L’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, richiede ai fini della punibilità del reato di dichiarazione infedele la doppia soglia indicata dal comma primo, ossia richiede congiuntamente che: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila; e che, b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA 28 settembre 2016, n.40317
Ritenuto in fatto
Con sentenza emessa in data 10/06/2015, depositata in data 24/07/2015, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Pavia, ex tribunale di Voghera, del 18/11/2013, appellata dagli attuali ricorrenti, che li aveva riconosciuti colpevoli del reato di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, relativamente all’anno di imposta 2007, condannandoli alla pena di 1 anno di reclusione ciascuno, condizionalmente sospesa per il solo M.M. , oltre alle pene accessorie temporanee determinate nella stessa misura di quella principale.
Hanno proposto congiunto ricorso M.M. e M.V. a mezzo del comune difensore fiduciario cassazionista, impugnando la sentenza predetta con cui deducono quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Deducono, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c), cod. proc. pen., per violazione degli artt. 552 e 522 cod. proc. pen. con conseguente nullità della sentenza ex art. 185 cod. proc. pen..
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono i ricorrenti, la Corte di appello avrebbe erroneamente respinto il motivo di appello con cui si contestava la nullità della imputazione per non essere la stessa stata formulata in forma chiara e precisa; la Corte d’appello ha rigettato l’eccezione sostenendo che la mera specificazione dei periodi in cui gli imputati avevano rivestito la carica di amministratore unico fosse da ritenersi ininfluente perché il diritto di difesa si era potuto ampiamente esplicare, essendo gli imputati consapevoli sin dall’origine dei fatti contestati. In realtà, sostengono i ricorrenti, l’imputazione originaria non consentiva di difendersi, non essendo possibile identificare rispetto a quale o a quali reati in relazione ai diversi periodi d’imposta, ciascuno degli imputati fosse chiamato a rispondere; inoltre, si aggiunge, la semplice indicazione del periodo temporale in cui ciascuno degli imputati ha ricoperto la carica di amministratore unico della società, senza alcun riferimento ad una imputazione titolo di concorso, non consentiva di comprendere a quale dei due imputati fossero ascritte le infedeltà per ciascun periodo d’imposta, trattandosi di reati formali per cui vi sono scadenze previste, al cui mancato rispetto si collega la punibilità della fattispecie; che del resto il capo d’imputazione non fosse chiaro, è dimostrato dal fatto che in sentenza è stata riconosciuta un’ipotesi concorsuale, mai contestata.
2.2. Deducono, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) ed e), cod. proc. pen., per violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. ed omessa motivazione in ordine alla mancata correlazione tra imputazione e sentenza in punto di concorso di persone nel reato.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono i ricorrenti, la Corte di appello avrebbe erroneamente respinto la censura riguardante la mancata correlazione tra la imputazione e la sentenza, avendo quest’ultima ritenuto ambedue gli imputati colpevoli dell’unica ipotesi di reato relativa alla dichiarazione infedele per l’anno d’imposta 2007, a titolo di concorso, laddove la contestazione originaria contemplava unicamente la responsabilità in capo all’amministratore unico in carica al momento del fatto; la Corte d’appello avrebbe totalmente omesso di pronunciarsi sul punto limitandosi ad affermare che la condotta, asseritamente contestata in fatto, rappresentava il frutto del contributo causale di entrambi gli imputati, alla luce del loro legame familiare e della condivisione degli interessi societari; la Corte d’appello avrebbe dunque errato, atteso che non vi è alcun riferimento nella contestazione all’art. 110 del codice penale, sicché deve ritenersi che la immutazione operata dai giudici di merito sia lesiva del diritto di difesa, comportando una trasformazione essenziale del fatto addebitato, non risultando fornita a nessuno dei due imputati la possibilità di difendersi in relazione ad un’accusa di aver non già posto in essere la condotta lesiva del bene protetto, bensì di aver fornito un non meglio definito e comunque mai contestato apporto causale alla condotta dell’altro imputato.
2.3. Deducono, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) ed e), cod. proc. pen., in ordine al mancato superamento della soglia di punibilità anche per l’anno 2007, con riferimento alla mancata generazione di ricavi nell’operazione con la L.F. immobiliare s.r.l..
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono i ricorrenti, la Corte di appello, nonostante fosse stata investita di apposita censura riguardante l’operazione sopraindicata, la quale non avrebbe generato ricavi stante l’inadempienza della società acquirente, non avrebbe minimamente motivato sulla stessa; per tali ragioni, sostengono i ricorrenti, difettava in relazione a tale operazione il presupposto della imposizione fiscale, con la conseguenza che anche per l’anno 2007 l’Iva risultava al di sotto della soglia di punibilità del fatto, con conseguente necessità di addivenire ad una pronuncia assolutoria non essendo il fatto previsto dalla legge come reato.
