inteso avvalersi: cio’ significa che il giudice ha il potere-dovere di provvedere all’appropriata qualificazione del gravame, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volonta’ della parte di attivare il rimedio all’uopo predisposto dall’ordinamento giuridico. Ma proprio perche’ la disposizione indicata e’ finalizzata alla salvezza e non alla modifica della volonta’ reale dell’interessato, al giudice non e’ consentito sostituire il mezzo d’impugnazione effettivamente voluto e propriamente denominato ma inammissibilmente proposto dalla parte, con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile: in tale ipotesi, infatti, non puo’ parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come tale suscettibile di rettifica “ope iudicis”, ma di una infondata pretesa da sanzionare con l’inammissibilita’”).

E’ pertanto inammissibile l’impugnazione proposta con mezzo di gravame diverso da quello prescritto, quando dall’esame dell’atto si tragga la conclusione che la parte impugnante abbia effettivamente voluto ed esattamente denominato il mezzo di gravame non consentito dalla legge (Sez. 2, Sentenza n. 47051 del 25/09/2013, Ercolano, Rv. 257481; Sez. 5, Sentenza n. 10092 del 26/05/2000, Della Pepa, Rv. 217524).

2. Nel caso in esame, dal nomen iuris attribuito all’atto di impugnazione, invero reiterato anche nelle richieste finali alla Corte di Appello, e dal contenuto del gravame, emerge che intenzione indiscutibile dell’interessato e’ stata appunto quella di proporre appello e non ricorso per cassazione, in quanto il tenore dei prospettati motivi di gravame concerne esclusivamente profili di merito (ruolo assunto dall’imputato, condotta posta in essere, ed eccessivita’ della pena inflitta), insindacabili in sede di legittimita’, sulla base dei quali viene fondata la richiesta di assoluzione in virtu’ di una rilettura del compendio probatorio posto a fondamento dell’affermazione di responsabilita’ penale, ovvero una richiesta di riduzione della pena.

3. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l’articolo 616 c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilita’, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilita’ dichiarata ex articolo 606 c.p.p., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilita’ pronunciata ex articolo 591 c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende

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