2.4. Deducono, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., per violazione degli artt. 62 bis cod. pen. e 133, comma primo, n. 2, cod. pen., e correlati vizi motivazionali.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono i ricorrenti, la Corte di appello non avrebbe risposto adeguatamente alla censura sollevata con i motivi di appello circa la irrogazione della sanzione particolarmente elevata, limitandosi a giustificare il trattamento sanzionatorio riferendosi alla entità dell’imposta evasa; sostengono i ricorrenti che detto riferimento, in reati caratterizzati dalla presenza di soglie quantitative di punibilità, non può certo essere rapportato al valore assoluto dell’evasione, giacché altrimenti non sarebbero mai concedibili le attenuanti generiche né potrebbe applicarsi la sanzione nella misura minima; il riferimento dunque dovrebbe farsi al valore dell’imposta evasa in eccedenza rispetto alla soglia di punibilità, valutata dal legislatore con il limite della rilevanza penale del fatto; poiché la soglia di punibilità vigente all’epoca del fatto era pari ad euro 103.291,38, essendo stata contestata una sottrazione d’IVA all’imposizione pari ad euro 105.866,00, ne discende che l’importo evaso da ritenersi penalmente rilevante ammontava ad una cifra pari a poco più di Euro 2000, ciò che avrebbe consentito sia il riconoscimento delle attenuanti generiche che la irrogazione del minimo della pena.
Considerato in diritto
La sentenza dev’essere annullata con rinvio al fine di chiarire l’attuale perseguibilità penale dei fatti, a seguito dell’intervenuto mutamento della previsione sanzionatoria per effetto del disposto del d.lgs. n. 158 del 2015.
Possono, anzitutto, essere trattati congiuntamente, attesa la omogeneità dei profili di doglianza ad essi sottesa, il primo ed il secondo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti contestano la formulazione del fatto in forma chiara e precisa quanto alla fattispecie di reato contestata anche in relazione all’esito condannatorio nonché, ancora, l’aver la Corte d’appello pronunciato condanna a titolo di concorso, laddove l’imputazione era stata contestata singolarmente a ciascun ricorrente.
Sulla questione, al fine di rilevare la manifesta infondatezza della doglianza, è sufficiente qui richiamare quanto argomentato dalla Corte d’appello alla pag. 4 della sentenza impugnata (alla cui lettura integralmente si rinvia per ragioni di economia motivazionale e non essendo del resto richiesto né imposto a questa Corte di ripercorrere le argomentazioni giustificative dei giudici di merito che imporrebbero alla Corte di legittimità una ricognizione degli elementi di fatto oggetto di apprezzamento da parte del giudice di merito, ciò che fuoriesce dall’ambito cognitivo del giudice di legittimità), la quale spiega dettagliatamente le ragioni per le quali, da un lato, non poteva ritenersi violato il principio di correlazione, e, dall’altro, perché il reato potesse considerarsi frutto della volontà comune degli imputati, padre e figlio.
La Corte territoriale mostra, infine, di far buongoverno del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando, contestato a taluno un reato commesso ‘uti singulus’, se ne affermi la responsabilità in concorso con altri (Sez. 6, n. 21358 del 05/05/2011 – dep. 27/05/2011, Cella, Rv. 250072; Sez. 6, n. 24438 del 06/05/2005 – dep. 28/06/2005, Musiu ed altri, Rv. 231855; Sez. 1, n. 2794 del 29/01/1998 – dep. 04/03/1998, Presti, Rv. 210005). Ne discende, pertanto, che l’aver il giudice ritenuto responsabili in concorso i due ricorrenti a fronte dell’imputazione originaria che articolava la contestazione ‘uti singuli’ a ciascuno di essi, in applicazione di tale giurisprudenza, non comporta alcuna violazione di legge.
Passando poi ad esaminare il terzo motivo di ricorso, con riferimento alla operazione commerciale Ifimm s.r.l./Inner, il motivo di appello su cui la Corte d’appello non avrebbe motivato era, ad avviso di questo Collegio, sin dall’origine manifestamente infondato.
Ed invero, l’affermazione secondo la quale l’operazione non avrebbe generato ricavi per la Immer difettando il presupposto della imposizione fiscale, oltre non essere stata documentata (essendo rimasta al rango di labiale affermazione dei ricorrenti davanti a questa Corte, laddove, invece, in tema di ricorso per cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione di specifici atti processuali, provvedere alla trascrizione in ricorso dell’integrale contenuto degli atti medesimi, nei limiti di quanto già dedotto, perché di essi è precluso al giudice di legittimità l’esame diretto, a meno che il ‘fumus’ del vizio non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso: Sez. 1, n. 6112 del 22/01/2009 – dep. 12/02/2009, Bouyahia, Rv. 243225), non incide sulla determinazione della soglia di punibilità per il periodo di imposta 2007, atteso che – in relazione al predetto periodo – la stessa era da considerarsi operazione sicuramente imponibile in quanto consistente nella vendita di due appartamenti per un importo di Euro 220.000 oltre Iva nella misura del 10% pari ad euro 20.000,00 che, a dire della difesa, solo l’anno successivo a quello di riferimento agli effetti del presente giudizio, ossia in data 22 febbraio 2008, sarebbe stato oggetto di risoluzione per inadempimento della parte acquirente. La difesa non solo non si è nemmeno fatta carico di fornire la prova documentale di quanto sopra al fine di far rilevare la pretesa omissione motivazionale, ma non ha comunque tenuto conto che, in relazione all’anno d’imposta 2007, sicuramente tale operazione era da considerarsi rilevante agli effetti fiscali, e dunque avrebbe dovuto essere esposta nella dichiarazione dei redditi ed Iva, non potendosi quindi la stessa computare in diminuzione al fine di ritenere non raggiunta la soglia di punibilità.
Trova, conclusivamente, applicazione il consolidato principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato (v., tra le tante: Sez. 5, n. 27202 del 11/12/2012 – dep. 20/06/2013, Tannoia e altro, Rv. 256314).
Per quanto, infine, concerne il diniego delle circostanze attenuanti generiche e le censure attinenti al trattamento sanzionatorio, deve anzitutto premettersi che la Corte d’appello ha ritenuto prevalenti in senso escludente l’articolo 62 bis codice penale i precedenti a carico di entrambi gli imputati. Trattasi di operazione corretta in diritto, poiché, come più volte affermato da questa Corte, la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008 – dep. 14/11/2008, Caridi e altri, Rv. 242419).
Quanto poi alla determinazione del trattamento sanzionatorio rispetto al quale la Corte d’appello, secondo la difesa, non avrebbe tenuto conto della sola differenza tra l’eccedenza della soglia di rilevanza penale e l’effettivo ammontare dell’imposta evasa, deve qui rilevarsi che, in relazione all’articolo 4, decreto legislativo n. 74 del 2000, rileva non soltanto l’indicazione dell’evasione di imposta, ma anche l’ulteriore parametro indicato dalla legge: in ogni caso corretto è il riferimento al complessivo ammontare dell’imposta evasa e la pena base è stata determinata in un anno e sei mesi di reclusione, che, tenuto conto dei limiti e di pena (da uno a tre anni) non è superiore al medio edittale.
Trova quindi applicazione il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283).
Deve, tuttavia, rilevarsi che dalla motivazione della sentenza impugnata non è chiara l’esatta determinazione dell’imposta sui redditi evasa; ed infatti, si legge alle pagg. 4 e 5 della sentenza che, relativamente all’annualità 2007, in sede di dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi la società non aveva indicato alcun ricavo, pur registrando in contabilità fatture per Euro 1.385.000, né esposto alcun utile o perdita, la situazione economico patrimoniale al 31 dicembre 2007 riportava un utile pari ad euro 441.583 ed era indicata al rigo RM2 con una perdita pari a Euro 6, mentre al rigo VL39 era riportato un totale di Iva a credito pari ad Euro 65.024,00, mentre in contabilità era annotato un credito pari ad Euro 14.507. Affermano i giudici di appello che la società aveva presentato dichiarazione infedele, dichiarando redditi per cessione di beni e prestazioni pari a zero a fronte di ricavi ricostruiti in Euro 1.605.000. Si aggiunge ancora che, come riferito dal Ma. , le dichiarazioni dei redditi annuali, per espressa richiesta di M.V. , erano state presentate in bianco con operazioni attive passive pari a zero, donde la necessità per la Guardia di Finanza di procedere alla ricostruzione analitica di ricavi e volumi d’affari, giungendo a determinare gli importi accertati.
Ora, se per quanto riguarda la dichiarazione Iva è possibile dalla motivazione della sentenza individuare in modo certo l’ammontare dell’imposta evasa, non altrettanto deve rilevarsi con riferimento all’imposta sui redditi, tenuto conto della struttura della fattispecie penale oggetto di contestazione. Ed infatti, l’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, richiede ai fini della punibilità del reato di dichiarazione infedele la doppia soglia indicata dal comma primo, ossia richiede congiuntamente che: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila; e che, b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni. Trattasi di previsione normativa, frutto delle modifiche introdotte dall’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, che si pone in continuità normativa con quella previgente, ma che si appalesa indubbiamente più favorevole atteso l’innalzamento delle soglie di punibilità operato dal legislatore del 2015 (in particolare, da un lato, la soglia di punibilità correlata all’imposta evasa è stata portata da 50.000,00 a 150.000,00 euro e, dall’altro, la soglia del valore degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è stata innalzata da due a tre milioni di Euro).
Non essendo possibile determinare sulla base della motivazione della sentenza la soglia del valore degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, trattandosi di svolgere un accertamento fattuale in quanto la norma richiede che le condizioni sussistano ‘congiuntamente’, la sentenza dev’essere annullata con rinvio alla Corte d’appello, altra sezione, al fine di procedere a detta determinazione verificando la sussistenza, in base alla nuova normativa, del superamento o meno della doppia soglia di punibilità normativamente richiesta.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano.
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